Pochi giorni fa, il 7 novembre 2019, dopo le minacce di morte sul web e uno striscione di Forza Nuova contro Liliana Segre invitata a Milano per un un evento pubblico, il prefetto Renato Saccone ha deciso di assegnare la tutela alla senatrice a vita Liliana Segre, deportata nel campo di concentramento di Auschwitz quando aveva 14 anni. Da oggi, avrà due carabinieri che la accompagneranno in ogni suo spostamento. La rete diffonde minacce di morte a Liliana Segre ma anche pagine importanti come il testo scritto da Liliana Segre: matricola 7519o Auschwitz. E’ un testo molto bello non solo per le puntuali denunce delle crudeltà subite ad Auschwitz (e non solo) ma per l’amore verso la vita, la lotta all’indifferenza e all’odio, l’impotanza della pietà e del silenzio, il legame profondo tra un padre e una figlia, la bellezza di un filo d’erba. Un testo da diffondere.
Avevo 8 anni ed ero una bambina, famiglia italiana da generazioni e generazioni. Facevo parte di quella minoranza di cittadini italianidireligione ebraica –trentacinquemila persone al tempo – che, di colpo, con le leggi razziali fasciste diventarono cittadini di serie B all’inizio, per poi arrivare a diventare di serie Z.
Otto anni e, all’improvviso, mi dissero che non potevo più andare a scuola. Era l’estate del 1938, avrei dovuto iniziare la terza elementare. I miei erano agnostici, laici, in casa non sentivo mai parlare di feste ebraiche, di questioni religiose o di appartenenze particolari, fu, quindi, per me, molto più difficile, anche per questo, rendermi conto che mentre io mi sentivo così uguale alle altre bambine, venivo da quel momento considerata una diversa. Ed è stato allora, quando il mio papà cercò di spiegarmi che non potevo più andare a scuola per quelle leggi razziali fasciste, che io ho strappato il cordone della mia infanzia. Mi ricordo tutto di quell’istante. Epoi? Sono andata in una scuola privata che mi ha accolto. Le ragazzine, con le quali avevo frequentato la prima e la seconda elementare, nel quartiere, quando mi incontravano, mi segnavano col dito. Era una sensazione strana: erano le stesse bambine con cui avevo diviso il banco, con cui avevo trascorso la ricreazione, con cui avevo partecipato a giochi, afestine, a quelle piccole cose delle piccole vite di 8 anni,e improvvisamente quelle mie piccole coetanee mi vedevano come «la Segre». «Lei è la Segre, non può più venire a scuola perché è Ebrea». È stato un momento strano: mi sentivo talmente uguale alle altre ed ero considerata da loro diversa. Nella nuova scuola io non parlavo mai di quello che succedeva a casa mia. Cercavo di non essere diversa, volevo essere uguale alle altre, e quindi non raccontavo che nelle nostre case di borghesi piccoli piccoli, veniva la polizia, e che era un’impressione incredibile per noi: mio padre e mio zio erano stati ufficiali della grande guerra, erano patrioti, mio zio era persino fascista e si era sposato, forse l’anno prima, nel ’37, proprio in camicia nera. Era assurdo, per una famiglia borghese come la nostra, avere improvvisamente la sensazione di essere dichiarati nemici della patria.
E mi ricordo della Polizia che veniva a controllare documenti, che venivacon aria truce a guardarci con sospetto. E mi ricordo come, attaccata al vestito di mia nonna che andava a aprire, io vedessi questi poliziotti che mi sembravano tanto grandi, entrare con aria battagliera ed essere ridimensionati dalla vecchia signora piemontese, donna dell’Ottocento, che con garbo li faceva accomodare in salotto e offriva loro dei dolcetti. E le camicie nere venivano spiazzate da quest’atteggiamento e non sapevano bene come comportarsi. Ma mi ricordo anche che la nonna chiudeva la porta e mi mandava di là a giocare. E io ero combattuta tra la curiosità pazzesca di stare fuori dalla porta a origliare, sentire cosa avessero da dire quei poliziotti alla mia nonna, e la paura di quello che avrei potuto sentire.Andavo di là a giocare, ma diventavo grande.
La zona d’ombra dell’indifferenza.
