Davide Bubbico: Sviluppo economico e sociale in Brasile con il permanere di forti disuguaglianze

| 7 Maggio 2013 | Comments (0)

 

 

 

Davide Bubbico è docente  del dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche, Università di Salerno.

 

… o desenvolvimento acelerado do pais não reflete uma realidade nacional.  Ao contrário de que se pensa, a desigualidade social brasileira não está diminuindo tanto assim. Mais ricos ficaram biliionários do que miseráveis tornaram-se pobres. Enquanto a ponte avança de un lado do penhasco o barranco cai no outo. Não se sabe, portanto, se o voo do Cristo foi para fugir dos bolas perdidads ou da “marolinha” que virou tsunami em 2012,

Herbert Weil, giornalista di Zero Hora, 10 dicembre 2009

 

 

I motivi della crescita economica: da Henrique Cardoso a Lula

La crescita economica del Brasile, negli ultimi anni, è il risultato di fattori diversi che solo in parte sono riconducibili alle politiche promosse dal governo Lula. La continuità con alcune scelte di politica economica iniziate durante la presidenza di Henrique Cardoso, tra il 1992 e il 2002, costituisce l’aspetto più evidente di quello che da più parti è indicato come uno dei principali fattori che hanno favorito lo sviluppo economico del paese negli anni del governo Lula (2003-2010)[1]. La sola continuità su importanti misure di politica economica, come il controllo dell’inflazione, non basterebbero comunque a spiegare la crescita recente del paese, che nel 2016, fermo restando l’attuale ritmo di sviluppo, dovrebbe portare il Brasile a divenire la quinta economia nazionale al mondo[2]. Ciò che ha permesso, in altri termini, al paese di uscire dalla situazione di crisi lasciata dai governi presieduti da HC si è basata almeno su tre punti: tassi di interessi molto elevati (fino ad un massimo del 15% al netto dell’inflazione), un robusto avanzo primario (intorno al 4,5% l’anno) e un tasso di cambio fluttuante che ha portato al progressivo rafforzamento della moneta brasiliana[3].

Il Brasile non può essere considerato tuttavia un paese che ha conoscoiuto solo di recente una crescita sostenuta dell’economia e quindi della ricchezza. È fuorviante considerarlo come un paese povero in via di sviluppo (ora membro a pieno titolo dei c.d. paesi BRIC), nonostante la popolazione che ancora oggi vive in condizioni di povertà sia molto elevata, perché storicamente il paese è stato uno dei più ricchi se consideriamo solo le sue risorse naturali (ed energetiche), il problema è stato semmai il modello di re-distribuzione di questa ricchezza. Sia per le sue ricchezze naturali, sia per la crescita del settore industriale, già nel corso degli anni ’60, il paese era considerato la potenza economica emergente del continente sud americano. Allo stesso tempo, già allora erano evidenti i problemi legati alla forte disuguaglianza economica e sociale. Il rapporto tra crescita economica e sviluppo sociale costituisce, infatti, un fattore di riflessione non nuovo che l’esperienza recente del Brasile ripropone con forza, sia per effetto della sostenuta crescita economica degli ultimi anni, sia per la presenza di un partito di maggioranza relativa, il Partito dei Trabalhdores (PT), alla guida del governo, che nell’ambito di coalizioni ampie anche con partiti di orientamento moderato e di destra, ha gestito questa crescita e che tradizionalmente ha da sempre espresso una maggiore attenzione nei confronti del mondo del lavoro e delle classi più povere del paese. Non è un caso che il piano pluriennale del primo governo Lula fosse intitolato “Brasil para todos” con un’attenzione particolare ai temi sociali, la riduzione delle disuguaglianze, la promozione della partecipazione della cittadinanza, una migliore gestione del settore pubblico ma anche e di nuovo a favore delle infrastrutture. Come sostiene tuttavia Ricardo Gefter Wondrich «se si confrontano i risultati effettivi della componente infrastrutturale di Avança Brasil [proposto da Cardoso] e Brasil Para Todos con gli investimenti realizzati dalla Petrobras (la società petrolifera nazionale) negli stessi anni, il bilancio dei due piani quadriennali è senz’altro deludente. Ciò si deve sostanzialmente a due elementi costanti nell’ultimo decennio. Da un lato, la continua necessità dello Stato brasiliano di manifestare un bilancio fiscale in attivo si è tradotta in una cronica riduzione dei fondi e in uno stanziamento intermittente delle risorse economiche, particolarmente deleterio quando si realizzano infrastrutture che abbisognano di flussi costanti di investimenti e programmazioni finanziarie di lungo periodo. Dall’altro, la presenza di un problema di qualità dell’amministrazione pubblica, che proprio nella sua componente più operativa – le strutture deputate alle gestione delle opere pubbliche in materia di trasporti – è risultata incapace, dal punto di vista tecnico e manageriale, di eseguire e portare a termine i programmi previsti»[4].

