Valerio Bondi, Tiziano Rinaldini: Conversazione sugli operai, la Fiom, le elezioni

| 5 Maggio 2013 | Comments (0)

 

 

 

La conversazione con Valerio Bondi introduce interessanti riflessioni di unsindacalista (Segretario Generale della FIOM di Reggio Emilia) pervenuto all’impegno sindacale nei primi anni del 2000 dopo un’iniziale politicizzazione partecipando ai movimenti universitari no global della fine degli anni ‘90. Le osservazioni sono quindi connesse ad un’esperienza in atto sul campo, e si accompagnano al carattere dialogante del rapporto con l’intervistatore, Tiziano Rinaldini, che a sua volta appartiene ad un altro percorso generazionale sul piano sindacale essenzialmente fondato sull’esperienza dei metalmeccanici degli anni ’70 (preceduta dalla partecipazione dei movimenti universitari del ’68 bolognese). Anche per questo abbiamo ritenuto opportuno mantenere le caratteristiche orali del dialogo .

 

Tiziano RINALDINI: Le elezioni hanno messo in evidenza – in dimensioni che molti hanno considerato inaspettate – una situazione di voto degli operai che – non è la prima volta – esprime chiaramente una grande distanza rispetto alla rappresentanza politica nelle forme che vengono loro proposte. Tu hai vissuto e vivi la realtà in una quotidiana concreta relazione con operai e delegati, accordi e lotte, sulla base del percorso della Fiom di questi anni. Nello stesso tempo, sei uno dei non molti sindacalisti la cui iniziale politicizzazione è avvenuta all’interno dei movimenti universitari e “no global” sfociati in Genova 2001, e che di seguito ha investito radicalmente il proprio impegno nel sindacato attraverso la Fiom.

Quello che quindi intanto ti chiedo, rispetto alla tua esperienza ed anche rispetto a te stesso, quale è l’idea che ti sei fatto rispetto a quanto sta accadendo.

Valerio BONDI – Diciamo che la lontananza dei lavoratori, almeno di quelli che conosco io, rispetto ad una identificazione storica con i Partiti di Sinistra è abbastanza marcata, anche perché – questo te lo posso dire anche come esperienza mia personale – è molto difficile trovare nella discussione politica di questi anni una corrispondenza tra i problemi che tu affronti dentro le aziende e la discussione politica che c’è.

Voglio dire che io stesso faccio fatica ad identificare una proposta politica capace di interagire con i problemi che ci siamo trovati di fronte nelle fabbriche. Questo elemento del “serve un cambio radicale, servono facce nuove, serve un repulisti generale”, magari fatto anche per le spicce è un discorso che è aperto da tempo. C’è una sfiducia nella rappresentanza politica in primis, ma non solo. Infatti penso che anche al Sindacato verrà presto posto un problema di questo tipo.

Questo elemento di sfiducia, questa discussione che non risponde ai problemi reali che io ho di fronte, è una situazione che è aperta da un po’ di tempo nelle fabbriche. Ho un esempio che mi è rimasto in mente: quando ci fu l’ultimo governo Prodi, ci fu una discussione nelle fabbriche sulla Finanziaria del governo che fu abbastanza violenta, perché la gente si aspettava un intervento di riduzione delle tasse che fosse sensibile. Se ti ricordi, si discusse della modifica della prima aliquota e della riduzione del cuneo fiscale. Quando la gente vide che in busta paga non era cambiato nulla ci fu proprio una reazione esplicita.

Da lì in avanti c’è stato, secondo me, un distacco netto, verticale che ha investito il voto operaio, come voto che andava a forze di Sinistra. In questi territori si è conservata, in una prima fase, qualche adesione di operai un po’ più anziani, più politicizzati, ma soprattutto che ricoprono ruoli un po’ più protetti all’interno delle aziende. Questi guardano ad una forma più tradizionale, sono militanti o comunque simpatizzanti della Sinistra, dal Partito Democratico a Sel, o anche a Sinistra di Sel. Secondo me, a sinistra di Sel, poca roba; se penso ad Ingroia, penso a Rifondazione, penso a queste aree, lì davvero poche cose, forse più sui giovani che sulle fasce medie ed anziane. Però poca roba, parliamo di qualcosa di marginale.

L’altro elemento che hai di fronte è che l’appoggio al governo Monti, alle sue scelte che sul mondo del lavoro hanno inciso profondamente (pensioni, Art.18, etc.) ha segnato tra la gente uno spartiacque, nel senso che le forze che hanno sostenuto ed appoggiato quelle scelte, secondo me, hanno pagato – ed io aggiungo giustamente – un prezzo. La vicenda delle pensioni, ancora più dell’Art.18, ha inciso, come in questo territorio dove hai avuto reazioni, hai manifestato, hai scioperato, hai fatto casini.