Ero orfana di mamma, per cui mio padre era tornato a casa con i suoi genitori. In quegli anni della persecuzione, scrutavo i visi umiliati e dolenti delle persone che mi volevano bene, guardavo i loro occhi, sentivo i loro discorsi –quelli che mi facevano sentire –percepivo una zona d’ombra: quella dell’indifferenza, una costante: la violenza psicologia terribile di chi, pur non compiendo alcun gesto o non esprimendo alcun commento contro di noi, voltava però la faccia dall’altra parte: non erano persecutori, non erano carnefici… semplicemente non c’erano. Voltavano la faccia dall’altra parte.
E io mi ricordo di aver sentito in casa frasi simili a questa: «Abbiamo incontrato il tale e non ci ha salutato» oppure mi ricordo le telefonate anonime vigliacche, di cui anch’io qualche volta ero vittima perché andavo a rispondere al telefono, oppure le lettere anonime di cui sentivo parlare vagamente, capivo che arrivavano, traspariva dallo stato d’animo di chi aveva aperto la busta, leggendovi parolacce.Era la sensazione di essere soli. Una solitudine non cercata, una solitudine non d’élite, come lo è di solito. No! Era una solitudine forzosa, forzata.Edera la sensazione di essere guardati, di essere notati, come diversi. Ed era anche l’atteggiamento vigliacco di quelli che seguono il carro dei vincitori. È chiaro: è molto più facile stare vicino a chi ha denaro, a che è garantito e può garantire, ma quando si è provatoaessere dalla parte dei perdenti, allora si sa quanto sia importante un amico con la A maiuscola: noi, per fortuna, abbiamo avuto amici con la A maiuscola, che ci hanno fatto recuperare pienamente il significato della parola amicizia, che ha la stessa radice della parola amore. Ci sono stati gli amici eroici, quelli che hanno rischiato per noi anche la vita, e molti di loro sono onorati fra i Giusti a Gerusalemme, ma ci sono stati quei tanti che invece hanno fatto parte di quella zona grigia dell’indifferenza.
Così passarono gli anni della persecuzione in cui si aggiungevano, giorno dopo giorno, alle severe e umilianti leggi fasciste piccoli codicilli, che facevano sì che crescesse continuamente il numero delle proibizioni, dei veti, che ci allontanavano sempre più dalla società. Proibizioni anche assurde –tipo «è proibito avere un cavallo Ebrei» –proibizioni che hanno il sapore dell’incredibile, che non avevano alcun senso, ma che servivano ad annientare il nostro essere cittadini.
Cominciò la caccia all’uomo.
Allo scoppio della guerra, e quando ci furono i bombardamenti su Milano, luogo dove io ho sempre abitato, la maggior parte delle famiglie in grado di sfollare, lasciava la città. Eanche noi andammo in un paesino della Brianzaper sfuggire ai bombardamenti. Mio nonno era malato terminale del morbo di Parkinson. Sessant’anni fa, mio nonno era un povero vecchio ebreo malato e assolutamente non autosufficiente a causa di un male che lo aveva obbligato a stare su una sedia, trasportato qua e là per ogni minima sua necessità. Il cervello, invece, purtroppo per lui, era sveglissimo, e nonno era attento e disperato alla rovina della sua casa intorno a lui. Ma nessuno di noi si rendeva ancora conto, in quel momento, verso quale abisso stessimo sprofondando. Io amavo moltissimo nonno, e mi curavo di lui in modo totale, quasi tutta la giornata, visto che lì dove eravamo sfollati non potevo più andare a scuola. C’era solo una scuoletta pubblica di guerra e io ero assolutamente emarginata dalle altre mie coetanee. Stavo sempre a casa con lui e sentivo la radio dei vicini.
Ero diventata un’esperta di radio Londra. Noi nonpotevamo girare quella manopola, era uno dei divieti assurdi impostoci dalla polizia, venuta a casa per bloccare la radio su un’unica stazione italiana. Ma i nostri vicini, bravissime persone, erano cattolici, potevano girare la manopola e mi permettevano di andare da loro a sentire la radio. Si cresce in fretta in guerra e io diventavo ‘adulta’ ogni giorno di più nei miei dodici, tredici anni, mi arricchivo di esperienza per quello che stava succedendo.
