Libreria delle donne di Milano: Adriana Maestro, Luisa Muraro, Ida Dominijanni

| 14 Luglio 2020 | Comments (0)

 

Diffondiamo dalla Libreria delle donne di Milano tre interventi di Adriana Maestro, Luisa Muraro, Ida Dominijanni

 

1. Adriana Maestro : Ripensare il lavoro

In questo tempo così difficile che abbiamo vissuto, e in parte stiamo ancora vivendo, quello che forse di più mi ha colpito è stata la repentinità con cui la nostra vita è cambiata ma soprattutto la plasticità con cui abbiamo risposto modificando completamente le nostre abitudini e l’ordine delle nostre priorità. La pandemia è stata sicuramente un “inaspettato”, anche se sappiamo bene che c’erano tutte le condizioni di preavviso, come hanno dimostrato studi qualificati (molto interessante a questo proposito l’inchiesta di Sabrina Giannini, Il virus è un boomerang, andata in onda nella puntata di Indovina che viene a cena del 29 marzo scorso su Rai 3).
Nonostante ciò, è stata un inatteso per le nostre vite, il cui grado di diffusione è stato proporzionale alla dimensione globale del nostro vivere oggi. Il fatto che le vite di tantissime donne e tantissimi uomini siano state toccate in maniera così profonda ha aperto, allo stesso tempo, uno spazio imprevisto per “ripensare” tutto. Uno spazio che non possiamo consentire che si richiuda “semplicemente”, ammesso che questo sia possibile.

Una delle cose che questa pandemia ha fatto irrompere con prepotenza ineludibile è la centralità della vita e la relazione che c’è tra vita e lavoro. In una maniera inaspettata per le nostre società, tutte improntate al produttivismo, all’efficienza, interi Paesi si sono fermati riconoscendo, di fatto, la priorità della vita rispetto all’efficienza economica.
Sicuramente, vista l’entità della posta e degli interessi in gioco, su questo crinale si sono giocate e si stanno giocando innumerevoli posizioni, sfumature, accentuazioni, opposizioni, rifiuti; così come ci sono state derive autoritarie, securitarie, sovraniste, e via dicendo e su questo bisogna naturalmente vigilare, con grande attenzione. Ma il fatto che interi Paesi abbiano scelto di fermare le loro attività per salvaguardare la vita è una cosa di una portata enorme, impensabile fino a ieri. Simbolicamente è un salto in avanti. È una affermazione dell’esperienza messa in parola dalle donne per cui la vita, fatta di relazioni, di affetti, di socialità, di parole, viene prima di tutto: primum vivere (Immagina che il lavoroSottosopra rosso, Libreria delle donne di Milano, 2009).
Per poterne trarre frutto, dobbiamo saperlo vedere. Altro dato significativo è che le zone più colpite sono state, almeno in Italia, quelle con un più intenso grado di “produttività”, cosa sbandierata spesso con una sorta di ottusa sicumera, quasi come il prezzo del soldato al fronte.

Non voglio star qui ad analizzare le possibili cause e interpretazioni, quello che mi interessa è che il fatto che siano state colpite prevalentemente le zone ad intensa attività ha impressionato fortemente l’immaginario di tutti. Una ferita profonda, anche simbolicamente, nel cuore pulsante del sistema produttivo e consumistico globalizzato.
Finché lo scontro tra salute e lavoro – che è una estremizzazione del conflitto tra lavoro e sfera della vita nella sua complessità – è confinato all’interno delle fabbriche o in territori determinati o riguarda le donne tra le mura domestiche o i bambini che si avvelenano scavando con le mani nelle miniere di cobalto, si tratta pur sempre di esperienze per così dire circoscritte, geograficamente e simbolicamente. Quando però il mostro invisibile può colpire chiunque, nella pancia del mondo ricco, allora la storia cambia.
Entra allora con forza nella vita di tutte e di tutti, in maniera ineludibile, la contrapposizione tra lavoro e salute, lavoro e vita, rendendo evidente l’assurdità della separazione tra mondo della produzione e mondo della vita. Contrapposizione frutto di una domanda mal posta: la scelta tra la vita e il lavoro. Mi ha sempre oltremodo stupito la maniera in cui – penso per esempio alla vicenda dell’ex-Ilva di Taranto – vengano poste in contrapposizione la salute dei lavoratori/trici, ma anche di interi territori, e la salvaguardia dei posti di lavoro. È come dire che la morte può essere un effetto collaterale del lavoro, che bisogna scegliere tra lavoro e vita. Ma che domanda è questa? Una contrapposizione del genere è possibile solo entro i confini culturali di una società che immagina il lavoro non al servizio dei bisogni delle persone, ma al servizio dell’arricchimento di pochi, in una logica di mercificazione e non di cura della vita. Il lavoro non può essere contro la vita.