Quello conosciuto nel corso degli anni duemila non rappresenta, dunque, per il Brasile il primo periodo di forte crescita in campo economico se consideriamo che fino alla fine degli anni ’70 questo è stato uno dei paesi a maggior crescita economica, anche se nel contesto di un lungo periodo di dittatura cominciato nel 1964 e terminato solo venti anni dopo[5]. In questo lungo arco di tempo la crescita economica ha prodotto, tuttavia, solo una maggiore concentrazione della ricchezza e quindi l’ampliamento di quelle disuguaglianze sociali ed economiche che già esistevano, con scarsi risultati sul piano della condizione sociale delle maggior parte della popolazione, come ad esempio nell’accesso ai servizi sanitari. Come afferma Pedro Cezar Dutra Fonseca, il Brasile dimostra che lo sviluppo economico in passato è stato reso possibile, «con o senza miglioramenti della distribuzione del reddito, con o senza il miglioramento degli indicatori sociali, non avendo nessuna “legge”, naturale o sociale,  che obbligasse ad intraprendere un altro cammino in campo economico. La distribuzione può avvenire, ma non necessariamente consegue dalla logica della crescita può anzi da questa essere impedita»[6]. Nel prendere in considerazione il rapporto tra sviluppo economico e sviluppo sociale, per Fonseca si sono confrontati in Brasile, negli ultimi decenni, almeno tre modelli di pensiero appartenenti a gruppi di pensiero differenti (espressione dei partiti, ma non solo), definibili nei termini di “risposta cinica, fatalista e ingenua”. Nel primo caso la distribuzione della ricchezza dipenderebbe unicamente dalla crescita economica senza qualsiasi possibilità di intervento da parte di altre variabili di carattere istituzionale. Una posizione oggi criticata ma ancora diffusa in molti circoli accademici, politici e imprenditoriali del paese e che corrisponde alla versione più nota del modello di Delfim Neto, pietra angolare dell’ideologia sviluppista-autoritaria del periodo militare, secondo la quale bisognava prima crescere per poter poi redistribuire. La seconda posizione, quella “fatalista”, è attribuita alle correnti di sinistra, compresa quella più estrema che considerano impossibile un convivenza di crescita economica e redistribuzione nelle forme capitalistiche del paese, anche se questa è mutata in alcuni settori della sinistra negli ultimi anni per effetto dell’esperienza governativa. Per ultima, la risposta “ingenua” considera la distribuzione come un pre-requisito della crescita, in cui le condizioni economiche sono conseguenza unica e esclusiva delle decisioni politiche. Questa posizione sarebbe diffusa di nuovo in alcuni segmenti di sinistra, dentro i social-democratici, e così in alcuni segmenti del PT.

