Massimo Canella: Invito alla lettura 10: Chakrabarty, “Clima, storia e capitale”

| 26 Giugno 2022

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Massimo Canella. Invito alla lettura 10. Dipesh Chakrabarty, “Clima, Storia e Capitale”, 2009 – 2014

“Finora la maggior parte delle nostre libertà sono state ad alto consumo energetico. Il periodo della storia umana solitamente associato a ciò che noi oggi riteniamo essere le istituzioni della civiltà – l’avvio dell’agricoltura, la fondazione delle città, l’emergere delle religioni conosciute, l’invenzione della scrittura – ha avuto inizio circa diecimila anni fa, proprio quando il pianeta stava passando da un periodo geologico, l’ultima era glaciale o Pleistocene, al più recente e caldo Olocene. Noi dovremmo essere nell’Olocene: ma la possibilità del cambiamento climatico antropogenico ha sollevato la questione della sua fine. Ora che gli umani – grazie al nostro numero, all’utilizzo di combustibili fossili e ad altre attività collegate – sono diventati un agente geologico sul pianeta, alcuni scienziati hanno proposto che dovremmo riconoscere l’inizio di una nuova era geologica: un’era in cui gli umani agiscono come i principali fattori determinanti dell’ambiente del pianeta. Il nome che hanno inventato per questa nuova epoca geologica è Antropocene” (Dipesh Chakrabarty, “Clima Storia e Capitale”, Milano 2021, p. 69-70).

Nei densi articoli pubblicati nel 2009 e nel 2014 su Critical Inquiry a proposito del riscaldamento globale, pubblicati da Nottetempo di Milano nel 2021 col titolo “Clima Storia e Capitale”, oltre che in numerosi interventi successivi compreso il volume collettaneo su “La sfida del cambiamenti climatico. Globalizzazione e Antropocene” pubblicato in traduzione nel 2021 da Ombrecorte di Verona, Denis Chakrabarty svolge argomentazioni che sostengono: 1)l’impossibilità di continuare a trattare separatamente storia naturale e storia umana, che induce a una critica radicale delle correnti filosofie della storia e dello statuto che gli storici ritengono conveniente al proprio ambito disciplinare;  2) la pertinenza della storia umana non solo all’ambito della biologia, ma anche a quello della planetologia, dal momento in cui l’umanità è diventata suo malgrado un agente geologico; 3) l’inidoneità delle forme di pensiero che informano le scienze economiche e le progettazioni politiche ad affrontare l’indeterminatezza delle previsioni sul cambiamento climatico, che i climatologi non ritengono ulteriormente riducibile; 4) la necessità di riflessioni teoriche di inconsueta multidisciplinarietà, da affrontare con un metodo rigoroso che riduca al minimo i fraintendimenti dovuti alle reciproche inevitabili incompetenze. Chi si è procurato  pertanto questi articoli solo per acquisire qualche ulteriore informazione sulla nozione di Antropocene, proposta dal premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen e dal biologo marino Eugene F. Stoermer attorno all’anno Duemila e pervenuta col tramite di un fisico che insegna filosofia e teologia, si è trovato davanti a riflessioni innovative di cruciale rilievo epistemologico, che forse saran discusse a lungo dagli studiosi se gli sviluppi del cambiamento climatico non si determineranno in modo troppo sfavorevole.