E allora bisogna cercare di intendersi su cosa significa “produttivo”, cosa significa “economia”, che cosa è “valore”, che cosa è “lavoro”, che cosa significa tutto questo per l’esistenza di donne e uomini in carne e ossa.
Quando una pensatrice post-patriarcale come Ina Praetorius scrive che «l’economia è cura» (Altreconomia, 2019), la forza del suo ragionamento è che mette in discussione il concetto di “economia” più che quello di “cura”, perché è l’economia il totem dei nostri tempi. Finché si continua a distinguere tra lavoro produttivo e lavoro di cura, limitandosi solo a rivendicare anche per questo un riconoscimento economico, non si fa il salto, si rimane in una logica residuale, rischiando di asservire anche la cura alle logiche del mercato – e gli esempi purtroppo sono tanti – mentre comunque poi i lavori di cura non retribuiti rimangono esclusivamente un problema delle donne. Bisogna invece ripensare completamente il lavoro, proprio a partire dal suo senso – che è quello di dare risposta ai bisogni fondamentali delle persone –, dalla sua utilità per la vita, con il desiderio e l’ambizione di riunificare produzione e riproduzione. Cambia allora completamente la gerarchia valoriale ed economica dei lavori; cambia l’ordine dei bisogni e delle priorità. Parimenti, l’attenzione alla dignità della vita per se stessa soppianta la dimensione compensatoria delle politiche di welfare che, pur avendo segnato indubbiamente una stagione importante, sono pur sempre l’espressione di un sostegno alla sfera della riproduzione dettato dalla vera preoccupazione che è quella di garantire l’attività produttiva. Filosofia questa che, sappiamo bene, sta tutta dentro la logica del patto tra capitale e lavoro salariato, e quindi è figlia di quell’epoca e di quella cultura del lavoro.
Ripensare invece, alla luce della priorità della vita, “economia”, “lavoro”, “valore” significa un vero cambio di civiltà. Credo che lo spazio di riflessione che gli eventi tragici degli ultimi mesi possono aprire su questi temi sia grande e che sia un guadagno che non va perso.

(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 29 maggio 2020)

 

2.  Luisa Muraro: Pratiche politiche in tempo di grande pandemia

Probabilmente questa per me resterà la Grande Pandemia globale così come per i miei nonni Grande Guerra si chiamò fino alla fine quella che per i loro discendenti rimasti vivi o nati dopo, diventerà la prima guerra mondiale.

Voglio dire semplicemente che non ci sarà un ritorno al prima, ci sarà un dopo chiamato a trarre delle conseguenze e che ci conviene intanto imparare qualcosa. Una prima cosa da imparare, secondo me, è quello che dice Hannah Arendt nel 1972 riflettendo sulla guerra del Vietnam.

Dice: bombardando le strutture industriali del Vietnam del Nord, gli Usa credevano di piegarlo, senza considerare: primo, con che popolo avevano a che fare; secondo, che le strutture industriali non sono decisive in una guerra di guerriglia. Ma la questione è che l’errore di giudizio – prosegue la filosofa – diventò colossale solo perché (come dimostrano i documenti prodotti dagli stessi Usa) nessuno volle correggerlo. A questo punto il suo discorso punta verso l’origine di quello che, a posteriori, si riconosce come l’incapacità o il rifiuto di far ricorso all’esperienza e d’imparare dalla realtà (cfr. Hannah Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers, a cura di Olivia Guaraldo, traduzione di Veronica Santini, Marietti 1820, 2018, p. 77).

