Rossanda, Castellina, Campetti, Pugliese, Ragozzino, Comito: Ciao Valentino!

| 4 Maggio 2017 | Comments (0)

 

 

www.sbilanciamoci.info del 4 maggio 2017 ha raccolto i ricordi di Valentino Parlato scritti da Rossanda, Castellina,  Campetti, Comito, Ragozzino e abbiamo a questi ricordi aggiunto quelli di Enrico Pugliese

 

1. Rossana Rossanda: Valentino Parlato, una generosità mai spenta

2 maggio 2017

Quello che ha sempre caratterizzato Valentino – in anni nei quali le prese di posizione sulla politica del paese si sono accompagnate spesso a dolorose rotture – è stata la grande apertura alle idee altrui, una generosità mai spenta, un vero e proprio modo di essere e di pensare che lo ha accompagnato per tutta […]

Si è spento ieri notte, colpito da un malore improvviso, Valentino Parlato, il nostro amico e compagno più vicino, uno dei fondatori del gruppo del Manifesto e di questo giornale assieme ad Aldo Natoli, Lucio Magri, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Eliseo Milani e chi scrive. Del giornale è stato parecchi anni direttore, e soprattutto vigile amico del suo destino, salvatore nelle situazioni di emergenza, oltre che naturalmente collaboratore per lungo tempo.

Valentino era nato in Libia e la sua entrata nel giornalismo italiano è stata la stessa cosa della sua adesione al Partito comunista italiano, finché non fu vittima anche egli della cacciata di tutto il gruppo del Manifesto per non essere d’accordo con la linea imperante fra gli anni sessanta e settanta. Aveva cominciato a collaborare a Rinascita assieme a Luciano Barca ed Eugenio Peggio, in quello che fu forse il più interessante periodo della politica economica e sindacale comunista, e il culmine della polemica sulle “cattedrali nel deserto”, ma negli stessi anni tenne uno stretto collegamento con Federico Caffè e Claudio Napoleoni. Tuttavia non si può limitare la sua cultura alla scienza economica; nutrito di letture settecentesche, si considerò sempre un allievo di Giorgio Colli e di Carlo Dionisotti. Portò questa sua molteplice cultura nella fattura del Manifesto e nel propiziargli i collaboratori, della cui generosità si si è sempre potuto vantare.
Sempre per il Manifesto seguì le grandi questioni della produzione italiana (rimase celebre la sua inchiesta sul problema della casa); ma quello che lo caratterizzò – in anni nei quali alle prese di posizione di fondo sulla politica del paese si accompagnarono spesso dolorose rotture – fu la grande apertura alle idee altrui, una generosità mai spenta, un vero e proprio modo di essere e di pensare che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua attività nel giornalismo. L’aver militato per diversi anni in Puglia con Alfredo Reichlin lo aveva legato per sempre alla questione del Mezzogiorno.

Ma Valentino è stato sopratutto una specie di nume protettore del giornale, chiamato a salvarlo in ogni situazione di emergenza, pronto a lunghe attese per essere ricevuto nelle stanze ministeriali al fine di ottenere le avare sovvenzioni sulle quali il giornale ha potuto fondarsi. Tutti gli incidenti che potevano occorrere a un’impresa avventurosa e senza precedenti come la nostra ebbero in lui un dirigente e un mediatore saggio.

La sua presenza e capacità mancheranno a chi lo ha conosciuto, qualche volta perfino impazientendosi della sua benevola tolleranza per chi non la pensava come lui e come noi. Del gruppo iniziale siamo rimasti molto pochi nel giornale mentre più vasta è stata la seminagione nei rari settori della Sinistra sopravvissuta alla crisi di questi anni.

Anche sotto questo profilo la perdita di Valentino Parlato sarà assai dura. Per non parlare del venir meno della sua amicizia ed affetto per chi, come noi, cerca ancora di stare sulla breccia.

