Paola Paderni: Armonia nella diversità o Grande armonia? Ritorno a Confucio/5
Prosegue con questo intervento di Paola Paderni (professore associato di Storia e istituzioni della Cina all’Università di Napoli “L’Orientale” e Segretario generale dell’Associazione italiana di studi cinesi), il dibattito a cura di Amina Crisma sul libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. I precedenti interventi di Luigi Moccia, Ignazio Musu e Guido Samarani sono stati pubblicati nella rubrica “Osservatorio Cina” di questa rivista . Il prossimo intervento è di Giangiorgio Pasqualotto .
Il libro di Maurizio Scarpari Ritorno a Confucio (Il Mulino 2015) è insolito nel panorama della pubblicistica italiana sulla Cina e non solo sulla Cina. È difficile, infatti, trovare opere di divulgazione scritte da esperti, poiché l’accademia italiana, a differenza di altri paesi, non apprezza questo tipo di operazioni, ossia non le premia dal punto di vista della carriera, scoraggiandone quindi la produzione. Scarpari, invece, ormai fuori dal sistema universitario, offre ad un pubblico colto ma non specialista una panoramica aggiornatissima di quanto succede oggi in Cina. E lo fa mettendo a disposizione il suo mestiere di ricercatore unito alla passione dell’uomo che guarda al suo oggetto di studio in una prospettiva diversa, non più la classicità e l’antica civiltà ma la Cina contemporanea, consapevole dell’importanza che questo paese ha assunto per il mondo di oggi.
Non è necessario qui ripetere il contenuto del saggio, il cui titolo, del resto, rimanda subito al suo argomento principale, se n’è, infatti, parlato già su questa rivista così come in molte altre recensioni. Come lettrice specialista mi preme, piuttosto, fare alcune osservazioni su alcuni punti che pur affrontati dall’autore, potrebbero non essere recepiti in modo chiaro da un lettore digiuno di storia e di attualità cinese. È importante, infatti, per aprire una riflessione, come ha inteso fare Inchiesta, su quali possono essere gli esiti e le sfide che le trasformazioni in atto possono avere sul nostro futuro, che vi sia anche una maggiore chiarezza su dinamiche politiche, sociali e culturali della Cina contemporanea.
Una prima e importante premessa è che l’immagine che ci costruiamo di questo paese è sì spesso frutto di nostri pregiudizi e fraintendimenti ma a volte è distorta volutamente o meno dai cinesi stessi. Prendo qui, come esempio – calzante con l’argomento trattato nel libro di Scarpari, ritorno e/o continuità della tradizione – la frase pronunciata da Mao Zedong nel 1958, nella quale egli paragona i seicento milioni di contadini cinesi a “un foglio bianco”, sul quale i più eleganti caratteri e le più belle pitture si sarebbero potuti scrivere e disegnare. La storia ha rivelato la falsità dell’affermazione, frutto di una posizione ideologica che non teneva conto della realtà e che il paese ha pagato duramente.
Ritorno o meglio, forse, riemersione, ma di quale confucianesimo? Gli studiosi sanno che non si può parlare di confucianesimo come un’unica coerente scuola di pensiero e che molti e anche contrastanti valori possono essere riconducibili ad esso. Certamente è dagli anni 80 che il PCC ha incoraggiato studi sul pensiero tradizionale ma l’ha fatto guardando all’indietro in modo selettivo e non generico. Da una parte si trattava di interrompere con il decennio sventurato della Rivoluzione culturale ma dall’altra, soprattutto, di dare risposte alla domanda impellente di caratterizzare come cinese una scelta di sviluppo originale.
Dall’inizio del XXI secolo con l’impellente necessità di affrontare difficoltà e conseguenze di uno sviluppo tumultuoso, il PCC ha cominciato a individuare nel concetto di ‘armonia’ l’alternativa e/o la soluzione cinese alla crisi morale scaturita da quello sviluppo. Armonia è sì un concetto che si trova nei classici confuciani ma può essere declinato ed è stato storicamente letto in modi diversi: armonia nella diversità he er bu tong 和而不同 (vedi anche Scarpari p. 140), ma anche Da Tong, Grande armonia. Un concetto, quest’ultimo, centrale nell’elaborazione teorica di Kang Youwei, pensatore di fine Ottocento, che invece asseconda e persegue l’uniformità.
Secondo l’agenzia Xinhua l’espressione più usata da Wen Jiabao durante la sua visita negli USA nel 2003 è stata armonia nella diversità. L’espressione però dalla metà degli anni 2000 ha cominciato a divenire meno popolare a vantaggio di Grande armonia. Ad un lettore attento che si interessa di Cina non sfugge quanto sia ampio il dibattito interno su questi temi che produce scontri, anche duri, tra sostenitori dell’una o dell’altra interpretazione. L’uso politico del PCC del pensiero e dell’ideologia tradizionale da affiancare al marxismo allo scopo di legittimarsi, ha facilitato l’emergere di un gruppo di accademici e intellettuali pubblici che utilizzando un lessico di tipo confuciano promuovono un discorso che ha come obiettivo quello di combattere posizioni politiche che competono con le loro. Uno studioso americano li ha felicemente battezzati Neo-Kong, dove Kong è il cognome cinese di Confucio, ma l’espressione rimanda ai più noti Neo-con americani. Anche la cosiddetta Nuova sinistra oltre a richiamarsi alla ‘tradizione’ maoista sposa tratti della tradizione premoderna, in un’ideologia composita che integra eguaglianza e gerarchia. Questi due schieramenti alle estremità del semicerchio hanno in comune di essere avversari dell’Occidente e di voler a tutti i costi presentarsi come ad esso alternativi. Ma questo non ci deve spaventare perché va ribadito che il mondo politico e intellettuale, così come la società cinese, sono molto più articolati e complessi di quanto possa apparire e, come succede anche da noi, sono sempre coloro che si pongono agli estremi ad alzare la voce.
In questo contesto, come giudicare l’attuale dirigenza del PCC? Xi Jinping non rappresenta una cesura con i precedenti segretari del PCC ma anzi la continuità di scelte politiche e ideologiche compiute in precedenza. La differenza sta nella gravità del momento di transizione che vive la Cina e di conseguenza il PCC. Xi Jinping cerca di fare quanto può e all’interno dei limiti di un sistema autoritario per rinnovare il Partito e il Paese. A questo scopo il Partito è compatto e unito con lui, se non altro perché la posta in gioco è troppo alta. La leadership è ancora collettiva e basata sul consenso, ciò che è cambiato è la necessità, sotto la supervisione del segretario, di evitare che la separazione dei dossier all’interno della direzione centrale porti alla formazione di correnti e fazioni. In questa fase gli osservatori stranieri guardano con preoccupazione alle azioni e alle politiche messe in atto dal PCC che tendono a limitare fortemente una società civile cresciuta notevolmente negli anni dalla riforma in poi. Come spesso è accaduto dall’avvento al potere del PCC, l’apertura alla società ha coinciso con le rotture di unità all’interno del Partito, ed è allora che il sociale è stato in grado di tornare nel gioco politico approfittando degli scontri tra fazioni. Oggi che la sfida per il PCC è alta, il Partito preferisce perseguire la Grande armonia a scapito dell’armonia nella diversità, ma con quali risultati è difficile prevedere. A queste incognite sul futuro gli studiosi di Cina contemporanea sono da sempre abituati.
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