Alberto Cini: Le scarpe dell’arte/1
Si scrive perché a forza di camminare nella propria mente, ti viene voglia di parlare con qualcuno. Poi ti accorgi che quello che hai visto, quello che hai raccolto come souvenir nelle tue peregrinazioni cognitive, non sono così tanto comunicabili. Sono bozzetti di esistenza, di curiosità, di pensieri, con i quali non puoi mica uscire per strada, incontrare un amico e dirgli su due piedi, (due piedi è un modo di dire ma anche l’introduzione all’argomento), “Ciao Franco! Come stai? Sai a cosa stavo pensando, prima di incontrarti? Pensavo proprio al piede amputato di Manet! Ma si… Manet, il pittore francese! Perché mi guardi così? Non sapevi che gli avevano tolto un piede? Vuoi sapere come sta mia moglie? Bene, grazie! No non vado in vacanza per Natale! Ma ti dicevo di Manet… un brutto intervento, fatto poi sul tavolo della cucina, il piede poi, il moncone se lo sono dimenticati vicino al caminetto… terribile, un mese dopo è morto, l’artista!” Franco se ne è andato, sicuramente, scuotendo la testa, mi avrebbe detto ridendo:“Sei sempre il solito!”.
Allora scrivo e basta, a chi capiterà, capiterà il mio scritto, spero non a Franco…
Manet ci introduce al periodo dell’impressionismo artistico. l’estetica dell’impressione, il termine sembra nato dal quadro di Monet “Impression: soleil levant” del1874, non mi fido… Aggiungiamo il lavoro del cogliere l’attimo naturalistico, prima del suo passaggio, pittura veloce, bozzetti a colori in esterno che diventano uno stile.
Ernst Gombrich, lo storico dell’arte, sostiene che l’invenzione, o meglio l’affermarsi della fotografia, determina l’importanza dell’impressionismo prima, e dell’ espressionismo poi. In effetti la strada dell’immagine si biforca, da una parte la precisione realistica e in bianco e nero della fotografia, o seppia, comunque monocromatica, che lascia libera la gestualità pittorica di dedicarsi allo sfuggente mondo che passa, non solo come mondo dei colori e delle forme ma anche delle sensazioni emotive in esse comprese. Così, l’impressione della luce sulle lastre fotografiche, con gli acidi appositi, si gemella in opposta direzione con l’altra impressione, quella degli impressionisti pittori. Rendere l’oggetto o la situazione con pennellate veloci, luci e ombre che danno la sensazione particolare dei contrasti cromatici, dei colori accesi, di vedere qualcosa che è solo accennato, presente ma non totalmente, come se una velocità sensibile ci toccasse la retina, una cometa iconografica che nel suo passaggio crea la forma senza definirla. Si può parlare di uno sviluppo estetico “impressionante!.”
Ma anche nell’impressionismo le scarpe interessano poco, se non per l’allieva di Manet, la pittrice Eva Gonzales, con le leziose scarpette da ballerina. Trovo interessanti queste scarpette, che a mio avviso citano un’essenza dell’impressionismo, pur veritiero di quotidianità, di realismo, ma sempre un po’ elegante, sommariamente lezioso, della Parigi dell’epoca.
Ma questa leziosità finalmente si interrompe, perché l’epoca citata, non è più così bella come la “Belle epoque” e l’impressionismo ci trascina fino a Van Gogh. Che è del pianeta impressionistico esattamente l’opposto. Dall’espressionismo estetico si trascende all’espressionismo etico, di Pol Gogen e Van Gogh. L’esperienza del lato opposto della Francia di quell’epoca, la rottura con i valori di un tenace imperialismo che si trascina da secoli e deve sempre avere nelle sue vene una superficie visibile di lusso e benessere, perché la “potenza” deve sempre essere “ostentata”, e le scarpe come soggetto dell’arte, non sono certo cose da mostrare come soggetti, con quel loro brutto vizio di essere a contatto col suolo, con la polvere, con la terra. Meglio piuttosto le giarrettiere, o i mutandoni del Can Can, che fanno scandalo ma non sanno di sofferenza. Van gog conosce gli impressionisti grazie al fratello Teo, che gestisce una galleria e ha la rappresentanza di alcuni pittori impressionisti. Vincent viene contaminato, e lascia le tinte scure del passato, contaminato ma non sopraffatto, mantiene e sviluppa poi nel sud della Francia il suo stile, negli ultimi anni di vita, consumato dalla sifilide che indebolisce il suo già sofferente stato psicologico.
La grande sofferenza, che Van Gogh invece reclama, come soggetto delle sue tele, dove trovano posto le sue scarpe ritratte con una enorme tensione emotiva di storia e di espressione simbolica.