Chi mi legge, sono sicura che è consapevole quanto me, della bontà di far ricorso all’esperienza e d’imparare dalla realtà, tenendo in conto un sapere già acquisito ma senza farne un sostituto dell’imparare dall’esperienza. Nella realtà quotidiana pare che le donne ci riescano meglio degli uomini, ma in politica?

La mia proposta, buona per me e forse anche per altre, è di ricercare, tra sé e sé non senza il contributo di altre o altri, la verità soggettiva. La verità soggettiva è un collegamento vivo, personale, con la realtà che cambia. Ma come si fa a dirla? Molti anni fa si è risposto da alcune inventando la pratica dell’inconscio. Io, senza togliere niente a questa ottima risposta, ripresa recentemente da Chiara Zamboni, Riccardo Fanciullacci e altre/i, faccio un passo indietro e dico: il come preciso non lo so ma cerchiamola praticamente nelle cose che facciamo (o non facciamo), combattendo l’inganno e l’auto-inganno.

Per esempio (e che Silvia Romano mi perdoni di tirarla in ballo): una giovane donna lungamente sequestrata da pericolosi delinquenti, sedicenti mussulmani, torna libera, si presenta in Italia sana e sorridente, ma infagottata in un vestito che, ci viene spiegato, testimonia della sua conversione o passaggio dalla fede cattolica all’islam. Sorpresa generale. Nelle risposte delle femministe, è difficile se non impossibile rintracciare una verità soggettiva: sono soprattutto reazioni, alcune reticenti fino a non dirne una parola, altre scomposte. Eppure, siamo tutte colpite…

Anche la pandemia del nuovo corona virus è una sorpresa, gigantesca. Quale verità soggettiva sta affiorando nelle nostre risposte? È la domanda che pongo a quelle che la trovano sensata.

Per esempio, ho notato la tendenza a scrivere testi che fanno letture, analisi, proposte su quello che sta capitando, chiedendo poi ad altre di sottoscriverli. La raccolta di firme si spiega in tempi di distanziamento sociale. Ma si accorda male con la pratica di parola tra donne poi adottata e potenziata dal femminismo con l’autocoscienza, che non procede alla conta dei numeri. C’è di peggio ed è che il contarsi porta con sé il rischio di schierarsi. Bisogna capire meglio che cosa cerchiamo chiedendo l’accordo di altre. E, in generale, bisogna tornare a interrogarci sul ricorso alla Rete come medium per comunicare, ricorso che per forza di cose si sta estendendo. Una domanda che pongo è questa: che ne è del contrasto che bisogna opporre all’inganno e all’autoinganno? Come si fa?

Un inizio di risposta mi è stato suggerito da un conflitto che molte possono riconoscere e che riassumo brevemente. Si fa avanti una che di cose scientifiche se ne intende, e dice: questa pandemia è una forma d’influenza, un problema di salute ricorrente che abbiamo imparato a tenere a bada. Questa posizione viene respinta con la stessa enfasi con cui si respingono le “teorie” complottiste, cioè senza riconoscere la sua verità parziale che pure sarebbe utile tenere presente.

La verità parziale è tale solo se si esprime con la misura giusta, e questa può essere trovata in un rapporto fiducioso. L’esposizione critica e il giudizio dei pari grado, cioè la pratica propria della società scientifica, non sempre è sufficiente e spesso è impraticabile. Ci vuole anche che ci sia fiducia nel rapporto con l’altro, con l’altra, da guadagnare sul legame gregario del “noi” e sugli auto-inganni dell’Io. La comunicazione digitale consente, mi chiedo, che nasca fiducia critica e autocritica? La Rete si è sviluppata non poco sull’inganno e sulla finzione: la necessità in cui ci troviamo può farsi virtù?