Io ho sentito tanti, anche tra i delegati, sia nei Direttivi che nelle assemblee, che nelle discussioni che fai, nelle pause durante le trattative, dire: “Il Bersani che ha sostenuto e votato queste cose, il mio voto non lo prende”. Quindi penso che ci sia anche questo elemento che ha una sua ragion d’essere. Se parli di esperienza soggettiva, la mia personale, io alla fine ho votato, anche se in maniera molto combattuta, Ingroia, però non sono mai stato convinto di quella proposta politica, che mi è sembrata una operazione estemporanea fatta a tavolino e non chiara. Mi è sembrato più un affastellamento di istanze che non una proposta precisa. Anche io ho pensato, come hanno fatto molti operai, che le forze che avevano sostenuto alcuni provvedimenti non potevano avere il mio voto, ed anche io ho percepito che nella proposta di Grillo c’era uno strappo che era sentito come salutare, cioè quello della discontinuità radicale che lui propone.

Io, poi, non ne rimango affascinato, non gli ho dato il voto. Però sicuramente, è diffusa la convinzione che bisogna cambiare facce e modi, e che sei di fronte ad una classe dirigente che non è riuscita a gestire la situazione e contestualmente ha dato a sé condizioni di privilegio insostenibile. Questa è una cosa che conta parecchio.

Dentro le fabbriche sembra presentarsi anche un “analfabetismo” politico. Forse il termine è un po’ forte, ma è sufficientemente significativo, nel senso che leggere la propria condizione e tradurla politicamente è un passaggio non semplice. Penso che la stessa cosa aveva stupito molto nel periodo del boom della Lega, della diffusione del voto leghista. La gente era stupefatta e diceva: “Ci sono iscritti alla FIOM che magari votano la Lega”, una forza che rispetto alle istanze sindacali che tu porti avanti è in contraddizione. Ciò si spiega perché c’è quindi un doppio livello di rappresentazione: c’è una condizione sociale dentro la fabbrica che spesso è intercettata con successo dalla FIOM e c’è una incapacità di tradurla, poi, politicamente, a Sinistra. Questo deriva un po’ dalla proposta politica che non c’è ed un po’ anche dalla incapacità delle persone. Quindi sei in una fase molto complicata, per cui c’è tutta una parte che questo scatto non riesce a farlo, non lo legge proprio, non lo realizza.

 

RINALDINI – Rispetto alla caratterizzazione che la FIOM ha assunto in questi anni nel rapporto con gli operai, nel rapporto anche con la politica e con i problemi che si trova ad affrontare, la questione della rappresentanza politica che caratteristiche ha? Ha caratteristiche che possono essere definite o è materia tutta da esplorare senza avere certezze di partenza? Quali sono i punti critici, anche rispetto alla logica dei Movimenti che ci sono stati in questi anni, che in genere sono stati Movimenti delimitati ad un tema o a un territorio o nel tempo in cui si sono espressi?

La FIOM, invece, costituisce ancora un elemento di continuità, non più di tanto delimitato, sia per le sue caratteristiche storiche, sia per il tema del lavoro a cui è applicata. Il suo punto di vista quindi la obbliga ad affrontare il problema di estendere il suo ruolo sui vari terreni, a strutturarsi e a darsi continuità, a partire dalle questioni del lavoro e dei lavoratori.

BONDI – Sul tema del rapporto tra quello che dice la FIOM e la politica, i lavoratori avrebbero percepito nettamente come vicina una proposta che avesse fatto suoi alcuni degli elementi che noi in questi anni ci siamo trovati ad affrontare. Dunque, se ci fosse stata una forza politica, con un ragionamento – insisto – non estemporaneo, costruito in due mesi, che avesse messo al centro il tema della democrazia, e cioè se i lavoratori hanno un potere di decisione e di controllo sugli accordi che vengono fatti, se ci fosse stata una forza politica che su una questione che la gente ha vissuto in maniera molto forte, come la vicenda FIAT, avesse preso una posizione esplicita, il quadro poteva essere diverso. Serviva una forza che avesse dato continuità ad una ipotesi di contrasto all’austerity e a Monti. Una proposta politica di questo tipo, secondo me, molti dei lavoratori che sono nostri militanti l’avrebbero accompagnata. Questa proposta è mancata, e quando è apparsa, è sembrata estemporanea e in alcuni casi con caratteristiche strumentali.

