Lucio Baccaro: E’ possibile fermare il declino del sindacato?

| 5 Aprile 2013 | Comments (0)

 

 

 

3. Pubblichiamo integralmente gli atti del seminario C’è un futuro per il sindacato? Quale futuro? organizzato dalla Fondazione Claudio Sabattini e tenuto a Roma il 5 aprile 2013. La numerazione degli interventi corrisponde all’ordine in cui sono stati fatti.

 

Io ho la seguente traccia: “E’ possibile fermare il declino del Sindacato?, dal momento che sono soprattutto un sociologo quantitativo, farò due cose: nella prima parte presenterò una serie di dati, alcuni conosciuti, altri meno conosciuti sullo stato delle cose; nella seconda parre, se c’è tempo, le mie considerazioni su come è possibile fermare il declino del Sindacato.

Le tendenze generali penso siano ben conosciute: c’è un declino generalizzato dei tassi di sindacalizzazione e ormai non è più possibile parlare di eccezioni, una volta si parlava delle eccezioni scandinave, dei modelli Gantt, etc., a partire dagli anni ’90 i modelli Gantt sono i Paesi scandinavi, meno la Norvegia , più il Belgio, ma non ci sono più eccezioni, il declino generalizzato, c’è una tendenza al decentramento contrattuale più limitata, come vedremo, anche perché gli indicatori che abbiamo non sono particolarmente sofisticati, e c’è una riduzione molto più contenuta dei tassi di copertura della contrattazione collettiva, questo soprattutto nei Paesi dell’Europa continentale, grazie ai meccanismi di estensione automatica.

Per quello che riguarda l’Italia io sento spesso i colleghi che lavorano in Italia dire: “Tutto sommato, se guardiamo alla situazione degli altri Paesi, quella italiana è meno grave di quelle di altri”. Una delle domande che voglio porre qui è se è veramente così, perché in Italia c’è un problema grosso, c’è una carenza di dati, cioè i dati per affrontare queste cose non ci sono e, come vedremo, quelli che esistono sono di affidabilità limitata.

Questo è difficile da leggere, ma questi sono i dati raccolti da Jelle Visser, che è un professore di Amsterdam che da anni raccoglie dati sui dati di sindacalizzazione: in rosso c’è l’Italia, la colonna di destra è il cambiamento, tutti i dati sono negativi, sono 25 Paesi, ma non c’è neppure un caso in cui tra il ’90 ed il 2008 non ci sia stato un declino della sindacalizzazione; se guardiamo al caso italiano, vediamo che è verso il basso, cioè è uno dei Paesi – sulla base dei dati raccolti da Visser, in cui la sindacalizzazione è diminuita di meno.

Come sono stati raccolti questi dati? Questi dati sono di fonte amministrativa, sono gli iscritti fra gli attivi di CGIL, CISL e UIL, quindi comunicati da loro senza considerare gli iscritti alle altre Confederazioni, divisi per un denominatore di lavoratori attivi che dovrebbero dare una stima al ribasso della sindacalizzazione italiana.

Una volta ho provato ad aggiungere gli iscritti alle altre Confederazioni e veniva fuori un tasso di sindacalizzazione del 65%, quindi, sulla base di questi dati, sembra che l’Italia non stia messa particolarmente male.

Questi sono i dati sulla centralizzazione contrattuale, da 1 a 5, dove 5 è il massimo di centralizzazione; contrattazione nazionale e interconfederale: 1 è il livello prevalente di contrattazione collettiva a livello aziendale, l’Italia ha 3 e non c’è stato cambiamento, 3 significa che il livello prevalente di contrattazione collettiva è quello di categoria, con un intervento del livello aziendale. Ci sono tanti segni negativi, ma ci sono anche tanti segni zero, cioè assenza di cambiamento e c’è persino un’eccezione che è la Slovenia, che è diventata dopo la caduta del muro di Berlino un Paese corporativista, in cui la centralizzazione contrattuale misurata in questa maniera, come dicevo non particolarmente sensibile, è addirittura aumentata.

