Bruno Papignani: La FIOM e il lavoro precario metalmeccanico

| 16 Dicembre 2011 | Comments (0)

Il segretario della Fiom di Bologna, intervistato da Eloisa Betti e Vittorio Capecchi, propone una strategia per affrontare il lavoro precario sulla base di una discussione  con i sindacati presenti nelle aziende del gruppo Volkswagen.

 

D.: Come vedi il mondo del precariato in rapporto all’Emilia-Romagna e, soprattutto, alla metalmeccanica, il settore che rappresenti? Partiamo con una provocazione: parlando di precariato, Confindustria afferma che la precarietà non costituisce un problema nelle aziende sue associate, specialmente in quelle industriali. Qual è la tua esperienza nelle realtà aziendali del territorio bolognese che conosci e rappresenti in quanto Segretario generale della FIOM di Bologna?.

 

 

Bruno Papignani

Bruno Papignani

Papignani: Se si parla di precariato, soprattutto giovanile, oggi paradossalmente si potrebbe dire che questo non esiste, perché nel 2008, quando è iniziata la crisi, i precari sono stati i primi a pagarla e sono stati mandati a casa senza che intervenisse nessun meccanismo di tutela e nessuna forma di ammortizzatore sociale. A questo proposito bisogna anche fare un’ autocritica: noi metalmeccanici non siamo riusciti a mettere in pratica livelli di solidarietà adeguati. E non solo la solidarietà ha fatto difetto: è mancata anche la convinzione che la difesa di chi era precario fosse la prima e necessaria lotta contro la precarizzazione generalizzata dei lavoratori. Si è così affermata una logica per cui, in una situazione di crisi, se ci sono degli esuberi e vengono lasciati a casa i precari, che hanno contratti a termine o interinali, non si può far nulla: un’impossibilità di azione dettata proprio dal fatto che quei lavoratori sono precari. Ho riflettuto sull’origine di questo ragionamento, e penso che derivi dalle scelte operate portate avanti dalla CGIL. Ritengo che nella discussione interna alle fabbriche sia stato disastroso il fatto che sia stato creato un sindacato per i precari (il NIDIL), cosa che comportava una diversa iscrizione, non direttamente alla categoria, ma al NIDIL. Ciò ha gradualmente accentuato una separazione, tanto sul piano culturale quanto su quello organizzativo, che ha finito per rendere scontata la “diversità dei precari” dagli altri lavoratori. Tutto ciò ha reso faticoso il mantenere vivo uno spirito di forte solidarietà. Si pensi che a Bologna dal 2008 sono stati mandati a casa nella sola metalmeccanica circa 3.000 lavoratori precari.

 

 

D.: E questi 3.000 lavoratori, a quali comparti afferivano?

 

Papignani: Escludendo il packaging, erano distribuiti su tutti i comparti della metalmeccanica: non solo nelle aziende artigiane, ma anche nella piccola, media e grande industria. Vi è poi un altro aspetto su cui vorrei attirare l’attenzione: cioè che non possiamo permettere che si ripeta in futuro un’altra massiccia espulsione di precari. In primo luogo, dobbiamo tener presente che d’ora in avanti, avremo dei cicli sempre più brevi sia di ripresa che di crisi, con diversità tra azienda e azienda, tra comparto e comparto. In secondo luogo, poi, qualsiasi variazione (non necessariamente una ripresa, ma anche solo un momentaneo picco produttivo) comporterà l’assunzione di precari e solo di precari, poiché con questa crisi, espellendo precari e prepensionando i lavoratori più anziani, le aziende hanno portato l’occupazione ai minimi livelli, alle soglie della sottoccupazione. Per questi motivi, dobbiamo intervenire adesso. Penso che questa sia una discussione da fare con coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato, i quali con questa operazione hanno subito sia un peggioramento delle proprie condizioni di lavoro che un generale aumento della precarietà dell’occupazione. Perciò adesso dobbiamo avanzare una proposta e, visto che per via legislativa è percorribile, bisogna farlo per via contrattuale, localmente e a livello nazionale.