Ero diventata un’esperta di bollettini di guerra, sia quelli ufficiali sia quelli di Radio Londra, una specie di rebus questi ultimi, con parole d’ordine abbastanza affascinanti che bisognava decodificare per capirne il contenuto tra le righe. La rovina era assoluta per noi perché le armate tedesche naziste stavano invadendo l’Europa e i vari eserciti cadevano come birilli. E là dove entravano le truppe tedesche, immediatamente per gli Ebrei era la fine. Ma ancora le notizie non arrivavano così dure come poi fu la realtà. Avvenne per noi nell’estate del 1943 quando, alla caduta del Fascismo, seguì prima un momento di euforia in cui speravamo di tornare a essere cittadini, poi un interminabile esperienza di sconforto, in cui perdemmo completamente tutte le speranze: dopo l’8 settembre i nazisti divennero padroni anche dell’Italia settentrionale.
Alle leggi razziali fasciste, severe e umilianti, si sovrapposero, le leggi di Norimberga, che avevano nel testo quelle due parole “soluzione finale” a cui nessuno, in fondo, voleva o poteva credere, e le leggi razziali fasciste della Repubblica di Salò, che forse erano anche peggiori delle leggi razziali di Norimberga. Cominciò la caccia all’uomo, un rastrellamento incredibile a dirsi, perché, in pieno tempo di guerra, invece di focalizzare l’attenzione sulle strategie e sulle tattiche belliche necessarie per contrastare i nemici che si aprivano varchi su vari fronti, i nazisti, in tutta l’Europa occupata da loro e quindi anche in Italia, si dedicarono alla ricerca spasmodica di ogni ebreo –anche bambini o neonati –capillarmente cercato. E si vedevano allora equipaggi di soldati armati fino ai denti che avrebbero terrorizzato anche altri individui armati, figuriamocipersone assolutamente inermi, borghesi, impreparati, increduli a una realtà come quella. Soldati aiutati da questori e prefetti italiani, che avevano consegnato loro gli elenchi precisi con gli indirizzi, già da tempo stilati dai fascisti: avevano organizzato la caccia all’uomo in modo che la ricerca degli occupanti nazisti fosse assolutamente semplificata.Il terrore, la disperazione, la paura, l’incapacità assoluta di renderci conto fino in fondo delle misure da prendere. L’organizzazione mentale di una soluzione creava ancor più confusione nel nostro cuore e nella nostra mente. Eravamo inadatti ad affrontare quel rastrellamento. Fu mio papà a decidere, unico uomo della famiglia, aveva allora 43 anni, dovette assumersi la responsabilità di mandarmi via da casa.Dovevamo fuggire in Svizzera
Anch’io avevo la carta d’identità falsa.
Quandomio padre riuscì ad averla da un impiegato corruttibile di un municipio e me la portò a casa, mi spiegò che avrei dovuto imparare a memoria quelle generalità false. Ero stupida, sicuramente. Ma mi ripugnava l’idea di assumere generalità non mie: mi era stato insegnato, nella mia famiglia di persone oneste, a non fingere, a dire sempre la verità, a presentarsi con pregi e difetti per quello che si è. Era profondamente umiliante sentirmi dire improvvisamente: «Impara a memoria queste generalità, perché non solo potrai salvarti tu, ma potrai anche salvare gli amici eroici che d’ora in poi ti terranno nascosta». Quando arrivò il momento di fuggire, con quella carta d’identità mi presentai nella casa di amici con la A maiuscola, che mi tennero nascosta per due mesi. Erano famiglie di persone normali che rischiavano la vita, perché c’era la pena di morte per chi nascondeva un Ebreo con carte false. Aprirono le loro porte e mi trattarono con grande affetto, come trattavano i loro figli. Ma in quel momento io avevo lasciato per sempre la mia casa.
Non sono mai più rientrata in quella casa, e non ho mai più visto i miei nonni amatissimi Olga e Giuseppe Segre.
Mio padre, mentre io ero nascosta e protetta da questi amici, riuscì ad avere un permesso per i suoi genitori: vista l’età e visto lo stato di salute ditutti e due erano –come scopri dopo la guerra leggendo il documento che papà aveva conservato –«impossibilitati a nuocere al Grande Reich tedesco». In seguito, quando già tante altre tragedie si erano compiute, i miei nonni furono arrestati nella loro casa, portati a Fossoli e dopo essere stati a Fossoli, portati a Milano, a San Vittore, e da lì deportati ad Auschwitz, dove arrivarono vivi per essere gasati e bruciati all’arrivo per la sola colpa di esser nati.
