Marica Di Pierri: A Parigi lo stato d’emergenza silenzia la protesta climatica
Lo Stato di emergenza offre al governo francese una panacea contro ogni forma di mobilitazione sociale. Primo esperimento repressivo: gli attivisti per il clima.
Un aspetto colpevolmente poco trattato da parte di media e commentatori politici riguardo lo svolgimento di questa Cop21 a Parigi, iniziata giusto due settimane dopo gli attentati del 13 novembre, riguarda le modalità con cui lo Stato d’emergenza ha compromesso l’esercizio di alcune libertà individuali garantite dalla Costituzione, a partire dal diritto al dissenso e alla libera manifestazione di quest’ultimo.
1.Premesse sbagliate
Può sembrare un aspetto marginale – mentre in verità non lo è affatto – se si parte da due premesse sbagliate. La prima: che la lotta ai cambiamenti climatici si esaurisca nella dinamica negoziale internazionale, avente per protagonisti governi, delegati, imprese. È vero esattamente il contrario: l’emergenza climatica riguarda tutti e prima di tutto i popoli, le comunità umane insediate in lungo e in largo sul pianeta, che molto più dei dirigenti asserragliati nel palazzo pagano le conseguenze degli stravolgimenti climatici e dunque hanno tutto il diritto di pretendere che gli strumenti messi in campo siano efficaci e coerenti con l’obiettivo.
La seconda: che le libertà e i diritti siano merce di scambio sacrificabile sull’altare di una presunta e mal interpretata sicurezza. La pace e la sicurezza si conquistano piuttosto cancellando le disuguaglianze e stravolgendo i meccanismi di funzionamento di un sistema economico, politico e sociale che ha come leitmotiv la creazione di profitto generato dall’ipersfruttamento dell’uomo e della natura e l’accentramento della ricchezza così prodotta, costi quel che costi. E il costo, palese, è invariabilmente la distribuzione sulle popolazioni di disuguaglianze socio-economiche e devastazioni ecologiche.
2.L’instaurazione dello Stato di emergenza in Francia
È senz’altro utile ripercorrere brevemente l’excursus che ha portato, nel sostanziale silenzio di una Unione europea che al di là dei vincoli di bilancio tiene molto poco al rispetto dei principi fondanti che dovrebbero reggerla, all’instaurazione di uno Stato d’eccezione senza precedenti nella storia delle Francia democratica. Lo Stato d’emergenza è stato dichiarato su tutto il territorio nazionale poche ore dopo gli attentati. La legge – che permetteva di protrarre la durata dell’Emergenza per un massimo di 12 giorni – era stata utilizzata per la prima volta nel 1955, durante la guerra d’indipendenza algerina, e ripresa soltanto in un’altra occasione, ovvero durante le rivolte delle banlieue avvenute nel 2005.
Si tratta di un misura straordinaria che attribuisce ai prefetti ampi poteri speciali: interruzione o limitazione della libera circolazione delle persone, divieto di ogni forma di mobilitazione sociale o manifestazione pubblica, chiusura di luoghi di aggregazione, ripristino dei controlli alle frontiere – in verità già previsti per lo svolgimento della Cop21 – imposizione di orari di coprifuoco, perquisizioni domiciliari h24 senza mandato. Ancor peggio, permette limitazioni della libertà di stampa e un sostanziale controllo, in nome della sicurezza, dei mezzi di informazione: “…le autorità pubbliche hanno facoltà di prendere ogni misura per assicurare il controllo della stampa e delle pubblicazioni di qualsiasi natura oltre a quello delle trasmissioni radiofoniche, delle proiezioni cinematografiche e delle rappresentazioni teatrali”. Infine, per chiunque dissenta e non si conformi alle disposizioni di legge, è prevista la carcerazione da 8 giorni a 2 mesi, applicabile d’ufficio dall’autorità pubblica, anche senza intervento delle autorità giudiziarie. Misure molto restrittive insomma, ma al governo di Hollande il testo esistente non è bastato
Lunedì 16 novembre, tre giorni dopo gli attentati, il presidente ha pronunciato un infuocato discorso davanti al parlamento riunito in seduta comune, definendo la Francia “in guerra” contro il terrorismo jihadista, annunciando un’intensificazione delle operazioni militari in Siria – a partire dall’invio della portaerei Charles De Gaulle – e parlando della necessità di cambiare la costituzione per far fronte all’esigenza di sicurezza nazionale. Ha inoltre annunciato la presentazione di una proposta di modifica dello Stato di emergenza, presentato alle camere il 18 novembre.