 

D.: Ci puoi spiegare meglio la proposta che la Fiom di Bologna sta portando avanti per combattere la precarietà e che– se ho capito bene –avete già presentato alla controparte?

 

Papignani: Abbiamo già presentato la nostra proposta a Federmeccanica e Unindustria e ora vogliamo portarla all’interno delle aziende. In realtà, è una proposta adattata al territorio bolognese, ma non è stata elaborata a Bologna, è frutto di una discussione sviluppatasi a livello mondiale, con i sindacati presenti nelle aziende del gruppo Volkswagen come, ad esempio, IG Metall, Solidarnosc. Nel primo caso riguardava le aziende Volkswagen; nel nostro caso l’abbiamo fatta nostra come proposta provinciale. La proposta è molto semplice, ha quattro punti sostanziali. Prima di tutto, stabilire i motivi per cui sia lecito assumere un precario. A questo proposito, noi ne abbiamo individuati tre. Primo: il lancio di un nuovo prodotto. Secondo: un picco produttivo. Terzo: la stagionalità del prodotto. Ovviamente, la sussistenza di queste condizioni va discussa di volta in volta, perché non tutte hanno la stessa durata: quella del picco stagionale o di quello produttivo sono diverse dal periodo di lancio di un nuovo prodotto. In ogni caso, la nostra proposta prevede che, se sussiste almeno una di queste tre cause, si può convenire sull’utilizzo di lavoratori cosiddetti precari, a tempo determinato o interinale, purché non si superi la percentuale del 5% per area produttiva o reparto. Questo 5% non potrà durare meno di sei mesi e più di 18, così come non potrà essere rinnovato più di due volte: in altre parole, si potranno avere al massimo due contratti di nove mesi l’uno o tre contratti di sei mesi. Se il lavoratore non venisse confermato – verificato che non ci siano alternative finalizzate alla conferma –, nei successivi 9 mesi l’azienda non potrà assumere altri lavoratori precari in quella stessa postazione. Un altro punto della proposta prevede che, qualora il contratto a tempo determinato sia rinnovato continuativamente per 18 mesi, diventi automaticamente a tempo indeterminato. Se viceversa non ci sono le condizioni per confermare il lavoratore, il periodo  di lavoro già effettuato deve essere retribuito il 20% in più. Ad esempio, se il lavoratore percepisce 20.000 euro, l’azienda deve corrispondergli altri 4.000 euro se, alla fine, non viene confermato. Inoltre, la proposta prevede che lo stesso lavoratore abbia priorità nelle assunzioni aziendali, sia di filiera, sia di bacino.

 

D.: Che reazioni vi aspettate o avete avuto alla vostra proposta? Le aziende con cui hai affrontato il problema del precariato hanno mostrato consapevolezza dei potenziali effetti negativi, per la loro struttura produttiva, dell’utilizzo su vasta scala del lavoro precario? Vi è la consapevolezza nel mondo imprenditoriale che l’estensione indiscriminata e generalizzata del lavoro precario ha dei limiti di sostenibilità in primis sotto il profilo della produttività e della qualità del prodotto?

 

Papignani: Il dato che ci conforta nella discussione con le aziende è che molte hanno toccato con mano (almeno quelle che tengono alla qualità del prodotto e allo sviluppo industriale, non quelle puramente finanziarie) che il precariato fatto così, senza nessuna formazione, che di fatto usa e getta i lavoratori, ha reso precarie anche le aziende. Questo è il nostro punto di forza. Il precariato come è utilizzato oggi ha reso precarie le aziende sul mercato, dal punto di vista della qualità dei prodotti, dal punto di vista della produttività, dal punto di vista del sistema complessivo. Bisogna, tuttavia, fare però almeno tre considerazioni diverse. In un settore come il packaging il precariato è quasi impossibile, perché per formare un lavoratore specializzato ci vogliono tempo e soldi. In molte aziende, come ad esempio alla Saeco, è stata riveduta l’impostazione: sebbene si continui ad utilizzare ancora un po’ di precariato, non è più utilizzato in maniera indiscriminata. Si pensi che nel preriodo pre-crisi si erano raggiunti dei livelli impressionanti di precariato: in una linea di montaggio di 600 ragazze, 400 erano precarie. Perlomeno nell’ambito della discussione, l’azienda ha compreso che, alla fine, questo utilizzo del precariato ha portato alla precarietà generale della stessa struttura industriale. In altre aziende, invece, prevale ancora un altro approccio: queste aziende preferiscono impiegare molti precari, e guadagnare così un grande potere contrattuale, che permette loro di gestire molto “agevolmente” le relazioni sindacali, sebbene questa situazione vada a scapito della qualità della produzione.