All’epoca non sapevamo. Non avremmo mai immaginato che altri uomini e altre donne avessero preparato una simile realtà per esseri umani colpevoli solo di esser nati Ebrei. Gli amici ospitanti, visto quel lasciapassare che dava tranquillità a mio papà –perché noi naturalmente eravamo ben contenti di credere a quel permesso –ci aiutarono a trovare dei contrabbandieri che a quel tempo dietro Varese, ai piedi delle montagne che confinano con la Svizzera, per cifre da capogiro, accompagnavano i clandestini fino al confine, naturalmente sulle montagne, là dove passavano i cosiddetti “spalloni”, dediti al contrabbando di persone e di sigarette in Svizzera. Ricordo che immaginavo quella fuga come una meravigliosa avventura e spingevo tantissimo papà perché la volesse compiere insieme a me. Eravamo ormai tranquilli per i nonni e potevamo fuggire in Svizzera. Fu un’avventura ma certamente non alieto fine.
Lasciammo la casa dei nostri amici Civellia Legnano e ci imbarcammo prima su autobus, poi corriere, funivie, filovie… il terrore a ogni fermata, quando la polizia saliva a controllare i documenti. Finalmente arrivammo con le nostre carte false. Arrivammo in un paesino, si chiama Viggiù, e poi a Saltrio, dove ci aspettavano i contrabbandieri. In una notte, in un’alba –sembrava di compiere un’avventura straordinaria –correvamo sulla montagna, io con la mano nella mano di mio papà, con altri due vecchi cuginiche si erano uniti a noi,correvamosu quella montagna che ci portava in Svizzera: terra di libertà… Con grande fatica attraversammo quei buchi nella rete così stretti per noi, vestiti da città, e inadatti alla clandestinità. Era inverno, dicembre, e noi ci provammo. Riuscimmo a passare dall’altra parte, ci abbracciammo quando i contrabbandieri ci dissero: «Correte, correte che arrivano adesso, a quest’ora le sentinelle, correte, avanti, è la terra di nessuno, correte, al di là c’è la Svizzera».
E quando scendemmo da quella cava di sassi, arrivammo nel boschetto, ci voltammo indietro a guardare le montagne che con una fatica infinita eravamo riusciti a passare. Eravamo felici, eravamo liberi, non avremmo dovuto più fuggire.
Ma non fu così.
L’ufficiale del comando di Arzo, il primo paese del Canton Ticino, ci disse: «Ebrei, perseguitati in Italia? Non è vero, siete degli impostori». Avevamo buttato le carte d’identità false sulla montagna e avevamo conservato i documenti autentici perché ci era stato riferito che gli Svizzeri non ci avrebbero accettato con le carte false, sapevamo bene che con i nostri documenti non avevamo più possibilità di tornare indietro. Fu un momento tremendo, eranole speranze perdute. Mi ricordo che mi buttai per terra, inginocchiata ai piedi di quell’ufficiale e lo supplicai: «Ci tenga, la prego, di là ci ammazzano». Ma quello mi respingeva come si fa con un cucciolo. Mi hanno invitato due o tre volte a intervenire a programmi della televisione svizzera, ultimamente mi hanno anche intervistata al telegiornale per la giornata della memoria, e io la racconto questa vicenda agli Elvetici increduli, agli Elvetici pacifisti, agli Elvetici che voltano la faccia dall’altra parte. La prima volta in cui fui invitata alla televisione svizzera, raccontai di come ciavesse trattato quell’ufficiale. Con disprezzo infinito verso l’altro, inerme e bisognoso, gridò: «Via, la Svizzera è piccola, non vi può tenere» Gli risposi: «in questi momenti bisognerebbe sentire la voce della propria coscienza». Anche se gli ordini erano«La barca è piena» –come si diceva in Svizzera dall’8 settembre in poi –la nostra vicenda rappresentava comunque uno di quei casi in cui sarebbe stato generoso voltare la faccia dall’altra parte e far finta di non vedere, certamente non per indifferenza, ma per altruismo e amore della vita. Sequell’ufficiale avesse finto di non vederci, avrebbe salvato quattro persone. Invece ne ha mandate a morte quattro, sentenza eseguita poi dai nazisti per tre, visto che io sono viva. Non ha voltato la faccia dall’altra parte e, al mattino stesso, ci ha rimandato nel luogo da dove eravamo partiti, accompagnati da guardie armate sghignazzanti. La sera stessa eravamo arrestati sul confine, con i nostri documenti veri.