Fonseca ritiene che oggi la possibilità di coniugare lo sviluppo con una più equa redistribuzione dipenda dal ritmo di sviluppo ed in particolare dalla possiblità di generare incrementi della produttività per effetto dell’innovazione tecnologica, e insieme da quello che definisce un adeguato quadro istituzionale. Questo modello non prevede, ad esempio, un processo di crescita basato sulla sostituzione delle importazioni, che è stato invece dominante nel Brasile del secolo scorso, almeno fino alla fine degli anni ‘70. Il paese, un caso di successo nel campo dell’industrializzazione in questo periodo sperimentò questo modello negli anni ‘30, ma come sostiene Fonseca il risultato in termini di redistribuzione fu che il Brasile si trovò in una condizione di disuguaglianza maggiore alla fine degli anni ‘70 rispetto a quando vi era entrato quarant’anni prima[7]. Questo significava che non si erano prodotte ricadute redistributive in termini sociali e così il livello degli indicatori sociali era rimasto basso. Inoltre, la scelta di sostituire le importazioni aveva determinato, di fatto, un mercato interno protetto per le industrie nazionali che aveva finito per determinate il blocco degli investimenti e limitare la capacità di esportazione del paese – nel 2003 ancora con una presenza irrisoria sul mercato mondiale[8] – insieme al processo di innovazione tecnologica. Abbiamo ripreso questa parte del ragionamento di Fonseca perché l’attuale modello di crescita del paese si basa contemporaneamente, ma del resto non potrebbe essere oggi diverso, sia sull’aumento dei consumi interni e di nuovo su un meccanismo di sostituzione di una parte delle importazioni, sia sulla crescita della presenza nei mercati esteri in particolare verso i paesi di nuova industrailizzazione come Cina e India, paesi con i quali durante il governo Lula sono stati stipulati diversi e significativi accordi, alcuni dei quali con oggetto lo scambio di materie prime con prodotti finiti o viceversa (nel 2009 la Cina è diventata il primo paese importatore di prodotti made in Brasile al posto degli Stati Uniti)[9].

Come scrive Renaud Lambert la crescita dell’export ha avito però negli ultimi anni anche il risultato di rafforzare la penetrazione del capitale estero[10], poiché se le esportazioni sono aumentate annualmente del 20% tra il 2003 e il 2006, assorbendo il deficit della bilancia commerciale, queste sono state accompagnate da una nuova ondata di investimenti diretti esteri (IDE), che sono passati da 10 miliardi di dollari del 2003 (il 2% del Pil) a 45 miliardi nel 2008[11]. In questo quadro se alcuni sostengono un processo di graduale indipendenza dalle dinamiche delle economie dei paesi leader nell’economia mondiale come gli Stati Uniti, altri sostengono che al contrario è aumentato il grado di dipendenza esterna. Va detto, come sostiene Patrice Lambert, che l’apertura del paese all’economia internazionale è stato una caratteristica fondamentale della presidenza Cardoso. Scrive Lambert che Cardoso «influenzato da quello che considera il “successo” delle strategie neoliberiste di stabilizzazione realizzate in Messico e in Argentina, decide di mettere l’apertura ai capitali stranieri al centro della sua strategia: non si tratta più di pruomovere uno “sviluppo autonomo” sostituendo le produzioni alle importazioni, ma, al contrario, di facilitare quete ultime affinché rinvigoriscano la comptizione e spronino la produttività. Cardoso si impegna dunque ad adattare il Brasile al gusto degli investitori. Le barriere tariffarie vengono sfrondate, i controlli di cambio alleggeriti, la Costituzione rivista per rendere possibile un ambizioso programma di privatizzazione (per un totale di circa 90 miliardi di dollari in due mandati)»[12]. I risultati di questa politica sono stati piuttosto fallimentari se si considera che è cresciuta la disoccupazione, il reddito nazionale è aumentato di poco, è crollata la bilancia commerciale ed è aumentato il deficit per effetto dell’aumento dei tassi di interesse necessari ad attrarre capitali dall’estero che devono colmare quelli in fuga e sostenere la spesa interna.

 

 