La copertura contrattuale: qui abbiamo non solo un numero inferiore di dati negativi, ma anche addirittura dei dati positivi, cioè alcuni Paesi in cui la copertura contrattuale sembra essere aumentata fra il ’90 ed il 2008. L’Italia, secondo questi dati, è passata dall’82,4% all’80%, una diminuzione infima.

Ricapitolando, quindi, sulla base di questi dati che sono ben noti: c’è stato declino della sindacalizzazione in Italia? Meno che altrove. Non c’è stato un grande cambiamento nel livello principale di contrattazione collettiva, la copertura contrattuale ha tenuto, quindi dovremmo essere ottimisti.

Adesso vi mostro, però, perché non sono sicuro che questi dati siano del tutto affidabili, che cosa dicono i dati micro, cioè i dati a livello individuale e qui il discorso si fa un po’ più difficile perché, mentre altri Paesi hanno questi dati a disposizione, l’Italia non li ha. La prima fonte che ho utilizzato per questa presentazione è lo European Social Survey, questa è un’inchiesta che si fa in tutti i Paesi europei ogni due anni. La prima inchiesta è stata fatta nel 2002, recentemente se n’è fatta un’altra nel 2012, l’Italia ha smesso di partecipare nel 2004, non so perché. Che cosa mostrano questi dati? Questi sono dati individuali in cui c’è una domanda: “Lei fa parte o ha mai fatto parte di un Sindacato o di un’associazione di categoria?”, la risposta: “Sì, attualmente”. Questi dati, dunque, misurano la percentuale di quelli che dicono: “Sì, io faccio parte di un Sindacato o di un’associazione di categoria” rispetto ai lavoratori dipendenti”.

La prima cosa da notare è che il tasso di sindacalizzazione globale, tutti i Sindacati compresi, è molto più basso di quello che ho annunciato prima, è il 27,8% rispetto ad un 34%, poi questi dati permettono di guardare un po’ in dettaglio a differenti gruppi, allora io ho messo: la dimensione di impresa, il reddito, l’età ed il settore industriale. Li commento brevemente: sulla dimensione di impresa viene fuori che nelle aziende con meno di 10 dipendenti il tasso di sindacalizzazione è il 9,3%, mentre è molto più elevato nelle aziende con 500 e più dipendenti.

La seconda classificazione, quella che mi ha colpito di più, è questa: per reddito il Sindacato italiano è sostanzialmente un Sindacato della classe media, in senso tecnico, è collocato tra il 25° ed il 75°, non è un Sindacato degli esclusi, quelli che sono al fondo della distribuzione del reddito, il primo quartile, hanno un tasso di sindacalizzazione del 17,4%, addirittura quelli che sono nell’ultimo quartile, dal 75% in poi, hanno un tasso di sindacalizzazione del 28,3%.

I tassi per età, e vi ricordo che questi sono i lavoratori dipendenti, fra i 15 ed i 24 anni sono del 3% sulla base di questi dati; per i lavoratori di 50 anni e più è del 33,3%; per quello che riguarda i settori, il settore delle manifatture e quello del commercio hanno un tasso di sindacalizzazione sensibilmente più basso del tasso di sindacalizzazione generale che è, ripeto, più basso di quello che i dati che conosciamo annunciano.

Cosa suggeriscono questi dati? La sindacalizzazione italiana potrebbe essere sovrastimata, l’altra possibilità è che alcuni lavoratori non ricordano o non sanno di essere iscritti al Sindacato ed è per questo che non rispondono “sì” a questa domanda, il Sindacato è praticamente assente tra i lavoratori dipendenti più giovani, ha difficoltà ad organizzare le micro imprese, è un Sindacato della classe media e non è un Sindacato degli ultimi, poi la sindacalizzazione dell’industria manifatturiera è più basse della media nazionale.

Ho fatto quello che si chiama “test di robustezza”. Qualche anno fa con l’IRES abbiamo fatto una ricerca anche questa volta basata su un questionario, l’avevamo fatta fare all’SVG che, come sapete, è uno dei principali Istituti di sondaggi politici in Italia, su un campione importante di 1.525 lavoratori dipendenti e pensionati e veniva fuori già allora, i dati sono del 2008, che il tasso di sindacalizzazione tra gli attivi è del 29%, cioè non molto differente da quello che vi abbiamo mostrato sulla base dei dati dell’European Social Survey, più basso di quello che conosciamo.

