Nello Rubattu: Il coronavirus visto da Sassari

| 9 Maggio 2020 | Comments (0)

 

 

Coronavirus o meno ma la mia è una città strana. Strana a pacchi. O forse, lo sono tutte se si guardano bene. Non è grande, arriva a 130 mila abitanti, ma ha il mare alle porte e i quartieri su una collina che va giù fino verso la pianura. Aria buona quanta ne vuoi, e in inverno i dieci gradi non ce li ruba nessuno: di notte, ovviamente, di giorno arriviamo ai quindici. Solo in alcune giornate invernali si arriva vicino allo zero. Ma i miei concittadini sono educati male e già con quindici gradi indossano i capotti e dicono di avere freddo. I tavolini dei bar, però, rimangono sempre fuori. Basta ripararli dal vento di maestrale e dalla tramontana che un caffè e quattro fesserie con gli amici non te le nega nessuno.

È una città povera e gli stipendi di chi è fortunato in famiglia, raggiungono a malapena i duemila euro.

Quasi nessuno si lamenta, però, e questo non è un bene. La delinquenza non è mai stata tanta. Nelle graduatorie nazionali siamo sempre agli ultimi posti. La gente – è fastidioso dirlo – ma è abituata alla povertà e non ne fa un dramma.

Colpa del Mediterraneo, mi viene da pensare. Troppo sole, troppo bel tempo. Basta un euro e cinquanta di autobus e hai a disposizione una spiaggia di trenta chilometri e parchi alla periferia che ti fanno dimenticare i cattivi pensieri.

Il coronavirus, però, ha colpito anche dalle mie parti e nella mia città più che nel resto dell’isola. Oltre le solite constatazioni che se fossimo stati più organizzati non ce la saremmo passata così male, bisogna però ricordare che le percentuali cittadine – se paragonate a quelle del resto d’Italia – sono state inferiori alla media.

La cosa strana è che la gente, non ha fatto molte storie sul fatto di essere costretti a stare in casa. Pochi davvero, i furbetti. Qualcuno, sia ben chiaro lo abbiamo avuto, ma casi molto isolati. Gli unici che hanno fatto casino sono stati una ventina di studenti spagnoli, in città con l’Erasmus che si sono regalati una festa su un terrazzo. Li hanno beccati subito e li volevano espellere. Poi si sono scusati e lo spirito del Mediterraneo ha prevalso: “Mettetevi a dare una mano alla Caritas e quando finisce questa maledizione ne riparliamo”. Di sicuro restano in città. Non è nel nostro spirito fargliela pagare. Non so se sia giusto, ma così si fa ai confini del mondo.

Però, da noi, vedere assembramenti si fa fatica: tutti con la mascherina e in fila per i negozi.

Anche se siamo mediterranei, non siamo particolarmente chiassosi e, forse per la povertà che non ci ha mai abbandonato in questi ultimi secoli o per il fatto di essere un’isola o per chissà che accidenti di altra ragione esistenziale, ma le forme di aiuto per i più poveri, (da noi li chiamano messi male) è stata organizzata in maniera spontanea e senza farla tanto lunga.

I primi a muoversi sono stati i commercianti, quelli delle frutta e verdura e i negozi di alimentari. Anche i negozietti dei bengalesi e dei cinesi – da noi molto presenti – hanno tenuto a non aumentare i prezzi.

Molti commercianti hanno organizzato delle mensole fuori dai loro negozi, dove lasciavano pacchi di alimenti gratuiti con la scritta “chi ne ha bisogno prenda e a buon rendere”. Ci mettevano del loro e accettavano soldi dai clienti da tramutare in viveri. Anche con i prezzi non ci sono stati aumenti, non ho notato variazioni: un chilo di pane costava quanto prima e le arance viaggiavano fra i due e i tre euro, a seconda della qualità. Il formaggio di pecora era sui dieci e una confezione di sei bottiglie da due litri di acqua minerale, come al solito costava meno di due euro.

Anche le macellerie non hanno cambiato i prezzi, neanche di un centesimo. Ne ho visitate diverse e quindi posso assicurarvelo. Sono aumentati soprattutto il parmigiano e i prodotti della grande distribuzione. E proprio questa non l’ho capita.

Le mascherine si trovavano da uno a due euro: solo quelle in vendita nelle farmacie avevano prezzi più alti. Colpa del Governo che si è lasciato prendere alla sprovvista e non è intervenuto subito per calmierare i prezzi alla fonte. Alcuni farmacisti con i quali ho parlato, mi hanno fatto vedere i prezzi di acquisto e il tasso di guadagno, mai superiore al trenta per cento. Losa, un negozio di ferramenta molto conosciuto in città, sui guanti ha tenuto a non guadagnare neanche un centesimo: non solo ha messo a disposizione quello che aveva in magazzino ma non ha voluto variare sui nuovi arrivi di merce.

Insomma, si sono comportati mediamente bene e nessuno ha strafatto.

Da noi però, bisogna considerare che soprattutto nel centro storico della città, si fa molta vita di strada. E quindi il controllo è molto più stringente. La gente le cose le vive in prima persona.

