Giangiorgio Pasqualotto: Per una filosofia interculturale

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Abbiamo chiesto a Giangiorgio Pasqualotto, già docente di Estetica e di Filosofia delle Culture all’Università di Padova e nostro prezioso collaboratore, di sintetizzare brevemente per le lettrici e i lettori di Inchiesta la sua prospettiva filosofica interculturale, da lui elaborata nel confronto con i pensieri d’Oriente fin dagli anni Ottanta (Il Tao della filosofia, 1989) e promossa tramite numerose opere e molteplici iniziative, tra le quali la rivista Simplegadi. Si tratta di una originale prospettiva di riflessione critica che ci appare ora più mai necessaria e attuale, a fronte delle fragorose retoriche dell’essenzialismo culturale oggi predominante.

In proposito, oltre ai molti contributi suoi e su di lui apparsi sulla nostra rivista, ci limitiamo a rinviare al volume da lui curato Per una filosofia interculturale (Mimesis 2008) e alla miscellanea in suo onore, a cura di Emanuela Magno e Marcello Ghilardi, La filosofia e l’altrove (Mimesis 2016).

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Giangiorgio Pasqualotto

Verso una filosofia interculturale

Cosa c’entra la filosofia con l’intercultura?

In effetti noi, in Occidente, quando pensiamo alla filosofia, pensiamo quasi sempre e per lo più alla filosofia nata in Grecia e sviluppata in Europa. Quasi mai ci viene in mente che nel resto del mondo – soprattutto in Cina e in India, ma anche nelle Americhe e in Oceania, in Africa e in Russia – hanno sviluppato altre filosofie e altre forme di pensiero. Quindi ci siamo abituati a ritenere che la filosofia si possa concepire soltanto come parte eminente della cultura europea e che, pertanto, il problema del rapporto tra filosofia e intercultura nemmeno si ponga. In realtà questa opinione è doppiamente sbagliata.

Innanzitutto, pur ammettendo che sia esistita ed esista una realtà definibile ‘filosofia europea’, questa non risulta affatto lineare e monolitica, ma, al contrario, appare altamente ramificata e diversificata, sia per la varietà dei luoghi e delle culture in cui è sorta, sia per le differenze – spesso estreme – tra i pensatori in cui si è espressa. Questo fatto risulta talmente evidente che si può dire vi sia sempre stata un’attività di confronto tra filosofie di culture diverse all’interno della stessa cultura europea. A questo riguardo basterebbe ricordare il poderoso sforzo fatto, a partire dai pensatori dell’Umanesimo e del Rinascimento, per stabilire un contatto e per comprovare una continuità tra la filosofia classica, di matrice soprattutto greca, e la filosofia moderna, soprattutto italiana, tedesca e francese.

In secondo luogo, il rapporto tra filosofia e intercultura si pone, anzi si impone anche nel caso in cui intendessimo affrontare problematicamente la questione di se, come e quanto alcune espressioni del pensiero extraeuropeo possano essere definite veramente filosofiche. Anzi, persino se volessimo negare la dignità del titolo ‘filosofia’ ai pensieri nati al di fuori dell’Europa, dovremmo necessariamente prenderli in considerazione, analizzarli ed argomentare il nostro giudizio negativo, dovremmo, cioè, operare un confronto in termini filosofici, ovvero, in breve, fare filosofia interculturale.

Inoltre, questa necessità del confronto, se poteva venir considerata marginale in tempi storici in cui le diverse parti del mondo avevano pochi e saltuari contatti, ora che da alcuni decenni tali contatti sono aumentati in misura notevolissima, sia per quantità che per qualità, tale necessità non è più eludibile.