Nel rapporto, invece, con i Movimenti, io penso, tra gli operai c’è stata una grossa simpatia ed una vicinanza con i Movimenti degli studenti. Lì c’è stata l’idea di una generazione che pone la domanda: “A noi che futuro rimane in mano? Che spazio sociale si apre?” C’è stata quasi una condivisione non mediata, immediata, proprio empatica, mentre il Movimento contro la globalizzazione si è sviluppato sia sul piano tematico, sia temporalmente, in una maniera che – secondo me – un grande intreccio con le fabbriche non lo ha avuto.

Adesso, invece, possiamo forse vedere un Movimento che pone sia la discussione sull’Europa, sia la discussione sui beni comuni intesi quale modello sociale e dunque anche produttivo (come riconvertire le aziende, e per quali alternative). Lì c’è un ragionamento che può interfacciare le due istanze. Rispetto al Movimento sull’acqua, o su temi di questo tipo, per l’esperienza che ho io a Reggio Emilia non è che ci sono stati particolari contatti, anche perché questo è un territorio dove grandi Movimenti non ci sono, come non ci sono, anche a livello di autorganizzazione, esperienze giovanili. Quindi non ho visto particolari dinamiche di intreccio, particolari interessamenti, se non nei rapporti con parti per le quali, per percorsi propri o politici o di specifiche esperienze, sono più vicine. Però non sono dimensioni di massa.

Questo è ciò che io ho visto in rapporto ai Movimenti.

 

RINALDINI – Nella tua esperienza, avviatasi politicamente all’interno dei Movimenti della fine anni Novanta, fino a Genova, e poi il tuo passaggio ad un percorso sindacale FIOM, vissuto totalmente, che cosa ti sentiresti di dire su queste due fasi? Mi interessano le riflessioni che hai fatto o pensi di fare su queste due fasi. Sono pochi quelli che hanno avuto questo tipo di percorso. Sono pochi quelli che vengono da quella esperienza, e che sono poi passati ad un’altra esperienza di grande attenzione, impegno e rapporto con il problema dei lavoratori e delle lavoratrici.

Perché sono così pochi, che cosa ne pensi?

BONDI – Le continuità tra le due esperienze non sono tantissime. C’è una doppia idea di fondo, che per la mia esperienza personale ho verificato in entrambe le fasi del mio impegno.

 

RINALDINI – La domanda è anche se c’è continuità o in realtà non c’è, c’è uno stacco, una rottura.

BONDI – Ci sono entrambi, forse è più marcato lo stacco e lo strappo che non l’elemento di continuità. Io di continuità ho valutato due cose: la prima è che, seppure in maniera diversa, entrambe le due esperienze sono esperienze di autorganizzazione, anche se con forme differenti. Quella del Sindacato è inevitabilmente più strutturata, più istituzionalizzata con dei meccanismi di funzionamento diversi. L’altra era più improvvisata in un rapporto legalità/illegalità, con però un forte elemento di autorganizzazione.

L’altro elemento di continuità è che quando noi facciamo i primi ragionamenti, prima di Genova, sulla questione della globalizzazione c’è una riflessione che ritrovi anche nel dopo: “Le persone dentro questi processi che spazi di controllo e di autodeterminazione hanno?”. In quella fase si ragionava dei processi in cui c’erano il WTO, la Banca Mondiale, il G8 come organismi, appunto, sovradeterminati rispetto all’esperienza concreta, alla democrazia, al potere di controllo delle persone. Anche nella vicenda sindacale tu vedi questo schema di globalizzazione economica e questo tipo di relazioni sociali. Quale è lo spazio in cui le persone possono intervenire, controllare ed avere un ruolo decisionale sulla propria condizione?

Questi sono gli elementi di continuità che io vedo, il resto è totalmente in discontinuità. Tieni presente che poi l’esperienza mia e di alcune altre persone che erano con me dentro i Movimenti non è stata una esperienza pienamente dentro l’elaborazione del Movimento. Stavamo dentro quella elaborazione, ma soprattutto dentro le pratiche che quel Movimento metteva in campo con una visione un po’ particolare perché io ed alcune altre persone che mi erano vicine abbiamo sempre avuto un’attenzione particolare ai risvolti sociali ed anche al tema delle relazioni sociali ed ai rapporti capitale/lavoro, cosa che il Movimento per tutta una fase non ha considerato più di tanto.

L’elemento di riscoperta di questo versante sul tema della precarietà, del reddito, e altri analoghi temi, viene in una seconda fase. In una prima fase non è questo. Il Movimento inizia sulla questione dei migranti e sul rapporto tra istituzioni internazionali e controllo democratico, dunque più su un tema politico e di cultura civile che non su un tema di relazioni sociali.