Come sempre alcune informazioni sull’ambiente di provenienza dell’autore, il suo curriculum e i suoi precedenti campi di indagine aiutano a capire meglio i suoi percorsi e le sue motivazioni, e quindi ad irrobustire la nostra percezione di quel che ci vuole comunicare. IL CURRICULUM : Dipesh Chakrabarty, nato a Calcutta, capoluogo del Bengala indiano, nel 1948, vi ha frequentato il Presidency College , dove ha conseguito la laurea in fisica. Ha anche ricevuto un diploma post-laurea in Management (MBA) dall’Indian Institute of Management . Successivamente è passato all’Australian University di Canberra, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in storia. Attualmente insegna storia delle lingue e delle civiltà del Sud Est asiatico all’università di Chicago. Ci troviamo quindi davanti a uno storico di professione, di lingua e cultura bengalese oltre che anglosassone, poliglotta, che ha anche una formazione scientifica a livello accademico e una buona competenza economica, e quindi è in grado di avvertire meglio di altri le differenze degli approcci nei diversi settori dello scibile e nelle diverse tradizioni culturali e le loro contraddizioni. I PRECEDENTI INTERESSI: prima di avventurarsi nei problemi del cambiamento climatico Chakrabarty ha partecipato alla vivace vita politica e culturale del West Bengala, grande regione dell’India il cui governo regionale è stato detenuto in varie forme, dal 1977 al 2011, dal Partito Comunista Indiano – Marxista, senza che questo incidesse sulla regolarità dei procedimenti democratici né sulla natura capitalistica della società. Un clima in cui trovavano molto spazio le ricerche in chiave marxista sulla storia della classe operaia (come il suo “Rethinking Working-Class History”) e gli studi postcoloniali (Calcutta divenne capitale della inglese Compagnia delle Indie orientali fin dal 1772). Il nostro autore raggiunge la notorietà internazionale con un testo dal significativo titolo “Provincializzare l’Europa” (trad. it. presso Meltemi di Roma), che non solo invita , nelle parole di Adriano Prosperi, a “aprire gli occhi sulle tante storie connesse che hanno intrecciato le vicende europee e mediterranee con quelle dell’Islam, dell’India e del lontano Oriente” (in “Un tempo senza storia”, qui recensito il 18 maggio 2021), ma tende a contestare, nelle parole del nostro autore, “la visione illuministica – universalistica dell’essere umano come potenzialmente identico ovunque, il soggetto in grado di detenere ed esercitare diritti”, “la cui pretesa di essere universalmente vera non è altro che un’astuzia del potere”. Un modo di pensare che può aver qualche radice nel marxismo ma converge ora con le rivendicazioni di alterità del femminismo e con quelle dei popoli non europei, con le loro storie precedenti al loro ingresso nell’heidegerriana e molto europea “radura dell’Essere” – e che spiega anche la partenza del percorso, peraltro lucidissimo, con cui nelle opere sull’ambiente è stato recuperato non il concetto umanistico di “umanità” ma quello naturalisticamente poco contestabile di “specie” umana. Non è del tutto da escludere che la sua sensibilità alla tematica della pluralità delle storie nasca anche da problematiche interne all’India: la prima stesura di alcuni dei suoi scritti è in bengali, lingua con una letteratura illustre, che deve difendersi (credo con successo) dalla pressione della lingua ufficiale indicata dalla Costituzione, l’hindi, parlata da meno della metà della popolazione – pressione esercitata per esempio, in modo molto civile, mediante l’Istituto Centrale per l’Hindi di Agra. Non è invece ipotetica la relazione del suo ambientalismo con la fondata polemica di matrice induista contro “la tendenza innata della civiltà occidentale a dividere, separare, isolando nazione da nazione, conoscenza da conoscenza e, non ultimo, l’uomo dalla natura” (Svamini Hamsananda Ghiri nel collettaneo “La diversità feconda”, qui recensito in data 9 novembre 2021). Meno cerebralmente, l’autore afferma di esser stato spinto a studiare l’argomento dall’ impressione per gli incendi cui aveva assistito in Australia: da un sano senso di allarme elementare che molti nostri giovani avvertono, che dovremmo sforzarci di avvertire anche noi, e che han fatto evolvere molto significativamente le sue posizioni.