Lo sviluppo economico tra politiche sociali e aumento dell’occupazione

Come abbiamo scritto in precedenza non esiste un accordo unanime sull’attribuzione del sucesso economico del paese alle sole politiche promosse dal governo Lula nei suoi due mandati presidenziali. Per quanto alcuni di questi rilievi vengano da ambienti non vicini al PT è indubbio che alcune premesse sono state poste già nel corso degli anni ’90. Come sostiene, ad esempio, Caludio Salm, «molti degli sviluppi in campo sociale attributi al governo [Lula] sono il risultato di un processo più lungo di sviluppo, con effetti cumulativi (…) alcune delle ragioni di questo progresso lineare si incontrano nel ciclo economico che risale all’apertura dell’economia brasiliana e al controllo dell’inflazione, negli anni ‘90»[13]. A questi fattori ne andrebbero aggiunti, inoltre, come sancito dalla Costituzione del 1988, la generalizzazione dei pensionamenti rurali e della salute di base. E ancora, dal punto di vista demografico, l’accentuata riduzione della fecondità a partire dal decennio ‘60. Sempre secondo Salm, è però anche vero che l’universalizzazione dell’accesso all’istruzione e alla salute convivono con prestazioni qualitativamente basse, così come permangono negativi gli indicatori sociali che dipendono dagli investimenti in infrastrutture, come ad esempio il dato relativo alla rete fognaria[14] che attualmente serve solo metà della popolazione e quello relativo alla popolazione  che vive in abitazioni non appropriate (tra i 6 e gli 8 milioni di nuclei familiari). La sua conclusione è che lo Stato dovrebbe aumentare gli investimenti (con maggiori risorse e una migliore gestione) e delimitare gli ostacoli al settore privato perché questo possa concorrere in maggior modo allo sviluppo del paese. Sempre secondo Salm, sulla base di dati elaborati dall’IBGE (l’istiuto di statistica brasiliano) dal 1996, andrebbe poi considerato che la crescita economica, a partire dal 2000, ha cominicato a generare impiego soprattutto nei segmenti poco qualificati della forza di lavoro, un fattore che oggi contribuirebbe a spiegare, più della Borsa Famiglia, la diversa distribuzione del reddito raggiunta negli ultimi anni[15]. Questo è solo uno dei tanti commenti che compaiono periodicamente sul principale quotidiano del paese ed anche quello più diffuso nel paese. In altri termini i risultati degli ultimi due governi Lula sarebbero dovuti principalmente allo sviluppo economico del paese le cui basi sono antecedenti alla vittoria del PT del 2002, e soprattutto alla crescita dell’occupazione.

Il segno tangibile dello sviluppo recente del paese è dato proprio dall’aumento generalizzato dell’occupazione, il cui effetto è stato moltiplicato anche dal costante aumento del salario minimo e dal fatto di essere superiore al tasso di inflazione, determinando di conseguenza un aumento del potere di acquisto dei salari e favorendo così l’aumento della propensione al consumo da parte della popolazione distribuita nelle classi di reddito inferiore. Secondo Josè Mauricio Soares (Departimento Intersindacal de Estatistica e Estudos Socioeconomicos) il salario minimo[16] avebbe guadagnato potere di acqusito dal 1995, ovvero con l’inizio della presidenza di Fernando Henrique Cardoso (FHC)[17]. Alla fine del 2009 il valore del salario minimo era di 510 reais, cresciuto del 70% rispetto al 2005 quando era attestato sui 300 reais. Si consideri, inoltre, che nel paese la possibilità di avere più di un’occupazione regolare è molto diffusa, tanto che nelle statistiche sul mercato del lavoro il numero di occupati è riportato anche per numero dei salari minimi conseguiti. Allo stesso tempo il peso dell’occupazione informale rimane ancora molto elevato, si stima sia pari al 40% della popolazione attiva, un dato anche questo in parte controllabile attraverso le rilevazioni sul mercato del lavoro che in molti Stati includono anche i lavoratori senza contratto (sem carteira assegnaida).

 

 

 


[1] Si veda a questo proposito il volume di José Prata Araújo, Um retrato do Brasil. Balanço do governo Lula, Editoria Fundação Perseu Abramo, São Paulo 2006. Araújo, economista molto vicino al Partito dei Trabalhdores (PT) è stato per molti anni responsabile del sindacato dei bancari di Belo Horizonte. La Fondazione Perseu Abramo può essere considerata un’istituzione culturale di diretta emanazione del PT. In verità i tassi di crescita del Pil durante il primo mandato presidenziale sono stati assai limitati rispetto agli altri paesi del continente sudamericano, anche se la ragione starebbe soprattutto nell’adozione di politiche ortodosse al fine di contenere l’inflazione.

[2] Con una ricchezza in termini di PIL di 1.994 miliardi di dollari nel 2008 il paese ha raggiunto il nono posto a livello internazionale con un reddito pro-capite di 5.600 dollari.

[3] Giancarlo Summa, Lula alla guerra del Pil, in “Limes”, n. 3, 2007, vedi in particolare pp. 48-49. L’avanzo primario corrisponde alle entrate del governo meno le spese, al netto del pagamento degli interessi sul debito.

[4] Il grande balzo in avanti, in “Limes”, n. 3, 2007.

[5] I due periodi di maggiore crescita del paese sono identificati generalmente con la presidenza di Juscelino Kubitschke (1956-1961) e con il quinquennio 1968-1973, nel pieno della dittatura militare, periodo questo definito, come nel caso del Italia, tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 60, come quello del miracolo (milagre).