Per il resto gli elementi sono di discontinuità, nel senso che quando sei nel Sindacato, soprattutto nei metalmeccanici (io ho fatto un’esperienza prima al NIdiL, ma era un’altra storia, lì era un tipo di Sindacato di natura prettamente assistenziale e prettamente individuale) fare la contrattazione collettiva e dunque avere il rapporto con le fabbriche, con l’insieme dei lavoratori di quelle fabbriche, avere un rapporto con il consenso è tutta un’altra storia. Tu quel problema nel Movimento non ce l’avevi, non te lo ponevi.

 

RINALDINI – Questo, però, ti ha posto un problema. Ho fatto anch’io una brevissima esperienza intorno al NIdiL. Tu hai definito, giustamente, questa esperienza come soprattutto di carattere assistenziale. Nel momento in cui sei passato ad una esperienza ben diversa, come quella della FIOM, dove a differenza di altre esperienze sindacali, il punto chiave è misurarsi con la contrattazione collettiva, come hai visto il rapporto tra ciò che tu riuscivi a ricomprendere con quella attività e ciò che, invece, avevi come relazione nella fase precedente (NIdiL) con quel tipo di lavoratori? Come vivi le risorse ed i limiti dello strumento contrattazione collettiva, nel momento in cui nel chiudere il sacco gli altri restano fuori?

Nel vissuto della tua esperienza come hai registrato (risolto è una parola esagerata) il problema tra ciò su cui tu sei in grado di intervenire con la lotta e la contrattazione collettiva (e quindi non in termini di assistenza), e ciò che resta fuori perché ciò su cui intervieni li lascia fuori e tu non sei in grado di ricomprenderli?

Ovviamente e un tema che va al di là della FIOM.

BONDI – Non ho capito bene la questione.

 

RINALDINI – Ci sono tanti lavori che oggi non hanno né rappresentanza, né possibilità di fatto di utilizzare lo strumento della contrattazione collettiva.

Nella brevissima esperienza che pure io ho fatto intorno al NIdiL, ho constatato che non è semplice risolvere questo problema. Dove tu hai rappresentanze e contrattazioni collettive riesci ad avere una forza oppositiva che la FIOM è riuscita a mantenere, bene o male, in tutti questi anni ed a mantenere ancora oggi. Però nello stesso tempo alla FIOM si presenta questo problema, che per molti versi va al di là di quello che la FIOM può fare. Però può fare di più la FIOM? E se no, perchè? Si situa qui una grande massa di giovani ed anche non giovani che di fronte al problema del loro lavoro, si trova estromessa dalla possibilità di tentare di intervenire sulla propria condizione, e sono spinti a non sentirsi più rappresentati da nessuno. Manca qualsiasi elemento intermedio che li faccia sentire e li renda protagonisti, se non per qualche manifestazione al sabato. La mia non vuole essere una domanda per una risposta formale di finta soluzione. Voglio semplicemente mettere a fuoco il tema e chiederti fino a che punto questo problema è sentito dalla FIOM come un problema che riguarda anche il suo futuro, la sua possibilità di non trovarsi isolata.

Può essere la CGIL l’ambito in cui chiudere la risposta o bisogna ricercare, guardare ed interloquire con forme che si creano anche fuori, nella società e che possano essere interlocutrici nel tentare di uscire da una situazione di pesanti differenze di visioni tra queste parti del mondo del lavoro?

BONDI – Cerco di risponderti partendo da una considerazione più generale sulle caratteristiche del lavoro nella FIOM di continua ricerca del consenso nel rapporto con i lavoratori.

Consenso non vuole dire solo ottenere il mandato a procedere, ma avere un rapporto continuo con l’Assemblea, i lavoratori e con i delegati, su cui costruire rapporto e negoziato con le aziende. Questa costruzione del consenso – quando ci riesci – ha un potere creativo che non ti aspetti, nel senso che riesci a generare soluzioni e riesci ad aprire dei varchi che prima di questi passaggi semplicemente non esistevano.

Se devi fare un’analisi della contrattazione in relazione alle figure nuove per essere molto onesti, anche in un territorio come questo che – secondo me – tra i metalmeccanici continua a rappresentare un punto di tenuta abbastanza buono, quello che io ho visto negli ultimi anni è un rapidissimo deterioramento della capacità di tenere assieme tutto quello che si muove dentro lo stabilimento. Spesso riesci a contrattare rispetto ad una parte, la parte centrale più forte, cioè i lavoratori stabili ed i lavoratori di quell’azienda. Ma lo fai sempre più faticosamente. Fai una contrattazione che è quasi esclusivamente di natura economica, sul prezzo della prestazione, pochissimo sul versante della organizzazione del lavoro e della salute, e intendo con questo le ricadute che l’organizzazione del lavoro genera sulle persone.