Non è tuttavia solo per motivi di ‘aggiornamento culturale’ che il confronto tra filosofie presenti in culture diverse diventa tanto importante da apparire imprescindibile. Nel momento in cui l’Europa e, in genere, l’Occidente hanno sempre più a che fare con civiltà diverse, devono prendere atto, da un lato, che miliardi di persone da millenni hanno dato e danno senso alle loro esistenze sulla base di principi, valori e fini assai distanti da quelli che, con molta superficialità ed approssimazione, definiamo ‘nostri’; dall’altro, che non è più possibile pensare di ridurre drasticamente questa distanza operando una sorta di ‘colonialismo culturale’, ossia cercando di imporre come veri i ‘nostri’ principi, valori e fini alle altre culture. Questo non significa che si debba seguire la strada opposta, quella della rinuncia al nostro riconoscimento in alcune prospettive di pensiero nate e sviluppate in Occidente: questa operazione risulterebbe altrettanto astratta e forzata di quella precedente realizzata con intenzioni ‘coloniali’. Ogni esotismo, infatti, risulta essere l’involontario opposto speculare di ogni forma di eurocentrismo (e, in generale, di ogni ‘centrismo’).

Se impraticabile, oltre che illegittima, è la via della riduzione – sia quella percorsa in vista di ridurre le ‘nostre’ prospettive di pensiero a quelle dei popoli extraeuropei, sia quella percorsa in vista di ridurre le loro prospettive di pensiero alle nostre -, allora si apre un nuovo spazio intermedio, quello determinato dalla necessità di un continuo confronto dialettico in cui la ragione non è preventivamente stabilita né in Oriente né in Occidente.

D’altra parte, questo confronto tra pensieri d’Oriente e d’Occidente nemmeno mira a stabilire a quale dei due ipotetici blocchi di pensiero debba andare il primato. La filosofia interculturale non deve quindi avere né pregiudizi di partenza da difendere né finalità prestabilite da realizzare, ma deve solo esercitare la propria capacità critica per riuscire a comprendere in modo sempre più ampio e sempre più approfondito i problemi decisivi della vita umana.

Per fare un esempio particolare: se si vuole procedere ad un confronto tra una prospettiva filosofica occidentale ed una orientale relativamente ai problemi della giustizia o della bellezza, non ha alcun senso coltivare l’idea che una delle due abbia già raggiunto la verità assoluta risolvendo in modo definitivo questi due problemi, né ha senso progettare il trionfo di una sull’altra. In entrambi i casi si esprimerebbero intenzioni solo psicologiche o, al massimo, ideologiche: nel caso si voglia affermare come vera una delle soluzioni orientali contro quelle occidentali, la motivazione più forte sembra essere un implicito senso di colpa che si esprime nel bisogno di compensare una storia di secolari ignoranze o disprezzi delle forme orientali di pensiero; nel caso opposto, quello cioè di voler affermare come vera una delle soluzioni occidentali contro quelle orientali, la motivazione più forte sembra radicarsi in un senso di paura ed in un conseguente bisogno di sicurezza che portano a preferire un continuo rispecchiamento nelle proprie certezze piuttosto che un confronto con idee diverse che potrebbero anche metterle in crisi profonda.

Invece un senso propriamente filosofico si esplicherebbe cercando di comprendere sempre più a fondo il significato ed il valore dei concetti di giustizia e di bellezza, non tanto e non solo mettendo le diverse prospettive una di fronte all’altra, ma facendole interagire, in modo tale che idee diverse si chiariscano a vicenda.

E’ evidente allora come il rapporto tra filosofia e intercultura non abbia nulla a che fare con alcuna forma di mono-culturalismo, ossia con prospettive fondate sulla presunzione della superiorità di una cultura rispetto alle altre; ma abbia ben poco a che fare anche con un pluralismo fondato soltanto sul semplice riconoscimento e sulla benevola tolleranza delle diverse culture. Tuttavia una filosofia interculturale dovrebbe prendere le distanze anche dalle varie prospettive multiculturali, certamente assai più avanzate rispetto a quelle del pluralismo e, ancor più, rispetto a quelle del mono-culturalismo, ma finalizzate a valorizzare e a preservare le differenze culturali come dati originari ed autentici. Il rischio del multiculturalismo è infatti duplice:

  1. a) considera le diverse culture come dati uniformi e non come prodotti di interazioni e di variabili culturali;
  2. b) finisce per riconoscere soltanto una pluralità di monoculture, come se queste fossero isole autonome, blocchi indipendenti. Da questo secondo rischio può scaturire evidentemente la conseguenza di giustificare forme di incomunicabilità tra diverse culture e, addirittura, di giustificare, benché talvolta in modo involontario, la conflittualità tra di esse.