 

D.: Nello scenario che stai descrivendo, è ancora possibile parlare di modello emiliano  focalizzando, in particolare, sul sistema industriale bolognese?

 

Papignani: Io non so se il sistema bolognese esista ancora. Anche qui viene messo in discussione il contratto nazionale: questo, infatti, contrasta con l’organizzazione delle multinazionali che vogliono un loro contratto, che permetta loro di agire indipendentemente dai vincoli legislativi e contrattuali nazionali. Un altro aspetto è la crisi del sistema delle piccole aziende: l’artigiano – se andiamo a vedere – non esiste più. Esistono reparti e repartini dell’azienda madre guidati da un padroncino artigiano. Ciò è reso evidente dal fatto che tecnologia, tempi di lavoro, prezzi e regimi sono determinati dall’azienda madre e non dall’artigiano. In secondo luogo, Bologna è stata globalizzata. Se togliamo il packaging ed alcune famiglie, come Marchesini, Bonfiglioli e Vacchi, tutto il resto ha subito la globalizzazione. Oggi la proprietà delle aziende è in mano agli indiani, ai tedeschi, agli americani, ecc… Che fine farai, la vera strategia, si decide spesso a 20.000 km di distanza e bisogna ricordare che spesso le aziende bolognesi rappresentano lo 0,1% del fatturato del gruppo straniero che le ha acquisite. Come conseguenza, vi è anche una cultura d’impresa e modalità di gestione delle relazioni con il sindacato diverse da quelle sviluppatesi nel bolognese ed eterogenee fra loro. Se penso alla Lamborghini automobili, con tutti i problemi sindacali che abbiamo, tuttavia risentono della cogestione tedesca, di un aspetto fortemente industriale basato sulla qualità, sulla produttività, sull’inclusione del sindacato. Se penso alle aziende che hanno come punto di riferimento i giapponesi, c’è ancora un aspetto prevalentemente industriale, ma molto più complicato per quanto riguarda i rapporti sindacali perchè utilizzano tutti gli escamotage che possono trovare per non confrontarsi. Se penso alle aziende di proprietà americana, queste puntano all’immagine, a promuovere il marchio. La Ducati Motor ai dipendenti dice: «Io vi do la moto in leasing purchè mettiate tutte le moto lucidate dove si vedono, chi passa deve vedere le moto» e così per altri aspetti. Quello che si era creato a livello di relazioni sindacali in parte è stato mantenuto, ma in parte deve essere di volta in volta riconquistato, e non sempre ci si riesce. Faccio un esempio. La prima volta che incontrai i rappresentanti della Kemet, il gruppo americano che ha acquisito l’Arcotronics, avevano annunciato 354 licenziamenti. Contemporaneamente venni a sapere che avevano già spedito le lettere di ringraziamento per il lavoro svolto a chi veniva licenziato, e lettere di mantenimento dell’attività a chi rimaneva. Durante questo incontro dissi loro: «Voi siete pazzi!Noi faremo le barricate!» La controparte, non capendo, ribatteva: «Noi siamo i padroni dell’azienda, ci sono delle ragioni dietro al nostro operato; e non capiamo perché voi diciate di no; e neppure come possiate dire di no». Per mezza giornata abbiamo provato a spiegare loro la nostra posizione, ma non siamo riusciti a convincerli, così abbiamo dovuto fare 30 ore di sciopero per convincerli che dovevano iniziare una trattativa sindacale e non potevano agire unilateralmente, dopo l’hanno capito. Si è persa una cultura dove c’era il padrone con cui fare la trattativa: questa non c’è più.