Le scarpe di questo artista hanno dato la spinta ad un’infinità di reazioni culturali, a parte l’ammirazione di Picasso che vedeva in queste tele la grandezza di Van Gogh, le altre sono state prese a modello da Heidegger per il suo saggio “L’origine dell’opera d’arte”. L’ interpretazione di queste vecchie scarpe fatta dal filosofo, porta alla contestazione del professore di Harvard, Meyer Schapiro, esperto d’arte… e poi anche Jacques Derridda, che disse la sua…
Heidegger:
Nell’opera d’arte la verità dell’ente si è posta in opera […] Nel quadro di Van Gogh si storicizza la verità. Ciò non significa che qualcosa di semplicemente presente venga riprodotto, ma che nel palesarsi dell’esser-mezzo delle scarpe pervengono al non esser-nascosto l’ente nel suo insieme, il Mondo e la Terra nel loro gioco reciproco
Schapiro:
Si può vedere nel dipinto delle scarpe di van Gogh la rappresentazione di un oggetto vissuto dall’artista come una parte importante di se stesso, un oggetto nel quale il pittore si osserva come in uno specchio
Derridda:
Io mi accontenterei di poter dire alla fine: molto semplicemente, queste scarpe non appartengono a nessuno, non sono né presenti né assenti, ci sono delle scarpe, punto e basta
Picasso:
Van Gogh è immenso perché capace di nobilitare col suo pennello anche un paio di vecchie scarpe
Cini (che poi sono io che scrivo):
Cosa posso dire, dopo questi grandi giganti dell’arte e della cultura, l’immensità artistica vista da Picasso, la verità di Heideggher, l’oggettività di Deridda, il vissuto dell’autore di Shapiro, e potremmo andare avanti a sfaccettare la proiezione dell’oggetto figurativo in infinite letture interpretative. Poiché la necessità di noi umani è una sensibile individualizzazione, che troviamo nella scorporazione dei significati e nella frammentazione delle interpretazioni. Nessuna delle visioni è di per sé negabile, si completano.
Il mio interesse, invece è andare nel senso opposto della lettura interpretativa, anzi in direzione contraria ad una epistemologia estetica e concettuale.
Le scarpe di Van Gog, personalmente le sento come bagliori empirici, sono esperienze, le quali come zattere non ci fanno affondare nella logica giustificativa dei nostri mondi culturali, etero e auto prodotti. Queste scarpe non esistono pur essendoci, possiamo dire che queste opere vivono in modo sotterraneo, sono pura funzione di approdo, e noi dobbiamo vedere con precisione dove siamo approdati, sapendo che il mezzo che ci ha trasportati è pura illusione, e come tale lo abbandoniamo alla sua deriva. Le scarpe inesistenti che tutto dicono ci portano lontano, esse sono la sede del tempo, come ogni opera d’arte non è materia, simbolo, forma, ma solamente tempo sotterraneo. L’opinione e l’interpretazione è il luogo dove l’oggetto visibile ma inesistente ci ha portato, l’idea delle cose è il nostro luogo d’esistenza, luogo ormai privo di qualsiasi cosa. Questo azzeramento si fa manifestazione del visibile, e su quel visibile illusorio e reale, costruiamo i nostri mondi per provare ad esserci.
Proprio perché le scarpe di Van Gogh ci sussurrano ancora, agli orecchi così tanto intellettuali della nostra cultura occidentale, che il reale è illusione come cita la tradizione vedica, a dimostrazione che nella “Belle epoque” ci sono i germi degeneri della prima guerra mondiale, anche l’arte non può tacere e reagisce reagendo davanti un insicuro reale, trasformandosi in una percezione surreale del mondo. Dopo il grande inganno che si è perpetrato verso l’umanità, non resta che il sogno. Perchè la guerra non lascia solo dolore e rabbia, che sono le emozioni più evidenti, ma soprattutto l’amaro sapore che simili situazioni si possono ottenere esclusivamente tradendo coloro di cui ci si dovrebbe prendere cura. Governi, politica, religione, economia, la cultura dominante, tutti non possono che essersi rivelati come grandi ingannatori.
Se il reale è fasullo cerchiamo di sopravvivere col surreale.
Ed è proprio il surrealismo, quello specifico di Magritte che ci pone di fronte a questo dilemma, dichiarando che nell’impressione “impressionistica” che ci lasciamo alle spalle, l’umano non è umano e le cose non sono oggetti. Quindi anche i piedi posso essere scarpe e le scarpe possono essere piedi. Il piede tagliato di Manet era veramente un piede, anche se lontano dal suo corpo, e anche le scarpe di Van Gogh erano ingenuamente scarpe. Ma con Magritte si surrealifica la percezione della vita, non solo come in un sogno di immagini ma come una oniricità di significati. La vita che vedi, le cose che hai, quello che pensi, vanno verso una mescolanza che per forza di cose, annulla tutte le proprietà delle singole parti, la mescolanza o meglio la fusione dei significati e delle funzioni, annulla reciprocamente l’esistenza del reale. Questo è il surrealismo di Magritte e delle sue scarpe piedi o piedi scarpe.