La proposta di modifica della legge del 1955 è stata dunque preparata in fretta e furia dai funzionari degli uffici normativi del parlamento durante il week end seguito agli attentati, sull’onda emotiva dell’orrore prodotto dalle 130 morti e 350 ferimenti causati dall’attacco. La presentazione del progetto di modifica è stata accompagnata da un accorato appello che ha richiamato i parlamentari al senso di responsabilità e alla necessità di garantire la sicurezza nazionale. In pratica, l’esecutivo ha chiesto ai parlamentari di non esigere verifica di costituzionalità (per la quale sarebbero stati necessari 40 voti contrari) sulle misure, assai restrittive delle libertà costituzionalmente garantite, contenute nel provvedimento. Solo 6 parlamentari hanno espresso voto contrario, 2 le astensioni.
Il nuovo testo allunga il periodo di estensione dello Stato di Emergenza da 11 giorni a 3 mesi. Oltre al prolungamento della durata dello stato d’emergenza, il nuovo testo prevede inoltre: che ogni attività ritenuta legata al terrorismo possa essere sottoposta a indagini senza intervento del giudice e le persone coinvolte sottoposte a perquisizione arbitraria, eccezion fatta per parlamentari, giudici e giornalisti; che ai centomila agenti di polizia di pattuglia si aggiungano tremila soldati dell’esercito nazionale.
3.Lettera a Strasburgo: “derogheremo alla Convenzione sui diritti umani”
Ulteriore elemento che dovrebbe destare preoccupazione è la notizia che l’ambasciatrice permanente della Francia presso il Consiglio d’Europa Jocelyne Caballero si è affrettata ad inviare al segretario del Consiglio una lettera che avverte l’organismo che la tutela della sicurezza nazionale potrà comportare deroghe agli obblighi e ai principi previsti dalla Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
La lettera si concretizza nel malcelato tentativo di “mettere le mani avanti” rispetto a potenziali ricorsi presentati di fronte alla Corte europea da cittadini che vedranno violati i propri diritti. La Corte vigila infatti sull’applicazione della Convenzione, ed ha sede proprio in Francia, a Strasburgo, principi tutt’altro che secondari per la vita democratico: diritti fondamentali, libertà di pensiero, di espressione e di associazione, diritto ad un processo equo, rispetto della privacy. Tutte tutele che il paese che si fregia di essere patria dei diritti umani ha deciso di calpestare. In sostanza, se un cittadino francese o straniero verrà sottoposto nel periodo di vigenza dello Stato di emergenza a violazioni dei propri diritti fondamentali, non solo non potrà rivolgersi alle autorità giudiziarie francesi, ma gli sarà impedito anche il ricorso alla Corte, vista la richiesta di deroga inoltrata da Parigi.
La deroga è resa possibile dall’art. 15 della Convenzione che prevede che “in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, le parti possono adottare misure in deroga agli obblighi previsti, sempre nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale.”
Questa prescrizione finale è molto importante, in quanto circoscrive il campo di applicazione delle misure restrittive. Nella pratica, il limite è purtroppo assai più lasco.