 

D.: A tuo avviso, quanto influisce il contesto sociale e politico nella vostra azione sindacale? Voi trovate oggi di avere qualche sostegno dalle istituzioni nella vostra azione di contrasto alla crisi e alla precarietà? O, al contrario, quella che era una caratteristica storica del modello emiliano, e in particolare di quello bolognese, è venuta a mancare?

 

Papignani: Fino a poco tempo fa, prima della crisi, coinvolgevamo le istituzioni (la provincia e la regione) in trattative particolarmente difficili, trattative in cui anche la discussione con i lavoratori presentava dei motivi di grande difficoltà. Pertanto era coinvolto un ente terzo, l’istituzione, per dare maggiore autorevolezza agli accordi raggiunti. Detto in altro modo, “se lo dice anche la provincia o la regione, vuol dire non c’è proprio niente da fare”. Con la crisi il ruolo delle istituzioni doveva cambiare. Io penso che la provincia sia confinata in un ruolo secondario, quello di diramare comunicati stampa degli incontri che organizza e di mediare in tali incontri (dove peraltro c’è già il sindacalista). Ritengo che, sostanzialmente, non abbia poteri, non che le manchi la volontà. Per quanto riguarda invece la regione, fatti salvi gli ammortizzatori sociali in deroga (anche se era meglio averli nazionali) credo che non sia riuscita – e lo dico francamente – a svolgere pienamente il ruolo che secondo me avrebbe dovuto. È stata fatta una politica di riqualificazione e di formazione per chi veniva espulso: sono stati predisposti dei corsi di formazione. Ma questi non hanno portato alla rioccupazione, anche perché sono stati fatti senza sapere quali fossero i settori che potevano assorbire la manodopera così riqualificata. Anche gli ammortizzatori in deroga sono stati gestiti caso per caso:  si è trattato, anche in questa circostanza, di un’operazione di mediazione. La regione si è impegnata insieme al sindacato a far avere alle aziende la cassa in deroga, a fronte dell’impegno a non licenziare il lavoratore. È tuttavia mancato qualcosa di un po’ più profondo. Prendiamo ad esempio il motociclo: noi abbiamo fatto un incontro ad aprile, ripetuto il mese successivo, in cui Confindustria, in prima persona, ha portato dei dati; probabilmente ce ne sarà un altro a ottobre, ma credo che allora constateremo che le aziende che dovevano chiudere hanno già chiuso, ed erano 6-7. Quello del motociclo è un esempio eloquente, perché non siamo riusciti a far leva sul fatto che, in Emilia-Romagna, questo comparto  conta tutte le funzioni necessarie a realizzare l’intero prodotto, e offre così la possibilità di avere una filiera corta e di prodotti di grande qualità. Oggi, invece, le aziende di componentistica, pur rappresentando un patrimonio professionale e industriale enorme, chiudono e si trasferiscono in Vietnam. Perché un‘azienda come la Ducati (che dice di voler rimanere bolognese) possa rimanere sul territorio ci deve essere un ritorno sia per l’azienda che per il territorio. Non si capisce, perché i telai invece di affidarli alla Verlicchi, come ha sempre fatto, debba andare a fabbricarli in Vietnam. Tutto questo significa una sola cosa: non esiste una politica di settore.

 

D.: Quindi il problema è la mancanza di una politica industriale, non solo a livello nazionale ma anche a livello locale?

 

Papignani : Certo, con tutte le difficoltà che si sono, è mancata. Gli incontri a che cosa sono serviti? A una cosa importantissima: mediare tra le posizioni del sindacato e dell’azienda, ovviamente con risultati importanti. Molte casse integrazioni a Bologna hanno visto delle integrazioni salariali per i lavoratori da parte dell’azienda di 10-15 euro al giorno; abbiamo fatto degli accordi grazie ai quali il salario dei lavoratori non è andato al di sotto di mille euro netti – 200 euro in più al mese per i lavoratori sono importanti. Adesso che finiscono gli ammortizzatori, che il telaio nuovo della Ducati forse verrà fatto in Vietnam, quali prospettive ci sono, ad esempio, per la Verlicchi, azienda che abbiamo risollevato da un fallimento e da una truffa? E si pensi che trasferire la produzione in Vietnam può ridurre solo parzialmente i costi, perché se si considera solo il costo del lavoro là costa meno, ma se si considerano anche i costi della non qualità, del trasporto ecc… il vantaggio economico scende drasticamente. Quindi su questo manca un disegno complessivo.