(www.libreriadelledonne.it, #VD3, 25 maggio 2020)

 

3. Ida Dominijanni:  L’io alterato

È stata solo un sogno, un miraggio, o forse l’esplosione di un desiderio collettivo, la reazione che all’apparire del Coronavirus ha portato tante e tanti a dare per morto il capitalismo neoliberale? Quel virus biologico, spuntato non si sa ancora esattamente come e da dove, non sapevamo ancora bene quanta malattia e quanta morte avrebbe seminato, ma si capiva fin da subito che aveva la capacità di hackerare in un attimo, come un virus informatico, il sistema – produttivo, ambientale, sanitario, comunicativo – che l’aveva generato. Un microrganismo sconosciuto e tutto è andato in tilt: i sistemi sanitari devastati dai tagli alla spesa pubblica e perciò incapaci di fronteggiare l’emergenza, le linee aeree che prima scorrazzavano per il mondo globale costrette a fermarsi, le filiere della produzione di beni superflui costrette a interrompersi, i guru della finanza sovranazionale incapaci per una volta di fare previsioni, l’inquinamento, perfino, sospeso per lockdown.

Più niente sarà come prima, se n’era dedotto dando per scontato che tutto sarebbe stato meglio di prima. Invece no: tutto si avvia a tornare come prima, se non peggio di prima. Una ripartenza senza rinascita, come suggerisce Via Dogana. E senza ragionevolezza, aggiungo io. L’emergenza essendo stata sanitaria, la fragilità numero uno essendo stata quella del sistema sanitario, la risorsa numero uno essendo stata quella cura del vivente (negli ospedali, nelle case, nell’insegnamento a distanza, ma anche nei campi, nei supermercati, nelle consegne a domicilio) che ci ha mantenuti sani e salvi, sarebbe stato ragionevole “ripartire” appunto da qui: ricostruire un sistema sanitario nazionale universalistico, reinventare il welfare, mettere al mondo quella “società della cura” che scardina il primato della produzione sulla riproduzione e archivia l’etica della prestazione e della concorrenza. Invece no, si riparte dalle ragioni della produzione (di beni che nessuno comprerà) e del profitto sostenute a gran voce da Confindustria, il sistema sanitario resta com’è e per giunta senza neanche l’ombra delle “tre T” che servirebbero per domare davvero l’epidemia, il welfare resta una parola d’altri tempi, il lavoro di cura (femminile) resta senza riconoscimento e senza investimento. Come dice un mio maestro, historia non facit saltus: la storia si ripete, è solo la politica che può introdurre una discontinuità in questa ripetizione. Perché non ci sia ripartenza ma rinascita, perché dal crudele avvertimento della pandemia non si esca col ripristino di ciò che l’ha generata ma con un salto di civiltà, ci vorrà molta politica, e molto conflitto.

Perché le donne siano centrali in questo salto auspicabile e in questo conflitto inevitabile l’ho scritto con altre amiche su questo stesso sito (Salto della specie, http://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/salto-della-specie/), e per brevità non lo ripeto qui. Vorrei piuttosto ragionare sui guadagni della contingenza-virus (preferisco chiamarla così piuttosto che emergenza, termine carico di troppi significati preconcetti) che possono essere rilanciati politicamente, e sulle pratiche da attivare per fare quel lavoro di elaborazione dell’accaduto che sta a cavallo fra corpo e parola e che nessun altro farà se non lo facciamo noi.

Il guadagno della contingenza-virus sta a mio avviso in uno spostamento della soggettività che si è verificato nel contagio, quando ci siamo sentiti ciascuno/a per l’altro/a, contemporaneamente, salvezza e minaccia, portatori intenzionali di cura o potenziali di infezione, soggetti e oggetti dunque di affetti di segno opposto e indecidibile, che non sono solo nelle nostre mani ma anche in quelle del caso. È stata, è, una sorta di epifania della relazionalità del soggetto, una relazionalità non solo elettiva ma costitutiva che destabilizza l’io, lo sdoppia e lo raddoppia, ne rende porosi i confini, lo altera investendolo dell’alterità dell’altro. Per noi non è certo una novità: la relazionalità del soggetto è un caposaldo del pensiero e della pratica femminista, e in particolare Judith Butler, nei suoi scritti successivi all’11 settembre, ha messo a fuoco questa alterazione dell’io che deriva dalla sua esposizione tanto alla cura quanto alla violenza dell’altro. Ma a me pare che questa alterazione sia diventata, nel contagio, un’esperienza generalizzata e condivisa, una percezione profonda e diffusa capace di modificare il sentire e l’inconscio individuale e sociale, con effetti etici e politici di prima grandezza. Non solo nella prospettiva della società della cura, che nell’essere-per-l’altro del soggetto relazionale ha ovviamente il suo presupposto. Ma anche per i riflessi sulla concezione e la pratica della libertà, che com’è sempre più chiaro è il nocciolo del conflitto sociale che si va delineando in Italia e altrove, un conflitto in cui si fronteggiano e si fronteggeranno, ancora una volta e con espressioni più aspre ed estreme che in passato, la concezione neoliberale di una libertà egocentrata, proprietaria, orientata dal codice economico, e quella di una libertà relazionale, guadagnata politicamente, orientata dalla negoziazione fra sé e l’altro.

