Vittorio Rieser: A proposito delle dimissioni di Joseph Ratzinger
Lo Spirito Santo twitta dove e come vuole” (Benedetto XVI)
Le dimissioni di Joseph Ratzinger dal suo incarico aprono una profonda crepa nell’ecclesiologia cattolica, cioè nel principale fondamento identitario della chiesa cattolica.
Sappiamo infatti che l’elemento insanabile di rottura tra Lutero e la chiesa cattolica non era tanto teologico (la salvezza per grazia – in nome della quale Lutero combatteva – rientrava nell’ortodossia cattolica – si veda san Tommaso – anche se era stata offuscata dalla prassi della chiesa), quanto ecclesiologico, relativo cioè alla natura e alla funzione della chiesa. Il concetto che esprime emblematicamente questa rottura è il sacerdozio universale dei credenti; ma questo a sua volta deriva dall’affermazione che la chiesa non è amministratrice della grazia, ma ha solo la funzione di predicare (in modo umano, quindi inevitabilmente imperfetto) la parola di Dio (di Cristo). Il pastore (quindi anche quello che è posto a capo della chiesa) è, per così dire (mutuando da un linguaggio a noi ben noto), solo un “predicatore di professione”, che assume integralmente come “Beruf” ciò che anche gli altri credenti fanno.
(Mi scuso per l’approssimatività teologica delle mie formulazioni, basate su lontane reminiscenze del bellissimo libro – incompiuto – di Giovanni Miegge su Lutero, coltivate poi nelle mie lunghe frequentazioni di Agape).
Per la chiesa cattolica, il rapporto tra la chiesa e la grazia di Dio è garantito, e altrettanto lo è quello dell’”amministratore delegato della grazia” (CEO gratias! vien da dire) e lo Spirito Santo (cioè il capo delle “relazioni esterne” di Dio). L’inadeguatezza del CEO-papa, come quella della chiesa s.p.a., non incide sulla natura del rapporto – anche se quella della chiesa può ridurre l’efficacia della sua azione.
Per questo le dimissioni di Ratzinger introducono un elemento di rottura. Osservatori laici, come Ezio Mauro, hanno giustamente sottolineato il riferimento alla “responsabilità” come un’innovazione dirompente, come l’entrata del “moderno” (laico) nel linguaggio e nell’apparato concettuale della chiesa cattolica. Ma non ne hanno colto l’elemento di “rottura interna”, cioè di discontinuità ecclesiologica.
Nel momento in cui Ratzinger si dimette, perché non si ritiene più all’altezza dei suoi compiti, implicitamente si riferisce alla chiesa come un insieme di credenti che predicano la parola di Dio, e a sé come colui che dovrebbe guidare – in modo che può essere più o meno adeguato – questa predicazione. E le “garanzie” (assolute) che stavano alla base della concezione della chiesa cattolica, dove sono andate a finire? … il sito web htttp://spiritosanto non risponde…
Non intendo certo entrare nelle motivazioni della scelta di Ratzinger. Provo però a “tradurre” la sua scelta in termini a me più familiari di quelli teologico-ecclesiastici, cioè riferendomi ai partiti comunisti “storici”.
Può capitare che il capo del partito si accorga (con maggiore o minore grado di consapevolezza) che il partito non sta più compiendo la sua missione, anzi – in misura maggiore o minore – la contraddice. Può scegliere, come Mao Zedong, la via più radicale: fare appello alle masse per lottare contro il partito. Ma Mao aveva una superiore lucidità di analisi, e poi aveva un fondo anarchico… Può invece scegliere vie meno radicali: fare l’autocritica, lanciare una campagna di rettifica, o dimettersi – assumendo sulla propria inadeguatezza quelle che sono le contraddizioni del partito.
Ratzinger ha scelto quest’ultima via; d’altra parte, non poteva sviluppare fino in fondo un’analisi critica di una chiesa che aveva contribuito così pesantemente a “restaurare”. Si è comportato così come un disciplinato “compagno – pardon, pastore – tedesco”. Ma così facendo ha innescato una bomba i cui effetti ritardati non sono ben prevedibili e controllabili. (Per sua fortuna, non rischia di finire nel gulag – o in prigione come Celestino V° – ma solo in un monastero in Svizzera…).
Una favoletta a mo’ di postilla
Come si sa, la chiesa cattolica sarà un po’ arretrata sul piano religioso, ma su altri terreni è molto aggiornata. Per cui, di fronte alle dimissioni di Benedetto XVI, corse ai ripari attingendo all’armamentario del liberismo imperante. “Mai più un papa a tempo indeterminato!” si dissero gli alti prelati: “è un rischio che non possiamo correre: le sue dimissioni fanno crollare le nostre quotazioni, e ancor peggio sarebbe se – contando sulla garanzia del posto – dicesse cose in contrasto con la linea”.
Quindi cominciarono a studiare l’ampia tipologia di contratti precari. L’interinale non andava bene, in quanto “lavoro somministrato”: chi lo somministrava? lo Spirito Santo? non aveva personalità giuridica. Magari l’Opus Dei… ma non si poteva dirlo, e poi avrebbe acquistato troppo potere. Anche il contratto a termine non andava troppo bene, era un po’ troppo rigido e poi sembrava sminuire troppo l’incarico.
Alla fine, optarono per il co.co.pro.: il papa sarebbe stato assunto per realizzare un progetto specifico, che poteva consistere in un’enciclica, o nella normalizzazione di qualche area della chiesa, e così via. Il contratto fu ribattezzato ca.co.pro.: catholicae communitatis projectus.
E per un po’ la cosa funzionò bene: la produttività papale aumentò, e inoltre nulla impediva di rinnovare l’incarico se il “papa ca.co.pro.” aveva funzionato bene. Ma a un certo punto capitò un papa che, anziché lavorare al progetto assegnatogli, si mise ad attaccare la chiesa, dalla Curia in giù. Fu subito convocato e gli si chiese ragione di questa sua grave violazione contrattuale. Ma lui disse che aveva scambiato il “pro.” per una abbreviazione di “propheta”, e continuò per la sua strada, producendo un bel casino.
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