A questo punto, finisce la prima guerra, dove Magritte è ragazzino, passa la seconda guerra mondiale, che lo coinvolge. Finita anche la seconda guerra mondiale, l’America vuole tutto. Vuole strappare anche la sede della forte cultura, che fino a quel momento era depositata in Francia. I figli dell’illuminismo vengono sconfitti e cominciano a cavalcare il denaro dei nuovi imperialisti. Così il grande fantasma dell’arte va a far visita al grande continente americano. Come su di un tappeto volante, egli viaggia sui soldi della Peggy Guggenheim, sposata dall’opportunista Max Ernest che non l’amava, ma nessuno amava la povera ricca Peggy, tutti amavano i suoi soldi e lei fa sesso con tutti coloro che amavano i suoi soldi.
Consigliata inizialmente da Duchamp, fa incetta di surrealismi. Ma infine non può fare a meno di rovistare nel suo giardino americano, che lei non amava molto. Così trovò il carpentiere di suo fratello che dipingeva, un certo Pollok.
Con Pollok, che provava a fare dell’astrattismo un po’ surreale, o un surrealismo astratto, che dir si voglia, si cade nel disagio. Figlio della grande depressione, incontra gli indiani d’America, vede come compongono le loro opere d’arte, ne viene stimolato, ne copia i movimenti, le tecniche gestuali, le interiorizza nella propria storia professionale, nella propria biografia, nasce la tecnica del Dripping. Ma dal disagio della depressione sociale interpreta quella personale, e come gli indiani d’America la fa tacere con l’alcool. Fa della tela la propria riserva espressiva.
Ma quando la realtà è un’impressione, si possono ancora possedere i sensi dai quali si viene impressionati, esiste il corpo, esiste la persona.
Ma quando si sviluppa il surrealismo, la surrealtà non è più fuori, ma dentro ad ognuno di noi, e se è dentro vuol dire che esiste un ineffabile fuori non rappresentativo, c’è un dentro quindi qualcuno esiste.
Con l’astrattismo di Pollok scompare anche il soggetto, non c’è più nessuno…
Pollok:
Quando sono “nel” mio dipinto, non sono cosciente di ciò che sto facendo. È solo dopo una sorta di fase del “familiarizzare” che vedo ciò a cui mi dedicavo. Non ho alcuna paura di fare cambiamenti, di distruggere l’immagine, ecc., perché il dipinto ha una vita propria. Io provo a farla trapelare. È solo quando perdo il contatto con il dipinto che il risultato è un disastro. Altrimenti c’è pura armonia, un semplice dare e prendere, ed il dipinto viene fuori bene
Pollok rinuncia alla sua specifica personalità, si fa come dicono i critici, sciamano, poiché gli sciamani rinunciavano alla propria individualità per farsi canale di messaggi superiori, di contatti con quelle forze, di cui l’identità personale è refrattaria. Gli sciamani rinunciano all’essere coscienti per interpretare la coscienza cosmica.
Solo se la tela è vuota qualche entità può riempirla, sia una forza cosmica, sia l’interiorità dell’artista. Pollok in una specie di trance riemerge nell’arte del dripping, e nel periodo delle sue migliori produzioni, sublima il suo vuoto interiore nei contenuti della sua arte e smette di bere.
Poi arriverà il successo artistico, che come Manet, lo amputerà dal suo arto, Pollok sarà amputato dal suo Daimon sciamanico, ed entrambi andranno verso la morte.
Esser vuoti per “ricevere”, la parola Cabala vuol dire “ricezione”. L’astrattismo è la più New Age delle tecniche espressive.
Realismo, impressionismo, surrealismo, astrattismo, fu il percorso di un tentativo culturale di edificarsi in una ascesi disperata. Nella campagna rifugio dipingeva l’ultimo profeta, non fu un gallo che cantò tre volte, ma un Pollok, col suo bacio di guida, si schiantò al volante.
Ci restano le scarpe di Pollok come emblema dell’arte, le sue scarpe sporche di quella stessa vernice che caratterizzava i suoi lavori, quei stessi dripping che gocciolavano indifferentemente da un artista che non c’era. Tela e scarpe erano la stessa cosa. L’opera, attraverso Pollok si era ormai staccata dal supporto e attraverso quelle scarpe sporche d’arte casuale, che avevano tutto il diritto di camminare per strada, ma quelle scarpe così simili a quelle di Van Gogh, avrebbero camminato a loro agio per i cantieri, per l’America che cresceva in continuazione tra consumismo e strutture, in tutte le discariche possibili, in tutti i luoghi di consumo e di scarti.
Si approda all’arte contemporanea e al Trash come forma di contemplazione, fino alla rappresentazione delle disastrose migrazioni odierne, come nell’opera Barka di Sislej Xhafa, che non rinuncia, come molti artisti contemporanei a farsi un pedigree attraverso la morte degli altri, in nome della testimonianza. Parafrasando Primo Levi: Voi che vivete sicuri – nelle vostre tiepide mostre – voi che trovate nel vernissage – cibo caldo e visi amici – considerate se questo è un artista… può esserlo…
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