Proiettato sul grande schermo della scena politica nazionale e internazionale come scontro fra le destre populiste, industrialiste, suprematiste e antistataliste (l’ultima dagli Usa è la protesta libertarian “No Mask”) da un lato e dall’altro le alleanze sociali e politiche che si stanno costruendo attorno alla tutela della salute, alle pratiche della cura, al ripensamento delle funzioni dello Stato e alla produzione del comune, questo conflitto ha già contrassegnato il vissuto personale della pandemia e del lockdown secondo linee non sempre scontate o prevedibili, e probabilmente riconducibili all’esperienza singolare di ciascuna/o. Voglio dire che se anche nelle comunità intellettuali e politiche che prima della pandemia erano relativamente omogenee ci siamo poi trovate/i a dividerci sul tasso di pericolosità effettivo del coronavirus, sul lockdown come provvedimento autoritario imposto dall’alto o viceversa come pratica di autotutela voluta dal basso, sui tempi e le priorità della “riapertura”, queste divisioni hanno probabilmente a che fare con differenze non tanto o non solo ideologiche ma soprattutto esperienziali, che andrebbero raccontate e confrontate. Di che cosa abbiamo o non abbiamo avuto paura all’apparire del virus? Di chi abbiamo o non abbiamo dovuto o voluto prenderci cura? Con chi abbiamo vissuto durante il lockdown? Chi abbiamo voluto tutelare dal rischio, prima o oltre che noi stesse? Chi e che cosa abbiamo ritenuto che dovesse essere prioritariamente tutelato da parte delle istituzioni? Il confine cruciale che passa fra la rivendicazione della libertà di movimento personale e la rinuncia volontaria alla libertà di mettere a rischio gli altri passa, io credo, attraverso questi dati dell’esperienza singolare, che andrebbero raccontati e confrontati.

Entro da qui in quel lavoro al confine fra corpo e parola che dicevo sopra e che credo spetti a noi fare. L’evento-coronavirus non è stato – non è – soltanto un evento biologico, sanitario, sociale, economico, biopolitico. È stato ed è anche, e in primo luogo, un evento sensoriale, percettivo, emozionale; un evento dell’immaginario e dell’inconscio. Un’alluvione di diari della pandemia ci è piovuta sulla testa dalle pagine dei giornali, dai talk televisivi, dagli instant book già scaduti catapultati nelle librerie prim’ancora che riaprissero: diari talvolta sinceri e spiazzanti, talvolta obbedienti alle regole non scritte della narrazione mediatica mainstream, carica di buoni sentimenti, buoni propositi, buoni valori, buone maniere, abitata sempre da famiglie regolari, animata da una pedagogia fra lo sdolcinato e il paternalista. Niente mi ha colpita più delle rare testimonianze dirette della malattia, il racconto di chi è arrivato in ospedale dopo settimane di febbre, è stato sedato e intubato e racconta lo stato di sospensione fra vita e morte che ha attraversato. O più delle testimonianze strazianti del lutto mancato di chi ha perso qualcuno senza poterlo vedere, stringerli la mano, accompagnarlo nel rito della sepoltura.