 

RINALDINI – Questo è relativo anche ad uno scarso interesse e pressione da parte dei lavoratori sugli altri terreni che vengono ritenuti difficili da percorrere?

BONDI – Non credo che ci sia una scarsa pressione e interesse. C’è piuttosto una nostra grande difficoltà a riprendere in mano e a leggere il processo, ad avere esperienza degli strumenti con cui poter fare quel tipo di discussione. C’è inoltre però un evidente indebolimento del tuo potere contrattuale che non ti consente in molti casi di fare operazioni contrattuali forti su questi terreni.

Per farti un esempio, nel settore dell’elettrodomestico e nelle fabbriche del barattolo abbiamo iniziato un’esperienza per tentativi in cui siamo andati ad analizzare postazioni, carichi, posture, perché ci siamo accorti che quelle fabbriche son piene di lavoratori scassati, sia donne che uomini. Soprattutto dove c’è mano d’opera femminile tu hai malattie professionali in aumento enorme, ma sono cambiati i meccanismi di organizzazione del lavoro, sono cambiati i sistemi di valutazione del rischio. Devi da un lato riappropriarti di strumenti che non sono semplicissimi e che non fanno parte del bagaglio abituale dei sindacalisti di questa epoca e, dall’altro, per poter negoziare oltre la natura economica degli accordi, per intervenire su come è organizzata la fabbrica, sui tempi, su come si sta in fabbrica. Serve anche probabilmente un potere che tu in questa fase fai molta fatica ad esprimere.

Questa è la contrattazione che tu svolgi.

All’interno degli stabilimenti adesso hai figure nuove, i precari. In questo territorio hai fatto un’operazione di rigore e consolidamento contrattuale nel 2003 con i pre-contratti, che ti è stata non vorrei esagerare nel dire smantellata, ma senz’altro pesantemente messa in discussione negli ultimi 10 anni.

Se devo fare una valutazione, devo dire che su questo piano rispetto al 2003 siamo arretrati, perché le imprese fondamentalmente su questo terreno sono diventate più aggressive. Adesso le imprese funzionano con un 20-25% di mano d’opera che è a termine, e quindi gestibile su picchi e flessi che loro hanno ed hai una fascia di lavoratori tutti dentro il sistema degli appalti, presenti dentro le aziende, dove spesso semplicemente non ci metti il becco.

I casi sono diversificati: molto lo fa il sindacalista che interviene in quella azienda, per quanto la conosce e per quanto è disponibile a non fare finta di niente, a far finta di non sapere che lì esiste un problema. C’è anche una spinta all’autosufficienza che è naturale e comprensibile, dove per i lavoratori alla fine – visto che il tuo potere contrattuale, il tuo raggio di azione si è ristretto – ogni tanto la spinta prevalente è: troviamo una soluzione per chi c’è, gli altri sono una parte esterna, sono lavoratori di un’altra azienda. Alla fine la chiudi in bottega.

Esistono esperienze, soprattutto nell’ultima fase, dove abbiamo posto questo problema e siamo anche riusciti a fare dei piccoli passi in avanti. Sono complicati per come è costruita la legislazione. Con questi lavoratori non puoi intervenire nei luoghi dove loro lavorano; gli stessi lavoratori non possono circolare da un settore all’altro, non si parlano tra di loro, hanno condizioni e contratti differenti, non fanno le assemblee assieme.

Una delle prime rivendicazioni che c’è venuta in mente è quella del diritto di Assemblea congiunta, perché se le persone riesci a farle parlare assieme, è anche più facile riuscire a costruire un qualche elemento, adesso non so se di solidarietà, ma almeno di socializzazione di quelli che sono i problemi. Invece se tu procedi su binari distinti, come formalmente la legge prevede, è chiaro che rimangono scatole non comunicanti tra di loro e tutto diventa più complicato.

Quello che vedo è che comunque si sta restringendo sia l’incisività della contrattazione che fai, sia lo spettro dei lavoratori che copri.

Se devi fare un’analisi onesta, il processo che vedo è questo, anche in un territorio come il mio di estesa presenza industriale metalmeccanica e di forte insediamento sindacale (in particolare) FIOM.