Certo, almeno in Sardegna, quest’accidenti di virus sta facendo le valigie. Forse quest’estate ci lascerà in pace. La voglia di mare comincia a farsi sentire. Non parlo di turisti, parlo proprio di noi. Non sono un grande nuotatore, uno che impazza per l’abbronzatura, mi piace starmene accomodato in una baracchina che dà sul mare ad assaporarmi un caffè. Il nostro è “un mare venerato”, direbbe Paolo Conte. Ha le mollezze del Mediterraneo, porta a stare con gli altri, a flanellare discutendo su problemi che non verranno mai risolti, che cominciano con la classe politica che vorremmo e finiscono con gli amori che non abbiamo mai chiuso. Il nostro è il mare del “non far niente”: niente pedalò, poche discoteche, niente file di ombrelloni. Ci sono anche quelle, ma sono davvero ancora molto poche e molto recintate. Solo una volta in tutta la mia vita sono capitato in Costa Smeralda. Mi ricordo che sbarcando a Olbia, abbiamo accompagnato una velista finlandese (faceva proprio quello di mestiere) che doveva raggiungere Porto Cervo e non aveva mezzi per arrivarci. Ma quell’affare di villaggio non mi è piaciuto neanche per un affanculo. Non è fra le mie corde perdere il tempo in posti così inutili: eccessivamente pretenziosi e angoscianti nel loro eccitare nelle menti malate di chi li frequenta la voglia di farsi considerare i primi della classe. Non ho mai capito come i ricchi li amino, quei posti. Sono il massimo del più spaziale tzerragume che da noi vuol dire proprio il peggiore del pessimo.

Però a a dire la verità: sono fatti loro. Basta che non colonizzino con le loro cazzate di resort, di acquadream, di barche superlusso l’intero delle nostre coste che uno strapuntino di calette posso anche concederlo. Ma con patti chiari e “Cum juicio”, direbbero i gesuiti L’importante che non rompano più di tanto.

Con la fine ormai prossima del coronavirus, però, ricominciano le cazzate all’italiana. Ieri mi è capitato di vederne una in diretta: una manifestazione dei deputati di Fratelli d’Italia, a Roma, difronte al Parlamento, nel quale chiedevano più attenzione a quelle categorie che non sono comprese nelle prossime aperture. Niente da dire, potrebbero avere anche ragione e non è scritto da nessuna parte che nelle direttive del Governo, non vi siano delle falle. Il brutto è come quelli di fratelli d’Italia hanno presentato il loro punto di vista. A dirigere il tutto la signora Meloni, che vagava da una parte all’altra delle sue truppe per farli allineare a debita distanza intruppati in fila come dei soldatini. Le donne parlamentari con l’abito buono primaverile un po’ sexi e l’acconciatura in ordine. Gli uomini erano tutti rigorosamente in giacca scura, cravatta in tono e fra i più giovani impazzavano i jeans. Forse per spezzare. La Meloni, ho visto che si affannava a metterli in riga: da buoni italiani, quei nostri rappresentanti politici, facevano una grande fatica a tenere la fila: “Spostati – diceva la Meloni – metti il cartello . Tieni la fila. State più avanti, no più dietro”. insomma, sembrava di essere in una gita scolastica di ragazzini delle elementari con lei che faceva la parte della maestra. In realtà, tutto l’ambaradan era legato al fatto che la Meloni, perfettamente avanti e al centro delle sue truppe, si stava concedendo a una selva di microfoni e telecamere per una diretta da ricerca della solita “visibilità mediatica” di cui, probabilmente sentiva una grande necessità. A un certo punto un deputato che mi sembrava molto giovane – colpa dei jeans molto stretti – si mise a grattare il suo pacco. Non pensate non lo capisca: non ho mai avuto dei jeans proprio per lo stesso motivo. Stringono dove non dovrebbero. Sono davvero fastidiosi. Comunque, il risultato di quei tre secondi di ripresa è stato davvero inopportuno per l’immagine che probabilmente la Meloni voleva dare delle sue truppe. Ma la cosa più brutta sono state le mascherine: tutti le indossavano (meno la Meloni) e tutte rigorosamente tricolori! Una cosa da filmetto di terza categoria, da strapaese. Come diavolo può venire in testa una cafonata del genere? Possibile che la signora Meloni non abbia capito che quelle mascherine, proprio perché tali, rappresentano in concreto un “divieto”? Che sono proprio il contrario della sua richiesta di liberalizzazione? Chiedetelo a un pubblicitario quanto sia sempre negativo non far vedere il volto. E se poi non lo si fa vedere nascondendolo con una maschera tricolore è ancora peggio: si comunica solo un messaggio negativo, carcerario. Come se fossimo tutti in galera. Alla faccia di un messaggio positivo!. Ma la signora Meloni non è molto attenta a certe sottigliezze e sono sicuro che quella diretta da dilettanti allo sbaraglio se l’è inventata in solitudine, senza consultare uno straccio di semiologo: almeno quell’errore glielo avrebbe segnalato. Ma valli capire i nostri politici: pensano ancora che basta che di loro si parli che tutto va bene. Roba da cercopitechi.