[6] Pedro Cezar Dutra Fonseca Desenvolvimento economico e distrubucao de renda, in Mauro Salvo e Sabino da Silva Porto Junior (a cura di), Uma nova relacao entre Estado, Sociedade e Economia non Brasil, Edunisc, Santa Cruz do Sul, p. 272. Fonseca è professore del Dipartimento di Scienze Economiche della UFRGS e ricercatore del CNPq.

[7] Sullo sviluppo industriale del paese compreso tra il 1930 e il 1970  si veda Flavio Versiani e Jose Roberto Mendoca Barros (a cura di), Formacao economica do Brasil: a exsperienca da industrializacao, Saraiva, San Paolo 1977.

[8] Nel 2008, primo anno della crisi economica internazionale, la bilancia commerciale del paese ha raggiunto un superattivo di 22,452 bilioni di reais. Le principali esportazioni sono risultate soia, carne e ferro. Sempre in questo anno ad un import di 178 mld dollari sono corrisposti 200 miliardi di dollari di esportazioni. Negli ultimi anni il surplus commerciale è stato realizzato soprattutto con la vendita di materie prime e non con prodotti industriali, come dimostrano le crescenti quote di etanolo combustibile.

[9] L’espansione commerciale del Brasile è particolarmente forte in tutto il continente sud americano per effetto degli investimenti e delle acqusisizioni realizzate di recente anche per effetto del mutato quadro politico del contentinente. Come scrive Lamia Qualalou, «I brasiliani sono i primi ad approfittare dell’esplosione della domanda nel vicino Venezuela (…) Caracas è costretta, in mancanza di un vero settore agricolo e industriale, a importare dalla Colombia e – con il progressivo peggioramento delle relazioni con Bogotà – dal Brasile. In Argentina la brasiliana Am-Bev cerca di nascondere alla popolazione l’acquisto della mitica birra Quilmes. I principali produttori locali di carne sono passati sotto bandiera brasiliana in Uruguay, dove anche il settore del riso è in mano ai brasiliani. In Bolivia le imprese brasiliane controllano più di un quinto dell’economia attraverso la soia e i giacimenti di gas. In Paraguay le terri fertili dei dipartimenti dell’Alto Paranà, San Pedro, Concepción, Amambay e Canindeyú sono tutte coltivate con soia brasiliana» (Brasilia si lascia alle spalle il «complesso del bastardo», in “Le Monde Diplomatique”, Gennaio 2010, p. 15).

[10] Una delle conseguenze di questa penetrazione sta nel fatto come scrive Lambert (cit. p. 16) che «Le uscite vero l’estero di profitti e dividendi ammontano a quasi 34 milioni di dollari nel 2008 – circa il 3% del Pil –, un aumento del 50% rispetto al 2007 e del 500% rispetto al 2003. La bilancia dei conti correnti mostra così, nel 2008 il suo deficit più alto da dieci anni (28,3 miliardi di dollari, cioè il 2,5% del Pil)».

[11] Renaud Lambert, Il Brasile, un gigante incatenato, in “Le Monde Diplomatique”, Giugno 2009.

[12] Ivi, p. 16.

[13] Claudio Salm, editoriale pubblicato il 12 gennaio 2010 sul Fohla de San Paulo. Claudio Salm è docente dell’Università di Campinas (UNICAMP).

[14] Alla fine del 2008 la popolazione servita dai servizi reflui delle acque era ancora il 52,4%, una percentuale comunque in crescita rispetto al 41,1% dell’ultimo periodo del governo di FHC.

[15] In un qualsiasi esercizio commerciale, come in molti comparti dei servizi pubblici, il numero di persone impiegate è normalmente superiore a quello che si potrebbe riscontrare in Europa. Basti solo pensare che nei supermercati in prossimità delle casse esistono anche addetti per l’inserimento degli acquisti nelle borse della spesa.

[16] L’introduzione del salario minimo risale alla presidenza di Getulio Vargas che annunciò la sua istituzione il primo maggio del 1940.

[17] Fohla de São Paulo, del 12 gennaio 2010.

 

Questo articolo è stato pubblicato in “Inchiesta” gennaio-marzo 2013 all’interno del Dossier curato da Aurea Costa e Rogèrio Freitas.

 

 

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Category: Osservatorio America Latina

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