D.: Quali sono stati ad oggi gli effetti della crisi sui lavoratori metalmeccanici e quali le prospettive future per il reinserimento di quelli che hanno perso il lavoro?

Papignani: Dal 2008 ad oggi vi sono state circa 2.800 uscite di metalmeccanici, che si sono agganciati alla pensione perché gli è stato concesso di andare in mobilità per tre anni. Altri 2000 circa, li abbiamo persi per fallimenti: circa 30 aziende comprese quelle artigiane. Altri lavoratori, quelli precari, sono stati espulsi, ma io li considero licenziati. Complessivamente il settore metalmeccanico rischia di perdere 10.000 lavoratori dal 2008 ad oggi sui circa 50.000 afferenti al comparto, il 20%. I dati in nostro possesso sono già proiettati a quello che può avvenire nei prossimi 3 mesi. Nell’ipotesi migliore, avremo la perdita di altri 1.000-1.500 posti di lavoro per cessazione di attività. Chi è andato in mobilità per fallimento, e non è riuscito ad andare in pensione, ammesso che trovi lavoro rischia di tornare ad essere precario a 40-45 anni, con livelli di salario e qualificazione inferiori. Rischia di essere un lavoratore di 45 anni povero e precario.

 

D.: Quali sono i rapporti con le altre categorie che si occupano di precariato? A tuo avviso, ha un senso una discussione sul lavoro precario con le altre categorie, per valutare eventuali azioni e strategie comuni?

 

Papignani: Il punto è quando la CGIL smette di pensare che la FIOM è un problema, e inizia a pensare a politiche industriali per determinare delle scelte, non per far prevalere posizioni diverse. Ciò è indispensabile, perché il precariato esistente si sta sommando ad altro precariato. Uno dei problemi maggiori è la frammentazione che è avvenuta all’interno delle aziende, cioè sotto lo stesso tetto, mentre ieri erano tutti metalmeccanici, oggi convivono oltre ai metalmeccanici lavoratori dei trasporti, del commercio, ecc… Per riunificare la condizione di lavoro, è necessario almeno partire dal dialogo con le altre categorie ed avere una politica industriale. Attualmente questo non c’è, ma diventa sempre più indispensabile perché oggi rischiamo che dall’appalto si sviluppi una catena di sub-appalti fino a 4 livelli. I lavoratori della catene di sub-appalti sono tutti precari e spesso non metalmeccanici, anche se fanno un lavoro che prima era dei metalmeccanici. Mentre in precedenza chi si occupava del trasporto per l’azienda e chi lavorava nelle mense aziendali erano tutti considerati lavoratori metalmeccanici, oggi non lo sono più.

 

D.: Dato che ci troviamo a parlare in una contingenza in cui questa manovra a breve entrerà a regime, in che termini l’articolo 8 può modificare in termini peggiorativi il quadro già negativo che hai tracciato? A tuo avviso esiste un legame diretto tra l’articolo 8 e il problema della precarietà, in altre parole se la libertà di licenziare diventa reale, i lavoratori che vengono licenziati non rischiano di non rientrare più in modo stabile, finendo ad ingrossare le fila del precariato?