Il problema della sindacalizzazione per età non è un problema italiano, questo è un grafico in cui ho proiettato tutti i Paesi per i quali ho dei dati. Se si è in questo quadrante, significa che il tasso di sindacalizzazione dei cinquantenni è più grande della media nazionale; se si è in questo quadrante, significa che il peso dei cinquantenni all’interno del Sindacato è maggiore del peso della categoria dei cinquantenni nella popolazione. Tutti i Sindacati sono in questo quadrante, cioè tutti i Sindacati sovrarappresentano i cinquantenni, l’Italia non è messa peggio di altri, infatti ci sono questi Paesi come l’Olanda, il Regno Unito, la Spagna e l’Irlanda che sono in una situazione peggiore. Se guardiamo il 2010, l’Italia non c’è più perché, come vi ho detto, non partecipa più, ma la situazione sembra rimanere invariata o peggiorare nel tempo.

Obiezione: l’iscrizione al Sindacato non è l’unica forma possibile di esercizio della rappresentanza, come sappiamo, soprattutto nei Paesi dell’Europa continentale ci sono: the Tribes(?) rate, i Comité du personnel, l’equivalente in Spagna, etc., forme elettive, il cosiddetto secondo canale, e anche in Italia il Sindacato non rappresenta soltanto gli iscritti, anche quando dice di voler rappresentare soltanto gli iscritti.

Vediamo qual è la situazione in senso più vasto, accesso alla rappresentanza senza necessariamente essere iscritti al Sindacato. Qui utilizzerò, ancora una volta, delle fonti straniere perché in Italia non ci sono, perlomeno io non le ho trovate, c’è l’European working conditions survey del 2010 che ha una domanda, solo per il 2010: “C’è sul tuo posto di lavoro un addetto che ha la funzione di rappresentante dei lavoratori?”, un addetto potrebbe essere il membro del Tribes rate(?), il rappresentante sindacale.

Vi risparmio gli aspetti tecnici ma, sulla base di questa risposta, ho stimato i tassi di sindacalizzazione per delle figure tipiche. Quali sono? L’ho fatto per due: uomo con contratto a tempo indeterminato, tempo pieno (quindi non parziale), dimensione del nucleo familiare medio, anzianità media, ISCO 8, cioè questo è un operatore di macchina, un assemblatore, settore industria. L’altra categoria di riferimento: uomo con contratto a tempo indeterminato, tempo pieno, dimensione nucleo familiare, anzianità media, ISCO 4. Questo è l’impiegato di ufficio della Pubblica Amministrazione.

Queste sono le stime: questo è il conduttore di impianti dell’industria e questo è l’impiegato di ufficio della Pubblica Amministrazione. Ci sono tutti i Paesi per i quali ho dei dati: la probabilità stimata che questa persona in Italia abbia accesso alla rappresentanza è del 57% ed è più bassa di tutti gli altri Paesi, tranne la Grecia, ed è anche più bassa di Paesi che sono tradizionalmente considerati a sindacalismo meno forte dell’Italia, come per esempio la Francia o la Spagna: la Spagna al 73%, la Francia al 77%. Per il pubblico impiego la situazione è identica, tranne che anche la Grecia ci sorpassa.

Per quella che ho presentato all’inizio come visione ottimistica della situazione italiana c’è una crisi, ma non è la crisi maggiore che altrove e questa conclusione non è affatto confermata dai dati, ci sono forti difficoltà di sindacalizzazione, soprattutto per alcuni gruppi ed anche l’accesso a forme alternative di rappresentanza sembra quantitativamente più limitato che altrove.