Tuttavia molti tasselli mancano ancora. Che cosa ha evocato in noi l’apparizione di un microrganismo sconosciuto? Come lo collochiamo nel nostro modo di pensare il rapporto fra biologia e società, natura e storia? Quali fantasie ha scatenato in noi l’esplosione di una pandemia, che è di per sé una situazione totalizzante, dove non si dà più un altrove in cui scappare fisicamente o con l’immaginazione? Quali sentimenti di tutela, propria e altrui, e quali fobie, nevrosi, idiosincrasie scatena il rischio del contagio? Che cos’è il rischio del contagio di una malattia, per chi come noi ha sempre usato positivamente la metafora del contagio per connotare la diffusione spontanea della presa di pratiche politiche? Perché il Covid-19 mette tanta paura, malgrado il suo tasso di letalità relativamente basso? È una paura artatamente indotta, o ha a che fare propriamente con l’immaginario del contagio, e con le caratteristiche della malattia? Che cos’è una malattia che attacca il respiro, soffoca, e costringe a una incubazione e a una morte solitaria? Com’è cambiato dopo l’impatto con il Covid il nostro rapporto con la malattia, e con la potenza e l’impotenza della medicina? Com’è cambiato il nostro rapporto con la morte, di fronte a tante morti solitarie e senza conforto e alla morte ridotta, come nelle immagini dei camion di Bergamo, a problema di smaltimento? Quelle migliaia di morti senza funerale potranno mai davvero riposare, e non incombere sulla comunità dei viventi, se non troviamo il modo di celebrarne pubblicamente il lutto?

Ancora. Quali effetti ha questa situazione sul pensiero? Come si pensa, come si legge, come si scrive in una pandemia che è anche una infodemia, una situazione di totalitarismo mediatico in cui pare non ci sia spazio per pensare ad altro che al virus? Che cosa significa per il nostro apparato sensoriale indossare la mascherina, portare gli occhiali per non infettare gli occhi, infilare le mani nei guanti o lavarsele in continuazione? Che cosa significa smettere di toccare le amiche, gli amici, i familiari, o temere di toccare un o una amante? Che cos’è il sesso, in tempi di pandemia? Quali segnali ci ha mandato in questi mesi l’inconscio? Che cosa abbiamo sognato, che cosa sogniamo? Che cosa non vediamo l’ora di riprendere della nostra vita precedente, e che cosa non vorremmo mai più riprendere? In che cosa la nostra vita precedente ci aveva già preparati alla distanza, alla de-sensorializzazione, alla de-sessualizzazione, alla virtualizzazione delle relazioni? Quanto contavano e come parlavano i corpi prima, quanto contano e come parlano adesso? Quanto ci siamo mancate non potendoci riunire in presenza, e quanto invece ci siamo state presenti pur nella distanza?

Sono questi i dati dell’esperienza che dovremmo “tracciare”, per sottrarre l’esperienza al “governo dei numeri” e dei big data che la riduce a statistica e ad algoritmo. Qualcuna ha già cominciato a farlo: ad esempio il collettivo Anonima Sognatrici, che raccoglie in una app i sogni fatti durante la quarantena da chiunque voglia condividerli (il progetto e l’app su Erbacce del 17/5/20). E bisognerà continuare, per “ripartire” a nostra volta con quella pratica di messa in parola dell’esperienza e di sondaggio dell’inconscio che oggi più che mai vanno riattivate per significare a partire da noi l’evento-coronavirus.

Con le mie ultime due domande sono già entrata in quella che si pone Via Dogana a proposito del rapporto, o della tensione, fra i processi accelerati di informatizzazione (del lavoro, della scuola a distanza, delle riunioni sulle piattaforme, dei consumi culturali in streaming) e l’importanza irrinunciabile della corporeità, della fisicità e delle relazioni in presenza. Il tema si annuncia fra quelli che domineranno il dibattito pubblico del dopo-pandemia, perché da un lato il capitalismo farà dell’investimento tecnologico la principale leva di risparmio dei costi e di intensificazione dello sfruttamento del lavoro, dall’altro le resistenze antitecnologiche assumeranno toni sempre più apocalittici (ho appena letto l’equazione che un noto filosofo italiano stabilisce fra i docenti che oggi accettano la didattica a distanza e e quelli che nel 1931 giurarono fedeltà al fascismo).