 

Papignani: Io credo che l’articolo 8 sia l’ultimo attacco alla CGIL come “sindacato di progetto”, perché vuol dire che con l’applicazione dell’articolo 8 si distrugge il contratto nazionale di lavoro, si dà la possibilità alle aziende di licenziare e quindi immediatamente il sindacato non è più in grado di progettare le condizioni di lavoro, lo stato sociale, ma semplicemente  recuperare attraverso un servizio più o meno adatto che il lavoratore gli chiede. Io credo che se l’articolo 8 non verrà abrogato, saremo di fronte alla messa in discussione del ruolo del sindacato così come l’abbiamo conosciuto: penso che l’intera storia della CGIL sia incompatibile con l’articolo 8. So che ci sono state anche in Emilia-Romagna, anche qui a Bologna, posizioni che propongono di fare un patto con gli imprenditori perché non sia applicato l’articolo 8. Credo che bisogna fare accordi, perché i patti danno l’idea di qualcosa di estraneo dalle condizioni delle persone. In ogni caso, qualunque accordo non supera la legge: la legge è la legge, se un imprenditore la vuole applicare la applica. Quindi mi sembra una discussione assurda, perché se tu dici «a Bologna, in Italia non applico l’articolo 8», tu dovresti porla come una soluzione transitoria per abrogarlo e non penso che questo passaggio gli imprenditori lo farebbero. In secondo luogo, se fai un patto con delle eccezioni, a livello nazionale legalizzi  il comportamento di un’azienda, come la FIAT, giudicato anti-sindacale da un tribunale. Se lo trasferiamo a Bologna, non applicare l’articolo 8 vale per tutti o ci sono delle eccezioni? Ad esempio, la Magneti-Marelli non dirà mai che non applica l’articolo 8 perché è FIAT e probabilmente nemmeno Guidalberto Guidi. Quindi l’unica possibilità è abrogare l’articolo 8 e l’unico modo per farlo è il ricorso al referendum, perché il ricorso alla Corte Costituzionale prevede che tu abbia dei casi e quindi passa molto tempo e, inoltre, potrebbe portare anche al fatto che tu modifichi, rendi illegittimi, parti di quel dispositivo ma non il dispositivo nella sua interezza. L’articolo 8 in molte aziende dove non c’è il sindacato, dove non c’è il sindacato radicato in azienda, verrà applicato. Quindi per questo va abrogato e questo contrasta con la scelta fatta dalla CGIL sull’accordo del 28 giugno. La sensazione che noto tra i lavoratori è che la CGIL alla fine abbia accettato gli aspetti che erano nell’accordo separato. In una categoria come la nostra non vedo come si possa andare a spiegare ai lavoratori un accordo che prevede le deroghe al contratto nazionale, quando i lavoratori nel 2003 e anche quest’anno hanno fatto trattative e ore di sciopero per strappare già più di 140 accordi che prevedono che le aziende non possono fare deroghe al contratto. È una contraddizione: se le deroghe non erano buone prima, non lo sono neanche adesso. Un lavoratore mi ha detto recentemente che la CGIL fornisce la mobilitazione, la lotta; le vere idee le mette il PD. Io ho tentato di dire che c’è un’autonomia della CGIL, ho faticato a dire che c’è un progetto.


 

Category: Lavoro e Sindacato, Precariato

About Bruno Papignani: Nato a Vergato (BO) nel 1954, fino al 1975 abita a Baigno sull'appennino Tosco Emiliano. Si trasferisce a Bologna e lavora presso la Menarini Autobus come operaio e viene eletto subito delegato, contemporaneamente iscritto al PCI ricopre il ruolo di segretario di sezione. Nel 1980 entra a fare parte dell'esecutivo Nazionale della FLM e per la Fiom ricopre il ruolo di coordinatore nazionale delle aziende costruttrici di autobus. È fra i protagonisti degli autoconvocati negli anni 83-84. Nel 1989 è operatore Fiom a tempo pieno, prima nella zona Roveri poi fino al 2004 a S. Viola e segue le vertenze delle aziende più importanti, dal 2002 fa parte della segreteria Fiom Bologna. Nel novembre 2004 viene eletto segretario generale della FIOM di Bologna, incarico che lascia in aprile del 2012 quando viene eletto segretario generale della FIOM Emilia Romagna, incarico che ricopre tuttora. È membro della direzione nazionale della FIOM, responsabile nazionale delle Cooperative Metalmeccaniche, coordinatore nazionale per la Fiom del Gruppo FINCANTIERI e segue alcuni altri Gruppi nazionali fra cui WARTSILA' e SCM, è membro del direttivo della CGIL Emilia Romagna.

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