STORIA NATURALE E STORIA UMANA. “Il riscaldamento globale antropogenico mette in evidenza la collisione – o lo scontro – di tre storie che di solito, dal punto di vista della storia umana, si presume operino con ritmi così distinti e diversi da essere considerati, a tutti gli effetti, processi indipendenti gli uni dagli altri: la storia del sistema terrestre, la storia della vita che include quella della evoluzione umana nel pianeta, e la più recente storia della civiltà industriale (che per molti è la storia del capitalismo)” (p. 97). “Le spiegazioni antropogeniche del cambiamento climatico comportano la crisi della secolare distinzione umanistica fra storia naturale e storia umana” (p. 56). Chakrabarty, citando testi a volte filtrati mediante altri autori anglosassoni o comunque moderni come a es. Gadamer, ricorda “la vecchia idea vichiano – hobbesiana che noi umani possiamo avere una autentica conoscenza solamente delle nostre istituzioni civili e politiche perché sono opera nostra, mentre la natura rimane opera di Dio e, in ultima istanza, imperscrutabile per l’uomo”. La concezione si ritroverebbe in Marx, e si ritrova nell’antropologo marxista V. Gordon Childe, autore di “L’uomo crea se stesso”, e in Benedetto Croce, cui Chakrabarty dà importanza in quanto avrebbe influenzato il suo traduttore Collingwood e per suo tramite le “Sei lezioni sulla storia” di E. H. Carr. Nelle parole di Collingwood “fino a che la condotta dell’uomo è determinata da quella che può essere chiamata la sua natura animale, i suoi impulsi e appetiti, è non storica: il processo di queste attività è un processo naturale […] gli eventi della natura sono puri eventi, non atti di agenti il cui pensiero lo scienziato cerca di rintracciare”. Così per David Roberts, altro esegeta di Croce, “al d fuori delle preoccupazioni e del linguaggio umano, le rocce né esistono né non esistono, perché esistere è un concetto umano che ha un significato solo nel contesto delle preoccupazioni e finalità umane”. Più positivista che esistenzialista o idealista, Josif V. Dzugashvili detto Stalin in  “Materialismo dialettico e materialismo storico” del 1938 afferma comunque autorevolmente che “affinché cambiamenti di una certa importanza si verifichino nell’ambiente geografico sono necessari dei milioni di anni, mentre per i mutamenti, sia pure i più importanti, del regime sociale degli uomini bastano soltanto alcune centinaia o un paio di migliaia di anni”. Lo stesso Fernand Braudel, che scriveva una storia in cui “le stagioni e altre ricorrenze naturali svolgono un ruolo attivo nel plasmare le azioni umane” (p. 62), aveva una concezione di origine classica sull’eterno ripetersi delle stagioni, in cui “l’uomo era prigioniero del clima”. Negli ultimi decenni si sono affermati gli studi di storia ambientale, a es. con Alfred Crosby jr, che cercano di aggiornare i metodi di indagine al vertiginoso svilupparsi delle conoscenze prendendo in considerazione l’uomo come “entità biologica” e le connessioni della sua storia tradizionale con quella generale dell’evoluzione e coi risultati delle neuroscienze.

Il salto di qualità indicato da Chakrabarty, anche rispetto ai grandi progressi della storia ambientale, si verifica nel momento in cui lo studio del riscaldamento globale porta a concludere che l’uomo, per la prima volta nella sua vicenda, da pur dominante agente biologico diventa addirittura un agente geologico, “avendo raggiungo numeri e inventato tecnologie che hanno una scala abbastanza grande da avere un impatto sul pianeta stesso […] In questo senso possiamo dire che la distinzione tra la storia umana e quella naturale – in gran parte mantenuta anche dalle storie ambientali che mostrano l’interazione fra le due entità – ha iniziato a entrare in crisi solo di recente […] Un assunto fondamentale del pensiero politico occidentale (e oggi universale) è stato quindi spazzato via da questa crisi (pp. 66-67).” Frase, quest’ultima, in cui torna implicitamente a galla lo studioso di storia post-coloniale.