Vi dico, brevemente, che all’interno dell’European working conditions survey c’è una domanda: “Complessivamente quanto sei soddisfatto del tuo lavoro?”, è interessante perché questa domanda viene fatta sistematicamente ogni anno, nel ’95, nel 2000, nel 2005 e nel 2010, quindi si può vedere come il livello di soddisfazione varia nel tempo. Anche in questo caso le stime sono per lavoratori tipici, si tengono costanti la distribuzione delle professioni, la composizione per settore industriale, il tipo di contratto, le ore lavorate, la dimensione del nucleo familiare e l’età. Ve lo voglio far vedere brevemente: innanzitutto il trend è decrescente, cioè i lavoratori europei sono sempre meno soddisfatti, in Italia il segno è negativo e vedete quelle stellette che significano “significatività statistica”. Il lavoratore italiano, tenendo costanti tutte queste categorie, è significativamente meno soddisfatto degli altri, in particolar modo la referenza qui è alla Germania.

Che cosa dicono, quindi, i dati sulla soddisfazione del lavoro? C’è un trend decrescente nel tempo, sempre minore soddisfazione; il livello di soddisfazione in Italia è significativamente al di sotto degli altri Paesi europei, non è chiaro perché, ma possiamo immaginarci che la difficoltà di accesso alla sindacalizzazione, soprattutto per le micro imprese, di cui abbiamo parlato precedentemente, potrebbe giocare un ruolo.

Ho pochi minuti, adesso, per le mie considerazioni. Perché la crisi del Sindacato è un problema?

Innanzitutto non tutti sono d’accordo che la crisi del Sindacato sia un problema, in Italia sembra esserci un consenso che va in senso opposto, non soltanto tra i partiti di Destra, ma anche tra i partiti cosiddetti di Sinistra o di Centrosinistra. Se, come molti sembrano pensare, il problema dell’Italia è un problema di competitività, un problema di eccessive imperfezioni del mercato del lavoro, allora per risolvere il problema forse una buona cosa è sbarazzarsi del Sindacato. Io non sono d’accordo perché il Sindacato ha esternalità positive, cioè che ha delle conseguenze sistemiche positive e vorrei sottolinearne tre: per la democrazia, per la solidarietà e per la stabilità macro economica.

In primis, gli iscritti al Sindacato partecipano più attivamente alla vita politica, questa non è una mia considerazione, ma sono dati ancora una volta della European Social Survey, che non vi sto a mostrare, ma che dicono chiaramente che tenendo costanti le altre caratteristiche un iscritto al Sindacato partecipa in vari modo più attivamente di un non iscritto. I Sindacati, per quanto – come abbiamo visto – siano soprattutto nella classe media, sono significativamente più favorevoli alla distribuzione del reddito.

In terzo luogo il Sindacato contribuisce, attraverso la contrattazione, a rendere possibile un modello di crescita bilanciata, un modello di crescita in cui il salario reale è eguale agli aumenti di produttività, quindi la crescita è soprattutto tirata dalla domanda interna. Questa eguaglianza fra salario reale e produttività non è una cosa che cala da cielo, ha bisogno di istituzioni perché si realizzi ed una delle istituzioni che storicamente assicurava questa eguaglianza, che è invarianza della quota dei salari nel reddito nazionale, è il Sindacato e la contrattazione collettiva.

Vi mostro qualche prova empirica. Qui abbiamo la sindacalizzazione, queste sono le varie azioni della quota di salari. Vedete che ci sono in molti gruppi di Paesi, soprattutto nei Paesi liberali, anglosassoni, nei Paesi continentali e in quelli mediterranei, per cui c’è l’Italia, una relazione positiva: più decresce il Sindacato, più decresce la quota di lavoro; se decresce la quota di lavoro e se la crescita è tirata dai consumi, come negli Stati Uniti, in Irlanda, in Spagna, nel Regno Unito, l’alternativa è o lavorare di più o ancora indebitarsi. L’indebitamento diventa più facile se c’è innovazione finanziaria che permette di acquisire del credito senza dei collaterali validi e, alla lunga, questo porta al fenomeno della balance sheet receptions, cioè ad un certo punto le bolle scoppiano, bisogna rientrare ed assorbire la leva dell’indebitamento.