Poi tu chiedi: la FIOM è autosufficiente da questo punto di vista? Non credo, diciamo che la FIOM ha il pregio di non mettere mai questo tipo di contraddizioni sotto lo zerbino. A volte la proposta politica non è sostenuta da una ipotesi vertenziale di movimento concreta, ma almeno nella mia esperienza in FIOM in questi 10 anni questo tipo di contraddizione non è mai stata messa sotto lo zerbino e nascosta. La Fiom è autosufficiente? Sicuramente no; da un lato credo che senza interventi legislativi che provino a ricomporre un quadro diverso, pensare che solo per via negoziale tu riesca a ribaltare lo stato delle cose è complicato; dall’altro – ovviamente – devi costruire un intreccio di tanti livelli. Per esempio, citavi la CGIL. Nella Camera del Lavoro di Reggio Emilia qualche ragionamento di questa natura si inizia a fare. Devi mettere assieme titolarità ed esperienze diverse per poter intervenire sulla filiera. Di esperienze pratiche ce ne sono poche, però un qualche ragionamento sta partendo.

Se penso alla discussione della CGIL nazionale nel suo complesso, vedo, invece, una enorme distanza tra questo tipo di dinamica reale e la discussione che c’è ed anche la proposta politica che c’è.

Io credo che la FIOM ed il Sindacato tutto debba iniziare a ragionare, in primo luogo di una trasformazione sua che non riesco a delinearti, ma che credo debba essere piuttosto radicale. Un disegno di riforma, proprio del suo funzionamento interno, e in secondo luogo occorre pensare anche ad altre esperienze che sono fuori dal Sindacato, perché temo che l’andamento preso negli ultimi anni tenda a generare distanza rispetto a questi riferimenti più che vicinanza.

 

RINALDINI Quindi anche logiche esterne di auto-organizzazione con cui relazionarsi potrebbero forse favorire l’uscita da una situazione come quella che hai descritto? Probabilmente però questo è possibile a condizione che abbiano capacità anche di uno sguardo sindacale ai loro problemi, e non solo di utilizzo per episodiche agitazioni di pur giusta denuncia dell’immigrazione e del precariato.

BONDI – Spesso con realtà di movimento più o meno sensate il problema che abbiamo avuto è infatti questo: cioè non si riesce ad andare oltre un elemento di agitazione, di declamazione, di manifestazione, dal corteo allo scontro, al casino, all’occupazione, ma che muore lì. Sappiamo invece che per generare degli effetti devi mantenere una continuità, devi costruire delle relazioni, devi avere una capacità di andare avanti ed indietro a seconda dei casi.

 

RINALDINI – Poi c’è il problema delle forme democratiche con cui rappresentarsi ed operare.

BONDI – Infatti arriviamo lì, ma stavo intanto dicendo anche un’altra cosa, cioè nel momento in cui tu fai una operazione devi anche stare attento alle conseguenze che puoi generare.

Io ho visto anche esperienze raccontate in giro di auto-organizzazione che sono arrivate ad aprire la pentola di vicende, per poi concludersi con una strage: tutti licenziati, tutti mandati a casa ed erano lavoratori immigrati.

 

RINALDINI – A volte, però, le sconfitte, nella storia del Sindacato, sono presupposto per cui si costruiscono fasi di superamento dei silenzi e delle inerzie precedenti.

BONDI – Può essere. Dico che occorre gestire con attenzione. Il tema che può e deve tenere assieme è, se anche per questi soggetti, si acquisisce il vincolo, per cui vi sia un rapporto diretto e democratico con le persone, e che alle persone sia consegnato il potere di controllo su quello che tu fai.

Questo è un tema non semplice, né per il Sindacato, né per i Movimenti. Quando vai a fondo delle questioni spesso ci sono elementi di diffidenza (ora secondo me in calo) difficilmente comprensibili in questa fase.

Devo dire che se da questo punto di vista ragiono della FIOM in rapporto con i Movimenti (per la CGIL andrebbe fatto un altro tipo di riflessione), vedo più diffidenza sul versante dei Movimenti che non sul versante della FIOM. Nei momenti in cui abbiamo provato a discutere assieme ho visto una FIOM più disponibile a mettersi in gioco, più disponibile ad aprire gli spazi, mentre da altre parti ho visto comunque giocare la partita con una mano dietro la schiena (che non è il massimo della simpatia).

 

RINALDINI – Nella tradizione della storia della FIOM, ha sempre avuto una grande rilevanza nelle fasi di crescita più importanti il rapporto, una volta si diceva, con gli intellettuali (termine che oggi è un po’ indeterminato e forse anche in questo sta un problema da approfondire) sul versante della ricerca, dell’analisi teorica, della formazione.

Oggi questo rapporto è molto carente, o meglio si esprime più sul piano di convergenze politiche su specifiche campagne, ma non per quanto riguarda il piano del lavoro vero e proprio, per esempio, nell’analisi del lavoro, della sua condizione nella fabbrica e fuori e nelle nuove e vecchie forme organizzative. Non basta risolvere il problema con un dover essere, per capirci. Si tratta di una relazione tra gli operai e le competenze che possono servire per la ricostruzione di una capacità maggiore di intervento.