STORIA DELLA MODERNITA’, RAGIONAMENTO ECONOMICO E PUNTO DI NON RITORNO. “… la libertà ha costituito il tema più importante dei resoconti scritti della storia umana negli ultimi duecentocinquant’anni […] La casa delle moderne libertà si poggia sulle fondamenta di un utilizzo sempre maggiore dei combustibili fossili” (p. 69). “Eppure il rapporto tra le tematiche illuministiche della libertà e l’implosione della cronologia umana nonché di quella geologica sembra essere più complesso e contradditorio di quanto ci si aspetterebbe da una coppia binaria. [….] si potrebbe dire che l’Antropocene sia stata una conseguenza non voluta delle scienze umane. E’ anche chiaro, però, che per noi umani qualsiasi idea su come uscire dalla nostra attuale situazione non può evitare di far riferimento all’impiego della ragione nella vita collettiva globale […] C’è però una considerazione che condiziona un tale ottimismo sul ruolo della ragione e che riguarda la forma più comune assunta dalla libertà nelle società umane: la politica. La politica non si è mai fondata solo sulla razionalità. E, nell’era delle masse e in un mondo già così complicato da profonde disuguaglianze tra e dentro le nazioni, è qualcosa che nessuno può controllare” (pp. 72-74). Inoltre “la vita moderna è governata da regimi probabilistici […] Questa è certamente una delle ragioni per le quali oggi l’economia come disciplina è diventata la principale arte di gestione della società. C’è dunque una comprensibile tendenza sia nella letteratura sul cambiamento climatico sia in quella sulla sua gestione politica, questi ultimi dominata dagli economisti o da giuristi che ragionano da economisti – a concentrarsi non tanto su ciò che i paleontologi o i geofisici, i quali studiano il clima planetario in una prospettiva storica, hanno da dire sul cambiamento climatico, quanto su ciò che potremmo chiamare la fisica del riscaldamento globale, che spesso presenta un insieme prevedibile e statico di relazioni di probabilità e di proporzioni […] Tale modo di pensare presuppone una certa stabilità o prevedibilità – per quanto probabilistica possa essere – del processo di riscaldamento dell’atmosfera che i paleoclimatologi raramente postulano, essendo concentrati soprattutto sul pericolo ben più serio del punto di non ritorno” (pp. 102-103).

ANTROPOCENE, STORIA DEL CAPITALE E STORIA DELLA SPECIE. “Chi studia gli esseri umani in relazione alla crisi del cambiamento climatico e ad altri problemi ecologici che stanno emergendo su scala mondiale distingue la storia documentata degli esseri umani dalla loro storia profonda. In linea generale, la storia documentata fa riferimento ai diecimila anni […] Gli storici della modernità e della ”prima modernità”, in particolare, di solito frequentano gli archivi degli ultimi quattrocento anni” (p. 77). “Senza una conoscenza della storia profonda dell’umanità sarebbe difficile giungere a una comprensione laica del perché il cambiamento climatico costituisca una crisi per gli umani […] hanno un senso solo se concepiamo gli umani come una forma di vita e guardiamo alla storia umana come parte della storia della vita del nostro pianeta. In ultima analisi ciò che viene messo a repentaglio dal riscaldamento climatico in quanto tale non è il pianeta geologico in quanto tale, ma le condizioni biologiche e geologiche su cui si fonda la sopravvivenza della vita umana così come si è sviluppata nell’Olocene” (p. 78). Come scrive Edward O. Wilson, “non mi limito a considerare il comportamento dell’uomo il prodotto della storia degli ultimi diecimila anni, ma anche della storia profonda, la combinazione di cambiamenti genetici e culturali che ha creato l’umanità in centinaia di migliaia di anni”. “La globalizzazione capitalista esiste; allo stesso modo, devono esistere le sue critiche. Ma se accettiamo che il cambiamento climatico è parte delle nostre vite, e che forse caratterizzerà quella del pianeta più a lungo del capitalismo e ben oltre le sue mutazioni storiche, tali critiche non ci forniscono una adeguata spiegazione della storia umana” (p. 76).