La crisi del Sindacato, quindi, non in Italia dove il problema non è principalmente un problema di indebitamento privato, piuttosto di indebitamento pubblico, ma in molti altri Paesi fra cui gli Stati Uniti, può essere una delle cause della crisi internazionale.

E’ possibile invertire il corso di marcia. Innanzitutto cosa non bisogna fare dal mio punto di vista? Non bisogna insistere con quello che io chiamo “corporativismo concessivo”. Il corporativismo sono questi patti sociali e concessivi perché non c’è più lo scambio politico, non si dà moderazione salariale in cambio di politiche sociali più generose o riduzione dell’orario di lavoro, come avveniva negli anni ’70 o negli anni ’80, la “virtù” diventa premio a sé stessa, cioè si fanno delle concessioni semplicemente perché occorre farle, perché ce lo chiede l’Europa o perché l’alternativa è peggiore.

Questo modello di corporativismo concessivo non risolve il problema, dal mio punto di vista, legittima un modello di accumulazione fondato sulla compressione del fattore lavoro, quindi è controproducente sulla base di quello che ho detto prima e non risolve il problema fondamentale del Sindacato che è quello del radicamento o riradicamento nei luoghi di lavoro. Cosa è utile, ma non risolutivo dal mio punto di vista? Abbiamo visto che ci sono, effettivamente, dei problemi di strategia, bisogna fare molto di più per giovani, precari e lavoratori dei servizi, che sono dei settori in cui l’occupazione ancora cresce.

La mia posizione è che non tutto si può risolvere attraverso modifiche organizzative, la crisi del Sindacato non è solo una questione di strategia; se fosse solo questo, uno dei 25 almeno – per ragioni puramente statistiche – avrebbe azzeccato la strategia giusta e starebbe crescendo, ma sono tutti in crisi.

Che cosa è necessario? Se la mia argomentazione è che il Sindacato ha delle esternalità positive, queste devono essere riconosciute dall’attore pubblico, la rinascita del Sindacato richiede che l’attore pubblico le riconosca e le faciliti, come avveniva negli anni ’70, negli anni ’80, con la cosiddetta legislazione di sostegno.

Dal mio punto di vista bisogna ricostruire un partito del lavoro che in Italia, per lo meno in quell’Italia che io vedo dall’estero, perché sono all’estero da 21 anni, non esiste più in quanto partito del lavoro di massa e, dal momento che fino a qualche giorno andavano di moda gli 8 punti, ho stilato anch’io – nel mio piccolo – gli 8 punti di un partito del lavoro da ricostruire: legge sulla rappresentanza e la contrattazione, limitazione del lavoro precario, lotta all’evasione fiscale e imposta patrimoniale per ridurre il carico fiscale sui redditi da lavoro, rilancio degli investimenti pubblici, investimenti sulla scuola pubblica ed eliminazione degli incentivi alla scuola privata, rinazionalizzazione delle utilities (acqua, energia, etc.), ristrutturazione eventuale del debito pubblico e rinegoziazione della governance dell’Europa o, se questo dovesse risultare impossibile, uscita dall’euro preceduta dalla limitazione dei movimenti di capitale.

Capite bene che questi due punti bloccano tutti gli altri, quindi diventano prioritari rispetto agli altri. E’ possibile fare queste cose in un Paese solo? Qui ritorniamo al dibattito degli anni ’70 sul keynesismo in un Paese solo e, prima ancora, il dibattito sul socialismo in un Paese solo? Ovviamente no, la risposta va concordata a livello europeo, non è realistica senza una riforma delle istituzioni e dell’Unione Monetaria.

Vorrei concludere su questo tema: far ripartire il Sindacato non è molto diverso dal far ripartire la democrazia nazionale, ridare spazi di manovra alle democrazie nazionali che in Europa, con l’eccezione di un Paese e sapete quale, non esistono più perché le scelte che contano sono fatte altrove. Per concludere, quindi, è molto difficile affermare la rinascita del Sindacato, non ci sta riuscendo nessuno, ma probabilmente vale la pena di tentare.

 

Category: Fondazione Claudio Sabattini, Lavoro e Sindacato

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