In verità nel trattamento della pandemia io non lamento un eccesso ma semmai un deficit di dispiegamento di potenza tecnologica, visto che in tutto l’occidente (diverso è il caso di paesi come Taiwan, Singapore, Corea del Sud) non abbiamo trovato altro mezzo che quello medievale del lockdown per frenare l’avanzata del coronavirus, in barba a decenni di competenze accumulate su come isolare i virus informatici. Il tema della pervasività tecnologica va comunque articolato attentamente, senza farsi travolgere da un immaginario pregiudiziale che rischia di confondere piani ed effetti di segno diverso, e di prendere per svolte radicali processi che erano già dispiegati ben prima della pandemia (mi ha lasciato esterrefatta la diffidenza verso l’app di segnalazione e tracciamento della positività, avanzata in nome della sacralità dei dati personali da chi magari i propri dati li cede da anni su Facebook a fini commerciali). È indubbio che la pandemia sia un’ottima occasione per mettere a frutto e implementare tecnologie di sorveglianza (sovente già sperimentate contro il terrorismo) contro le quali bisognerà vigilare e forse ribellarsi. Diverso è a mio avviso il discorso per le piattaforme di condivisione a distanza. Per quanto anch’esse siano infarcite di rischi di ogni genere (commercializzazione dei dati, sfruttamento delle emozioni, de-corporeizzazione delle relazioni), non sarei onesta se non ammettessi quanto abbiano funzionato per me come alleggerimento della solitudine e di più, come potenziamento dell’intelligenza collettiva e dello scambio di informazioni, analisi, opinioni. Non è come pensare in presenza, ma è un buon sollievo dall’assenza. A ben vedere i corpi parlano, si sentono e contano anche dietro uno schermo.

(www.libreriadelledonne.it, #VD3, 25 maggio 2020)

Category: Donne, lavoro, femminismi, Epidemia coronavirus, Lavoro e Sindacato, Libri e librerie, Osservatorio internazionale

About Luisa Muraro: Luisa Muraro nasce a Montecchio Maggiore (in provincia di Vicenza) nel 1940. Si laurea in Filosofia all'Università Cattolica di Milano, presso la quale inizia la carriera accademica. Come racconta lei stessa, il suo docente di riferimento era Gustavo Bontadini, mentre si è poi laureata in filosofia della scienza con Evandro Agazzi. Nella sua formazione universitaria, un ruolo centrale ha lo studio della linguistica ed in particolare di Ferdinand de Saussure cui dedica anche alcuni saggi pubblicati sulla "Rivista di Filosofia Neo-Scolastica", tra il 1967 e il 1969. Durante gli anni settanta inizia ad insegnare nella scuola dell'obbligo. Qui dà vita insieme a Elvio Fachinelli e ad altri a un esperimento didattico di scuola "antiautoritaria": l'esperienza è documentata e fatta oggetto di riflessione nel libro L' Erba voglio: pratica non autoritaria nella scuola. In quegli stessi anni, con Fachinelli, Lea Melandri e altri, scrive sulla rivista che ha preso il nome dal libro citato, «L'Erba voglio». A cavallo tra gli anni sessanta e gli anni settanta accade anche il suo incontro con i gruppi femministi di Milano e con Lia Cigarini e altre fonda nel 1975 la Libreria delle Donne di Milano, che diventerà una delle istituzioni storiche del femminismo italiano . Dal 1976 vive a Milano, ma lavora nel dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Verona dove, tra il 1983 e il 1984 è stata tra le fondatrici, insieme a Chiara Zamboni, Wanda Tommasi, Adriana Cavarero e altre della comunità filosofica femminile "Diotima" . Nel 1995 e nel 2001 pubblica, nella collana La dracma diretta da Adriana Valerio, i due volumi Lingua materna, scienza divina. Scritti sulla filosofia mistica di Margherita Porete e Le amiche di Dio dando, in questo modo, un importante contributo all'approfondimento del pensiero della differenza in ambito religioso. Tra i suoi ultimi libri: Non è da tutti.L'indicibile fortuna di essere donna, Carocci 2011; Dio è violent, Nottetempo 2012; Autorità , Rosenberg e Sellier 2013; Le amiche di Dio. Margherita e le altre, Orthotes editrice Napoli 2014

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