E’ vero per altro che nella cultura generale attuale, a destra ed a sinistra, si è fatta molta strada una cultura opposta rispetto a quella che in importanti fasi del passato si incrociava nel rapporto tra lavoratori, competenze, intellettuali.

Oggi, per esempio, di fronte all’affermazione: “bisogna che ci sia meritocrazia” tutti alzano le mani dicendo: ”Si, per l’amor di Dio”. Invece in passate esperienze, la critica al criterio della meritocrazia era un elemento chiave della cultura di Sinistra.

Un altro esempio è la non oggettività e neutralità dell’organizzazione del lavoro, del modo come si lavora. Fu uno dei punti fondamentali dell’incrocio tra Sindacato, competenze, esperienze intellettuali.

Oggi molto spesso l’impressione è che vi sia attenzione sui diritti civili degli uomini e donne, e questo è un fatto straordinariamente positivo. Quando si va nel sociale la base e i sistemi con cui è usato il lavoro e vengono utilizzati uomini e donne viene assunta quasi come oggettiva, scientifica.

Se questo è vero come dato culturale generale, si può dire che anche nella cultura degli operai c’è una sorta di rassegnazione alla ineluttabilità della propria condizione?

BONDI – Ti parlo di una esperienza soggettiva: spesso nell’ultima fase, anche quando fai i contratti e fai gli accordi, ti sembra sempre di svuotare il mare con un secchiello, perché i processi sono così veementi rispetto ad una tua capacità di iniziativa che ti porti dietro un po’ questa sensazione. E’ però vero che sul lavoro mancano non solo competenze critiche, ma nel contempo non c’è il discorso pubblico – io credo – a nessun livello.

 

RINALDINI – C’è l’idea che si possa cambiare il lavoro oggi nella testa degli operai che tu conosci?

BONDI – E’ qualcosa di molto distante dalle cose che discuto in concreto tutti i giorni; è un piano di rivendicazione, di iniziativa che diventa quasi inimmaginabile.

Una delle discussioni più radicali che riesci a fare è quella di andare a controllare i tempi di esecuzione, dove ci sono le catene di montaggio come nell’elettrodomestico (ma non solo), dove ci sono le macchina abbinate o altre situazioni analoghe; metti mano ai tempi, cioè quanto sei saturato, quante sono le pause. Qui stai già in una discussione radicale.

Pensare che tu esci da quel modello e ne immagini un altro è una discussione che non ho mai sentito e che non mi è stato neanche mai possibile provare ad approfondire concretamente.

 

RINALDINI – Ti ho posto questo problema (forse in parte hai già risposto) in anticipazione di una domanda che ti faccio a partire da una mia riflessione e ricostruzione delle vicende operaie anche sulla base del mio percorso generazionale di esperienza che sul piano sindacale è collocato essenzialmente nei metalmeccanici negli anni ’70. Mi pare interessante un tuo parere, cioè di un giovane dirigente della FIOM che ha attraversato in trincea il decennio trascorso e che avvia il suo impegno dall’interno del movimento no global della fine degli anni ’90 nel mondo universitario di Bologna e che culmina nelle giornate di Genova del 2001.

I cambiamenti che si determinano nelle diverse fasi tra gli operai sono a mio parere segnalati in modo molto significativo da come l’operaio guarda o gli è possibile guardare il proprio lavoro ed i problemi di trasformazione della sua condizione (di forza–lavoro, di merce).

Per un lungo periodo di tempo la risposta è stata ricercata intanto sul piano redistributivo della ricchezza prodotta e sul piano delle difese più elementari affidando alla politica dall’esterno la costruzione di un altrove alternativo, sia che fosse per via riformista che radicalmente rivoluzionaria.

Vi è stata poi una fase tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 in cui (non certo ovunque, ma comunque in modo da segnare quella fase) l’operaio pensa di poter cambiare insieme agli altri il proprio lavoro e apre da subito un problema di confronto e contrasto che va al di là del salario e delle protezioni sociali esterne da chiedere in cambio; investe insieme problemi di condizioni di lavoro e di potere interno al lavoro stesso.

Dopo la sconfitta, dagli anni ’80 in poi mentre l’equilibrio della prima fase si presenta sempre meno possibile e ormai privo di credibilità, si afferma l’idea che il proprio lavoro non si può cambiare (trasformare cioè con il segno della propria soggettività e affermazione di un proprio potere), e quindi non resta che difendersi al meglio nello scambio e, appena si può, cambiare lavoro, ricercando ognuno per proprio conto un’alternativa migliore più corrispondente alle proprie esigenze.