L’ultimo rifugio insieme.
A 13 anni, con l’accusa di esser nata ebrea, sono entrata nel carcere femminile di Varese. Mi ricordo le impronte digitali, la fotografia, mi ricordo il corridoio, il corridoiobuio, spinta da una secondina senza pietà che mi buttò dentro una cella… Carcere femminile. Piangevo disperata. E piansi sempre, tutti i giorni, insieme alle altre donne arrestate come me sul confine, e poi piansi ancora tanto nel carcere di Como. E poi non piansi nel carcere di Milano, perché a Varese e a Como ero sola, nel carcere femminile, per la sola colpa di esser nata, a San Vittore ero prigioniera, per la sola colpa di esser nata, ma ero con il mio papà. Il carcere di San Vittore a Milano è costruito con una pianta,potremmodire a stella: c’è un corpo centrale e dei bracci. Uno di questi era adibito agli Ebrei: famiglie intere. Non c’era la divisione tra i reparti maschili e femminili, come c’era e come c’è nelle carceri anche adesso. Famiglie ricostituite stavano nelle celle insieme, quando –dopo l’iter burocratico dell’ingresso –vidi mio padre e compresi che saremmo stati insieme nella cella provai una indescrivibile tranquillità. Quanto sono stati importanti quei quaranta giorni, gli ultimi che passai con papà, come fu importante quella cella: fu una casetta, una casetta spoglia, terribile, ma l’ultimo rifugio insieme. Era la deportazione annunciata. Si susseguivano notizie, perché già era partito un trasporto e si sapeva che ne sarebbe partito un altro.
Dei trentacinquemila Ebrei residenti in Italia la maggior parte si era nascosta, molti erano fuggiti pertempo, maottomilaseicento furono i deportati, quindi quasi un quarto della popolazione ebraica di allora. Il carcere si riempiva: all’inizio eravamo circa duecento, colpassare dei giorni i rastrellamenti portavano personeaogni turno, era terribile incontrare un amico, trovare un parente: «Anche tu. Anche tu». Ognuno aveva la sua storia: «Sono stato arrestato lì». «Mi hanno portato via questo…».«Mia madre l’hanno portata via, io mi sono nascosto…».Erano mille storie, piccole, grandi, di cui io, adesso, ogni volta che c’è la giornata della Shoaho qualche momento particolare, cercodi ricordare, perché il mondo possa sapere, perché quasi nessuno si può ricordare di quelle persone che sono sparite nellaShoah. Ricordo un nome, una storia, una persona: alta, bassa, bionda, bruna, ricordo la voce per ridarle voce, per ridarle un volto, per restituire un colore a quegli occhi, che nessuno ha mai più visto.Ciincontravamo sempre alla stessa ora. C’era il permesso di sostare in una piccola sala di riunione, e allora partivano quei messaggi che ognuno credeva di sapere sulla deportazione annunciata, con la speranzache fosse solouna voce infondata, ma con la paura nel cuore che fosse il futuro di tutti noi: «Ma non è possibile che Mussolini lasci partire per l’estero dei cittadini italiani, non è possibile, ci manderanno a lavorare, ma sarà in Italia, non sarà all’estero»
… Non fu così.
Ma la cosa che mi ricordo di più di SanVittore è un’altra: la Gestapo chiamava gli uomini per gli interrogatori, feroci: torturavano, davano botte, martoriavano. Restavo sola nella cella, aspettavo che tornasse mio padre. Nona vevo una spalla su cui piangere, purtroppo non l’ho mai avuta. Restavo sola e non avevo un libro, non ero credente, avevo solo mura di disperazione: vi erano scritte indimenticabili, graffite, in cui c’erano addii, saluti, maledizioni, benedizioni, che io leggevo, per ore imprimevo nella mente quell’intonaco scrostato. Aspettavo un’ora, due ore, tre ore, poi il mio papà tornava, ci abbracciavamo, in silenzio, eravamo insieme, eravamo insieme, eravamo insieme.