A questo punto, una volta definito lo spazio aperto in cui una filosofia interculturale può avere importanza e significato, si pone il problema di capire se tale importanza e tale significato hanno una loro ragion d’essere soltanto all’interno delle culture occidentali, oppure se siamo già giunti ad un tale livello di interazione tra culture diverse da venire assunti come cruciali anche dalle altre culture.

Ora, se è così, si può pensare ad un semplice incontro tra prospettive filosofiche vissute finora nella reciproca ignoranza, oppure si può ritenere possibile anche un dialogo tra queste diverse prospettive? In entrambi i casi, poi, è possibile ed auspicabile che tale incontro e tale dialogo abbiano una finalità comune nella forma di qualche ‘filosofia mondiale’ come sintesi filosofica di una futura umanità pacificata, oppure è più sensato e realistico ritenere possibili reciproche trasformazioni delle diverse prospettive senza subordinarle ad alcuna idea precostituita di filosofia del futuro?

A tutte queste domande cruciali la filosofia interculturale può rispondere in vari modi, ma, comunque, deve rispondere rinunciando definitivamente all’immagine che configura pensieri d’Oriente e d’Occidente come due blocchi monolitici ed irrimediabilmente opposti.

Per questo essa deve partire innanzitutto pensando ad ‘orienti’ e ad ’occidenti’, piuttosto che all’Oriente e all’Occidente. A partire da tale consapevolezza la filosofia interculturale può procedere al confronto tra idee diversamente elaborate ed articolate. Tale confronto produce una tensione alla comprensione reciproca sempre più approfondita, come accade nel lavoro di traduzione: anche qui si tratta infatti di riuscire a cogliere il più esattamente possibile il significato di concetti e di categorie che, anche se si presentano in un ambito semantico comune, hanno però nomi assai diversi e significati mai perfettamente identici. Questa tensione alla comprensione reciproca, che è attiva al centro della filosofia interculturale, appare in tutta la sua portata già a partire dalla preliminare difficoltà di capire se e come il termine ‘filosofia’ è traducibile in lingue diverse da quella greca antica in cui è stato per la prima volta coniato. Ora, per capire se, come e in quale misura tale termine è traducibile in lingue diverse dal greco antico, è necessario procedere in un minuzioso studio linguistico, in un costante sforzo ermeneutico ed in un rigoroso lavoro argomentativo: ebbene, anche nel caso in cui il termine ‘filosofia’ alla fine risultasse intraducibile, sarebbero comunque necessarie queste attività di “studiare, comprendere ed argomentare”. In definitiva, che il confronto conduca ad esiti positivi o negativi, in ogni caso il confronto comporta un esercizio di filosofia interculturale. Una filosofia interculturale non consiste infatti se non in questo “studiare, comprendere ed argomentare” declinato in senso comparativo, ossia applicato al confronto tra forme di pensiero nate e vissute da e in culture diverse.

Category: Culture e Religioni

About Giangiorgio Pasqualotto: Giangiorgio Pasqualotto insegna Estetica e Storia della filosofia buddhista presso l’università di Padova. Tra le sue pubblicazioni più importanti: Estetica del vuoto (1992); Illuminismo e illuminazione (1997); Yohaku (2001); East & West (2003); Figure di pensiero (2007); Dieci lezioni sul Buddhismo (2008); Oltre la filosofia (2008); Tra Oriente e Occidente (2010); filosofia e globalizzazione (2010

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