Nella mia strada, invece, va tutto bene. Ora si può anche uscire di più. Se ci vogliamo fare un giro ai giardini è consentito. Niente male. Personalmente mi manca la mia tappa quotidiana al mio baretto alle quattro cantonate, quello di Maurizio e Fabrizio. Speriamo possano aprire presto. Sono giovani i due. Nonostante due mesi di fermo ce la dovrebbero fare. Io, comunque, mi impegno a passare tutti i giorni da loro per un caffè. Purtroppo non posso accompagnare la mia tappa con una pasta (hanno quelle meravigliose che arrivano dal laboratorio dei Masia), con bottega proprio in via Esperson, a due passi da casa mia. Sono pasticceri che il mestiere se lo passano da generazioni. Uno di loro, come me, è diabetico. Mi capisce quando ogni tanto faccio tappa da loro, solo per sentire il profumo dei dolci. Inutile farla lunga, ma siamo fatti di ricordi, Da piccolo, quando passavo per via Rosello, allora una delle vie commerciali della città, mi incantava la vetrina di un bar pasticceria (oggi ho visto che al suo posto è nato un circolo). Ci mettevo il muso su quelle paste. Per fortuna mi separava il vetro.

I ricordi hanno sempre qualcosa di malinconico. Lo ricordava Jacques Brel e io confermo. Se dovessi dargli un tempo atmosferico, direi che ricordano le luci del tramonto. Sapete: quando dalle nostre parti il vento diventa solo un accenno e l’aria si prepara all’arrivo della notte. E poi, c’è poco da fare. i tramonti dalle nostre parti hanno qualcosa di speciale. Siamo fatti di Mediterraneo. Ne percepiamo l’odore. Mi ricordo che quando sono arrivato a Bologna per l’università, la prima cosa che ho notato fu proprio il cambio degli odori. L’Italia la conoscevo da Genova. Mio fratello lavorava in quella città e stava in una strada delle colline, quelle che confinano con la linea delle antiche fortificazioni della città. Continuando per quella strada si arriva sui primi appennini. Da quella posizione i profumi somigliavano ai nostri: un misto di erbe di macchia esaltate dai venti salini del mare. Forse per questo fra le città italiane ho sempre amato Genova. Bologna non mi dava lo stesso piacere. La campagna di pianura, sa di erba tagliata di fresco, di un verde persistente anche d’estate, di profumi di pampini di pioppo e di pennacchi fioriti di canne palustri che in primavera svettano e nascono in tutti i fontanili. Da noi l’erba in estate è secca, ingiallisce e si asciuga. La fanno da padroni gli olii che evaporano dal mirto, dalla lavanda selvatica, dal lentisco. È tutta un’altra faccenda. Ci sono stato (e ci sto) bene a Bologna e chi dice il contrario mente. Anche oggi che è diventata una città di turisti veloci che gironzolano in centro e posano felici per una foto nella via dove abitava Lucio Dalla, rimane comunque umana. È abitata da gente che si appassiona alle cose, che discute molto. Ci sono abituati. È la loro storia. Forse, anche per questo che in questa città sono nate le sardine. Bologna è così e l’Emilia è questa. Ma io sono mediterraneo (forse l’ho già detto), mi fotte la voglia di mollezza. Coronavirus o meno, amo sparare dalla finestra, quattro fesserie con Maria che abita difronte o passare per un saluto da signora Angela o farmi consigliare da Mangatia che sui certi alimenti ne sa una più del diavolo. Appena riapriranno, mi concederò la visita in un circolino del centro con mio cugino, oggi mi accontento di flanellare per rivendite di tabacchi alla ricerca di sigari. Li conosco tutti. Con i titolari sono in confidenza.

Stamattina la ragazza che mi passa ogni mattina cantando sotto le finestre, ha migliorato il suo repertorio. Se le inventa da sola quelle canzoni e si capisce. I versi non sono il suo forte. Però, oggi le sue canzoni hanno raggiunto la rima baciata: “Ti amo non so stare senza te/ per questo ci sarà un perché/ Tienimi la mano/ lo sai che ti amo”. La melodia che accompagna i suoi versi, purtroppo, non è migliorata- L0 sforzo è però da apprezzare.

Category: Epidemia coronavirus, Osservatorio Sardegna, Osservatorio sulle città, Welfare e Salute

About Nello Rubattu: Nello Rubattu è nato a Sassari. Dopo gli studi a Bologna ha lavorato come addetto stampa per importanti organizzazioni e aziende italiane. Ha vissuto buona parte della sua vita all'estero ed è presidente di Su Disterru-Onlus che sta dando vita ad Asuni, un piccolo centro della Sardegna, ad un centro di documentazione sulle culture migranti. Ha scritto alcuni romanzi e un libro sul mondo delle cooperative agricole europee. Attualmente vive a Bologna

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