Da cambiare il lavoro a cambiare lavoro, per dirla un po’ schematicamente, ma però significativamente nel sintetizzare il cambio di fase.

Almeno a me, questo passaggio è parso chiaro nel dare conto della profondità della sconfitta.

Ora siamo ancora in questa fase?

BONDI – Nell’esperienza che vivo io nella migliore delle ipotesi sei dentro lo schema che dice: “Mi faccio retribuire e risolvo una serie di problemi e poi se riesco cambio lavoro”. C’è poi in modo crescente tutta una parte che non riesce più a credere di poter fare questo. Spesso non riesci neanche a difenderti sul piano retributivo e sul piano dei più elementari della tua condizione.

 

RINALDINI – Mi pare però che ora si sia molto incrinata anche l’idea che si possa cambiare lavoro, passare ad un altro lavoro.

BONDI – Infatti, arrivo anche lì. Se capisco quella che è stata la vostra esperienza, in termini di esperienza diretta, proprio mi spaventa affrontare il ragionamento. La discussione che conosco io non ha mai nemmeno aspirato a quel livello. Non riesco oggi a pensare che collettivamente si possa davvero trasformare il lavoro. Tieni conto che nella fase attuale non esiste l’altrove. Senza l’altrove anche gli strumenti storici perdono di significato, perché – ti faccio un esempio – il contratto nazionale (di per sé svuotato da una serie di altri elementi) è uno strumento con cui disegni un tipo di società, è una possibilità di società. E’ uno strumento che oggi rischia di perdere di significato per le persone. Sei in una fase di terrore sociale, nel senso che con quello che sta venendo avanti, la gente ha anche una paura fottuta di muoversi, scioperare, entrare in conflitto perché vede dei processi cattivissimi alla porta. Certo rimane vero un problema: il problema dell’autonomia soggettiva. Questo è un problema che non è stato affatto risolto dalle trasformazioni, anzi. C’è stata una modifica degli assetti di potere, c’è chi comanda di più e chi obbedisce di più. Il problema dell’autonomia soggettiva nei luoghi di lavoro è un problema che resta ancora, magari con forme diversamente visibili. Dunque quella contraddizione non è pacificata ed è l’elemento che ti dà la possibilità di provare, di provare a costruire un nuovo inizio.

 

RINALDINI – In una tua riflessione, non molto tempo fa, hai fatto una osservazione interessante su un importane aspetto di cambiamento dal passato. Questo è un territorio di alta industrializzazione, non ha subito un processo, almeno fino ad ora, come quello di Torino, dove effettivamente è arrivato uno tsunami politico e sociale. Qui – bene o male – c’è un livello di industrializzazione che rimane molto alto, anzi uno dei maggiori della storia di questo territorio.

Sono state fatte molte lotte, anche molto dure, i protagonisti sono i lavoratori, i giovani lavoratori. Queste esperienze poi non si sedimentano, è come se scomparissero, come se fossero inghiottite. Poi magari si ripetono, riemergono e riscompaiono, e così ancora. E’ ancora valida questa tua osservazione di qualche anno fa o c’è qualche modifica ?

BONDI – E’ ancora vero, nel senso che i casi di vertenze aziendali o di momenti di lotta generale, anche molto rilevanti e che talora hanno avuto anche una eco più larga del versante aziendale, producono una consapevolezza durante il loro svolgimento e nella fase immediatamente seguente. Poi, magari un anno e mezzo dopo, devi ricostruire tutto daccapo,perché la memoria ed il senso di quella operazione non si registra, non si sedimenta, si interrompe.

 

Questo testo uscirà a stampa in ALTERNATIVE PER IL SOCIALISMO maggio-giugno 2013

Prime correzioni di Luciano Berselli, Mariapia Cominci e Gianfranca Romani

 


Category: Lavoro e Sindacato

About Tiziano Rinaldini: Tiziano Rinaldini è nato nel 1947 a Reggio Emilia. Ha partecipato alla Fgci e alla Sezione comunista universitaria di Bologna negli anni '60. È entrato nella Fiom a partire dal 1970, prima a Reggio Emilia e poi a Varese. Dal 1976 al 1981 è stato responsabile del settore auto della Fiom nazionale. Dal 1982 ha partecipato al Cres e all'Ires ER. Dal 1986 al 1989 ha fatto parte della Cgil ER nel settore trasporti e dal 1989 al 1995 ha fatto parte della segreteria della Cgil regionale ER. Dal 1995 al 2000 ha fatto parte della segreteria nazionale dei chimici. Attualmente fa parte dell'apparato Cgil ER. Ha scritto numerosi saggi e interventi per «Il Manifesto», «Alternative per il socialismo» e «Inchiesta».

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