Giampaolo Visetti: Kentucky Fried Chicken a Lhasa. La scomparsa del Tibet
Diffondiamo da La Repubblica del 24 aprile 2016
24 aprile 2016 – La catena americana Kentucky Fried Chicken ha aperto a marzo il primo fast food a Lhasa. Il mondo ha appreso la notizia che anche i buddisti tibetani si sarebbero convertiti al pollo fritto a causa di uno scontro accademico con il governo di Pechino. Esuli e sostenitori dell’indipendenza del Tibet avevano chiesto al colosso della ristorazione Usa che nel locale si parlasse anche il tibetano e non solo il mandarino, come nel resto della Cina, e che il personale venisse assunto scegliendolo tra la minoranza locale. I vertici di KFC non hanno risposto, ma le autorità cinesi hanno definito «ridicola» la proposta. Pochi giorni dopo è emerso che tra i quaranta dipendenti del fast food, trentadue sono di etnia han, maggioritaria in Cina. Otto i tibetani. Quanto ai menù, sono stati stampati solo in mandarino.
Per chi segue da decenni la colonizzazione cinese del Tibet, la notizia non è affatto frivola e la scelta dei tempi per nulla casuale. Negli stessi giorni di marzo, anno 1951, l’armata rivoluzionaria di Mao Zedong invadeva Lhasa e nello stesso mese del 1959 il quattordicesimo Dalai Lama venne costretto a fuggire in India. Mentre esattamente dieci anni fa il leader spirituale dei buddisti pregava personalmente KFC di annullare l’apertura di una sede tibetana. La ragione aveva fatto sorridere: le stragi dei polli violano i valori tibetani. Allora il progetto venne accantonato, oggi no e il segnale globale è chiaro: la “questione tibetana” scompare dall’agenda politica del mondo. Per i media il Tibet non è più una notizia e il “semplice monaco” che in giugno compirà ottantuno anni potrebbe essere archiviato dalla Storia come “l’ultimo Dalai Lama”. La Cina comunista, grazie all’America capitalista, quest’anno può così celebrare a modo suo gli anniversari più sacri al popolo tibetano: al posto delle mistiche preghiere dei pellegrini nei monasteri militarizzati, la tv di Stato trasmette le immagini degli allegri clienti che addentano panini imbottiti di ali di pollo nel nuovo fast food ai piedi del Potala. Per il Tibet e per il vecchio Tenzin Gyatso, nel suo esilio indiano di Dharamsala, è un’umiliazione che sancisce l’accelerazione di un declino sorprendente. Del resto, la crisi finanziaria che dal 2009 scuote l’Occidente e l’irresistibile ascesa economica della Cina, seconda potenza del pianeta, disintegrano il comune sostegno politico e culturale a una lotta per la libertà che ha segnato la fine del Novecento.
Il Tibet viene dimenticato senza imbarazzi e resta improvvisamente solo. Alla metà di marzo Pechino aveva invitato ufficialmente i diplomatici stranieri accreditati alle Nazioni Unite a boicottare un incontro sui diritti umani nella sede di Ginevra, per evitare incroci con «il Dalai Lama e con la sua cricca separatista ». «Invitarlo all’evento — è scritto in una lettera — viola la sovranità e l’integrità territoriale della Cina, in contrasto con princìpi e valori dell’Onu». Gli organizzatori hanno risposto che la libertà accademica e d’espressione era prioritaria, ma nessuna delegazione ha ritenuto di doversi esporre per difendere la partecipazione del Nobel per la pace a un incontro a margine della sessione annuale del Consiglio. Il gelo internazionale non è però più un caso isolato. Dal 14 al 16 aprile il Dalai Lama avrebbe dovuto effettuare una visita ufficiale in Gran Bretagna, ricevuto dalla novantenne regina Elisabetta e dalle più alte cariche di Stato. Il viaggio, all’ultimo momento, è stato annullato per imprecisate «ragioni di salute» della guida spirituale dell’ordine gelugpa. Nell’ottobre dello scorso anno, con le medesime motivazioni, venne cancellata in extremis anche la sua visita negli Stati Uniti, proprio mentre il presidente cinese Xi Jinping veniva ricevuto per la prima volta alla Casa Bianca. Tra il 2010 e il 2014 il Dalai Lama ha tenuto in media cento conferenze all’anno in dieci paesi di ogni continente: l’agenda del 2016 prevede al