Con questi fondamenti Chakrabarty giunge a distanziarsi dalla critica, che giudica valida in altri ambiti, del concetto di umanità indifferenziata, dalla cultura delle differenze, dalla critica postcoloniale e della globalizzazione eurocentrica, dalle interferenze con la critica all’androcentrismo. Se non si considera soltanto il dettaglio degli ultimi secoli di storia documentata, apparirà  evidente che il termine “per designare la vita nella sua forma umana – e nelle altre forme viventi – è ‘specie’.” (p. 78). “E’ chiaro che gli studiosi sono portati ad avere una specifica concezione dell’essere umano a seconda della disciplina di riferimento […] Poiché è una crisi dalle molte dimensioni, il cambiamento climatico sollecita gli accademici a superare i propri pregiudizi disciplinari” (pp. 81-82). “L’immaginario che in questo caso viene messo in gioco non è umanocentrico. Esso allude a una crescente divaricazione nella nostra coscienza tra il globale – una storia esclusivamente umana – e il planetario, una prospettiva nella quale gli umani sono incidentali. La crisi climatica ha a che fare con la scioccante scoperta dell’alterità del pianeta” (p.136). (Per chi ha letto Giacomo Leopardi lo choc di questa scoperta è minore: “dipinte in queste rive / son delle umane genti / le magnifiche sorti e progressive”, verseggiava davanti alle lave fiorite del Vesuvio.)

Gli articoli contengono altri aspetti puntuali e altre riflessioni generali che non è possibile ora ricordare. Rimane da considerare l’aspetto del metodo: pur con una preparazione scientifica solida, Chakrabarty nella vita ha fatto lo storico, non lo scienziato, e quindi, magari in misura inconfrontabile con quella media, deve affrontare anche lui il problema del dilettantismo parziale implicito in ogni ricerca multidisciplinare: “non essendo uno scienziato, adotto anche un presupposto fondamentale sulla scienza del cambiamento climatico: presumo che in linea generale essa abbia ragione” (p. 54). Il fondamento di questa fede dovrebbe soddisfare comunque i criteri accademici, basandosi sul fatto che la professoressa Naomi Oreskes, “dopo aver esaminato gli abstract di 928 articoli sul riscaldamento globale pubblicati su riviste scientifiche peer-reviewed tra il 1993 e il 2003 […] scoprì che non ce ne era neanche uno che rigettasse il ‘consenso’ tra gli scienziati ‘sulla realtà delle cause umane nel cambiamento climatico’ […

] In effetti, in tutto ciò che ho letto finora sull’argomento non ho ancora trovato alcuna ragione per essere scettico sul riscaldamento globale” (p. 55). Per chiudere un po’ ad effetto (e con poca convinzione) si può in ogni caso ipotizzare che la definizione del dilettante sia una questione di convenzioni, standard, livelli funzionali e punti di vista; alla fin fine, come diceva Calvero in ‘Luci della ribalta’ di Chaplin, “non viviamo abbastanza per diventare altro”.

Category: Ambiente, Dibattiti, Libri e librerie

About Massimo Canella: Massimo Canella, laureato in Scienze politiche all'Università di Padova, è stato docente a contratto presso l'Università Ca' Foscari di Venezia: "Strumenti giuridici e ruolo delle istituzioni per i beni culturali" al corso di laurea specialistica interateneo fra Padova e Venezia su "Storia e gestione del patrimonio archivistico e bibliografico". Ha coordinato il Servizio Beni librari e archivistici e Musei della Regione del Veneto con particolare riferimento allo sviluppo di reti informatiche e relazionali, e alla Soprintendenza ai beni librari. Ha realizzato progetti pluriennali sulla valorizzazione del patrimonio culturale e sull'arte contemporanea. Ha partecipato ai Comitati nazionali del Servizio Bibliotecario Nazionale e del Sistema Archivistico Nazionale e al comitato di redazione del Notiziario bibliografico del Veneto. E' autore di numerose pubblicazioni su i beni culturali (vedi elenco nella rete Linkedin a suo nome)

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