4.Stato d’emergenza VS attivismo climatico
Nei giorni immediatamente successivi alla sua entrata in vigore, è stato chiaro l’utilizzo strumentale e politico di tale misura. Prima cosa: non tutti gli assembramenti sono stati vietati: a maratone, marce di Natale e manifestazioni sportive è consentito di svolgersi regolarmente. Sono aperti i cinema, i centri commerciali, tutti i luoghi in cui può agevolmente – e senza particolare controllo – assembrarsi gente. Il campo su cui il provvedimento si è abbattuto come una scure è invece quello delle mobilitazioni sociali. Anzitutto contro lo stato di cose esistenti, ovvero contro le misure repressive ed antidemocratiche imposte dal governo. In secondo luogo, contro gli attivisti per il clima arrivati a Parigi per seguire i negoziati della Cop21.
Prima dell’inizio della Cop, le forze di polizia hanno impedito a diverse centinaia di persone l’ingresso sul territorio francese: il trattato di Schengen è stato sospeso almeno fino alla fine della conferenza. Il 28 novembre ventiquattro attivisti ambientali sono stati messi preventivamente in stato di fermo, vigente fino alla fine del vertice. Si tratta di attivisti che nulla hanno a che vedere, per storia personale e percorso politico, con il pericolo terrorismo, e dunque di palesi abusi nell’esercizio delle misure restrittive.
Tra le storie più assurde quella di Joël Domenjoud, attivista di lungo corso, membro del legal team della Coalizione 21, senza precedenti penali, impegnato assieme a centinaia di altri ecologisti nell’organizzazione del forum sociale parallelo alla Cop. Joël è stato condotto agli arresti domiciliari (con obbligo di firma tre volte al giorno) per impedirgli di partecipare alle giornate parigine, adducendo come motivazione la sua partecipazione, l’estate scorsa, ad un accampamento contro a Bure, nella Meuse, per protestare contro un progetto di interramento dei rifiuti nucleari. Più plausibile che la misura restrittive sia stata una ritorsione: l’attivista era tra i firmatari del ricorso contro il divieto di manifestare.
Dai giorni precedenti al vertice si susseguono irruzioni negli spazi in cui sono alloggiati attivisti climatici. Il 29 novembre, giornata della People Global March, organizzata in centinaia di città di tutto il mondo, nonostante il divieto di manifestare a Parigi, circa 10.000 manifestanti sono ugualmente scesi in piazza con azioni di visibilità ed un corteo spontaneo che ha incontrato da subito la forza repressiva della polizia. I media ne hanno parlato come di un corteo di riottosi che avrebbe violato il memoriale delle vittime del 13 novembre. In realtà, la reazione della polizia contro la sparuta minoranza di manifestanti incappucciati, per lo più giovanissimi, è stata sproporzionata. Il corteo è stato compresso negli angoli di Plaza della Republique, diverse centinaia di persone spinte e segregate nella stazione della metropolitana, 317 persone sono state fermate e condotte in caserma. I video della mobilitazione – non diffusi dai main stream media, ma pubblicati dai cittadini sui social network – hanno rivelato come siano state invece le forze armate a reagire scompostamente e a calpestare il memoriale, che gli attivisti, in forma di catena umana, provavano strenuamente a difendere.
5.Guerra ai diritti
Il clima che si respira è di alta tensione. In definitiva gli attentati hanno agito depotenziando le mobilitazioni climatiche su due fronti: legittimando un utilizzo della forza stigmatizzante rispetto al diritto di manifestare chiedendo misure concrete per la più grande emergenza che il pianeta deve affrontare, e spostando parte dell’attenzione di governi, media e cittadini dal clima alla sicurezza. Nel momento meno opportuno.
Non è un caso che gli attivisti climatici che hanno deciso in questi giorni di sfidare i divieto e di manifestare comunque, con modalità e forme diverse, abbiano massivamente scelto lo slogan “È il clima ad essere in stato d’emergenza”. È ancora poco: è la democrazia ad essere sotto assedio. E rischia di essere solo l’inizio. Questa sì è una guerra. Una guerra agita in nome della sicurezza contro i diritti e le libertà degli individui e dei popoli.