Ho avuto da mio padre e a lui ho dato così tanto amore che mi è bastato per cercare la vita in ogni momento. Lui mi ha dato insegnamenti di vita e non di morte, insegnamenti di pace e non di vendetta. Papà mi ha lasciato un patrimonio di una tale importanza che non ho mai smarrito nel mio ricordo pur avendo perso, quando avevo solo 13 anni, lui come persona.Restavo dasola, un’ora, due ore, tre ore, e diventavo vecchia.Quandolui tornava e ci abbracciavamo io non ero solo la sua bambina, ero sua sorella, ero sua madre.
Ho tre figli e mio figlio maggiore, che si chiama Alberto come si chiamava mio padre, oggi è più vecchio di quanto fosse papà allora: perché mio figlio oggi ha 49 anni, papà neaveva 43. Mi succede qualche cosa di così particolare che è anche difficile da spiegare: c’è più che uno sdoppiamento nel mio ricordo, quando guardo mio figlio alto, quasi vecchio ormai, perché un uomo di 49 anni è un uomo maturo, assolutamente, con ben altri problemi di quelli che aveva l’altro Alberto, si sovrappongono in me i due uomini e provo una sensazione dolcissima nel ricordo perché è amore, è puro amore.
Nessuno fu risparmiato.
Arrivò il momento della deportazione annunciata. Entrò un Tedesco nel raggio e lesse un elenco di più di 600 nomi fra cui i nostri. Ci dovevamo preparare a partire. Ci preparammo a partire. Nessuno fu risparmiato: non c’erano intrasportabili, non c’erano malati, non c’erano neonati al seno della propria madre, non c’erano donne incinte. Tutti, per la colpa di esser nati, dovevano partire. E così uscimmo:lunga filadi personaggi borghesi, messi in ordine per la partenza.Uscimmo dal carcere di San Vittore. Ricordo sempre come si comportarono in modo splendido altri detenuti di un altro raggio, detenuti comuni, forse assassini, forse delinquenti comuni, forse ladri, forse rapinatori, forse truffatori. Furono straordinari, furono uomini, furono uomini che ebbero pietà di altri uomini che non avevano altra colpa che quella di esser nati. Quando attraversammo il raggio dove stavano questi detenuti affacciati alle loro celle –avevano forse l’ora d’aria a noi negata –questi uomini ci urlarono benedizioni, saluti, incoraggiamenti: «Che il Signore vi benedica». «Abbiate coraggio». C’era chi ci buttava una mela, chi un fazzoletto, un paio di guanti, una sciarpa, una cosa qualunque… Loro ebbero pietà. Non voltarono la faccia dall’altra parte. Furono gli ultimi uomini noi incontrammo.Ce ne volle poi, un anno e mezzo, per incontrare altri uomini: fu un viatico eccezionale. All’uscita da San Vittore, fummo spinti a calci e pugni e bastonate sui camion, portati alla stazione Centrale. A un incrocio, io, che ero stretta a mio padre, in fondo al camion dove il telone si apriva, vidi la mia casa di un tempo, pensai mai più, mai più, mai più, mai più, mai più, pensai di colpo che la tappezzeria era gialla, pensai a com’era fatta una certa stanza, pensai che c’era un corridoio… Mai più, mai più, mai più. Arrivammo alla Stazione Centrale e lì… dai sotterranei partimmo: non si partiva certo dai binari, per non mostrare quella vergogna agli altri passeggeri, si partiva dal ventre nero della grande stazione di Milano che è ancora oggi un punto di raccolta di quelli arrivati all’ultima spiaggia: tossici, alcolizzati, senza fissa dimora… Là era preparato non il treno, ma un vagone… Ma noi allora non l’avevamo capito, me lo raccontò molti anni dopo Liliana Picciotto Fargion, la storica che ha scritto il libro della memoria. Non c’era il treno completo, c’erano due vagoni, ma noi in quel buio, i fari, il terrore del momento, l’incredulità di quello che ci stava succedendo, i cani che abbaiavano, le bastonate, i fischi, non capivamo che i vagoni erano due per volta, man mano che il vagone era riempito di umanità dolente, veniva sprangato e portato con un elevatore –che ancora esiste –al binario di partenza, e in fondo agganciato.