momento solo do- dici “lezioni di religione”, tutte da confermare. Lo schiaffo più clamoroso al Tibet è datato dicembre 2014. Le minacce di «conseguenze commerciali» da Pechino indussero il presidente sudafricano Jacob Zuma a negare a Tenzin Gyatso il visto d’ingresso nel paese, dove era fissato il vertice annuale dei Nobel per la pace. I suoi colleghi insorsero, l’incontro fu ospitato infine a Roma, ma nemmeno le autorità italiane ricevettero l’uomo che nel 1954 aveva tenuto testa a Mao Zedong, che a nove anni ha ricevuto un orologio in regalo da Roosevelt e che nella sua vita ha incontrato tutti i leader liberi della Terra. Lo stesso papa Francesco, preoccupato da possibili ritorsioni contro i cattolici cinesi e per la prevedibile interruzione del dialogo cruciale tra Pechino e il Vaticano, declinò l’invito a un abbraccio che Giovanni Paolo II aveva concesso. Alla presa di distanza degli amici storici di Usa, Europa e Vaticano, corrisponde quello ancora più allarmante dell’India, dove da quasi sessant’anni hanno trovato rifugio gli esuli tibetani. Con l’ascesa al potere dell’ultranazionalista indù Narendra Modi, deciso a riscuotere i dividendi dell’equilibrio tra Washington e Pechino, New Delhi può ordinare ogni giorno al governo in esilio e a 150mila rifugiati tibetani di lasciare il paese.
Cancellerie e leader religiosi di tutto il mondo assistono in silenzio all’isolamento del Dalai Lama e alla scomparsa del Tibet dalla geografia politica contemporanea, favoriti dalla divisione degli stessi tibetani e dalle crescenti tensioni tra la Cina le sue altre regioni ribelli, Taiwan e Hong Kong. Il problema non è più come mobilitarsi per il Tibet, per la sua cultura e per la sua autonomia, ma come relazionarsi con Pechino in un mondo senza Tibet e senza Dalai Lama. A porre il tema dell’isolamento, decisivo non solo per i quattrocento milioni di buddisti cinesi, è proprio Tenzin Gyatso. Nel 2011 ha rinunciato al potere politico, affidando la guida del governo in esilio a Lobsang Sangay. Sempre più spesso, dopo il rapimento del bambino indicato come suo successore e la nomina cinese di un Panchen Lama iscritto al Partito comunista, il Dalai Lama confida che «Buddha potrebbe non reincarnarsi più», o che potrebbe farlo «in una donna». Sono messaggi chiari alla comunità internazionale e alla Cina, la prospettiva di una imminente destabilizzazione politico-religiosa dell’Himalaya, accelerata dalle oltre centoquaranta auto-immolazioni di monaci buddisti negli ultimi cinque anni. Da dossier pacifista alla moda il Tibet scopre così di essere una patata bollente che nessuno vuole più tenere in mano. A Pechino la propaganda del partito-Stato scrive che «per risolvere il problema tibetano non resta che lasciar morire dimenticato e in esilio il quattordicesimo Dalai Lama». Il governo nei giorni scorsi si è spinto fino a pubblicare una banca dati online con i nomi degli «autentici Buddha viventi». Il titolo, da secoli, è riservato ai bambini in cui, dopo il decesso, si siano reincarnati altri Buddha viventi. È tra questi che viene scoperto il nuovo Dalai Lama e controllare la lista dei candidati significa assegnarsi il diritto politico di scelta. Il presidente cinese Xi Jinping, nell’indifferenza planetaria, ha ordinato di definire «falsi» i Buddha viventi riconosciuti da Tenzin Gyatso, accusandoli di essere i responsabili morali delle rivolte indipendentiste del 1989 e del 2008, oltre che dei sacrifici dei monaci che si sono dati alle fiamme. Fino a ieri l’ultima repressione cinese del Tibet e l’ultima delegittimazione del Dalai Lama da parte di Pechino avrebbero spinto in piazza milioni di persone in tutto il mondo e i governi democratici dei paesi liberi avrebbero almeno finto indignazione. Oggi invece nessuno osa nemmeno parlarne. Al Dalai Lama è stato chiesto come può cambiare una società globalizzata per la prima volta nelle mani del ricatto economico di una superpotenza autoritaria. Prima ha sorriso, poi si è fatto serio e ha risposto: «Non lo so».
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