 

2. Loris Campetti: Un signore d’altri tempi

3 maggio 2017

“Queste sono le mie idee – diceva con provocatoria convinzione – ma sono disposto a cambiarle”. Mai scontato, mai banale. Era leale ma odiava la fedeltà (“fedeli sono i cani”), generoso e gentile come un signore d’altri tempi

 

Valentino se n’è andato, l’ha fatto molto in fretta stroncato da un giorno all’altro da una pancreatite. Ne scrivo con difficoltà, tutta la mia vita al manifesto è stata segnata dal rapporto con lui, ironico e autoironico, tanto appassionato quanto concreto e realista persino dentro quel grancaravanserraglio anarcoide e scapestrato che era il quotidiano comunista da lui stesso fondato insieme a Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Luciana Castellina e Lucio Magri. Se Luigi mi ha insegnato a scrivere e Rossana a pensare, da Valentino ho imparato a mantenere sempre un rapporto con la realtà. “Queste sono le mie idee – diceva con provocatoria convinzione – ma sono disposto a cambiarle”. Dalle vicende avverse della vita, quelle che determinano traumi, ha sempre saputo cogliere l’aspetto positivo. Ricordando quando, giovane comunista tripolino, venne espulso dalla Libia sotto il protettorato britannico, disse che quella fu una fortuna, altrimenti magari avrebbe fatto l’avvocaticchio di provincia ad Agrigento. Così come della radiazione del manifesto dal Pci ha sempre conservato un buon ricordo, per lui fu una liberazione più di quanto lo fu per il Pci. Un errore, certo, ma gestito con intelligenza, democrazia e assemblee nelle sezioni, a differenza dei furori rottamatori e delle purghe renziane.

Nato da genitori italiani a Tripoli nel ’31, Valentino ha sempre mantenuto un legame forte con la sua “patria”, dove è tornato ospite di Gheddafi per intervistarlo sotto la sua mitica tenda. Ha voluto pubblicare i racconti letterari del colonnello (“Fuga all’inferno e altre storie”, Edizioni Manifesto) con una sua prefazione, l’ha difeso quando tutti (e tutto) congiuravano contro, con una semplice considerazione: dopo di lui il diluvio. E diluvio fu. Forse aveva ragione, forse non del tutto. Forse esagerava ma l’esagerazione e il nuotare contro corrente – lo schierarsi dalla parte del torto – è una delle virtù che ha salvato Valentino e il manifesto nel corso di tante crisi.Oltre a stare dalla parte del torto per superare le crisi servivano anche molti soldi e a cercarli e trovarli toccava regolarmente a lui. Andava a cercare (quasi) ovunque, non aveva paura di sporcarsi le mani e quando qualcuno di noi giovani comunisti sessantottini con la puzza sotto il naso criticava i rapporti spregiudicati di Valentino con altri mondi, lui alzava le spalle, spiegandoci che i soldi puzzano se per averli rinunci alle tue idee facendoti condizionare dalla loro provenienza, altrimenti semplicemente servono, e servono a una causa importante: primum vivere, deinde philosophari. Né lui ne il manifesto se le sono mai sporcate le mani, per quanto e finché ci è dato ricordare.

Nel Pci lavorava con Amendola, il leader della destra comunista, che ha sempre difeso nonostante le idee di Valentino fossero in consonanza con quelle di Pietro Ingrao. Si è sempre gettato a capofitto nella sfida del manifesto, nato il 28 ottobre del ’71 e preceduto da due anni di rivista mensile che al suo primo numero, dopo l’invasione sovietica di Praga del ‘68, titolava “Praga è sola” determinando così la radiazione del gruppo dal partito. Dopo di che, sempre e solo manifesto che ha diretto per almeno quattro volte. Sempre dalla parte del torto, persino pubblicando un libro con gli indirizzi di tutti i locali romani aperti ai fumatori. Mai scontato, Valentino, mai banale. Era leale ma odiava la fedeltà (“fedeli sono i cani”), era generoso e gentile come un signore d’altri tempi, quando invitava amici e compagni a cena, a fine serata – spesso a notte avanzata – li accompagnava alla macchina. Se a invitarlo eri tu, l’indomani ti telefonava per ringraziarti. Si può essere comunisti e sognare la rivoluzione senza essere cafoni.

Valentino viveva con sofferenza questi ultimi anni, la sua passione politica andava a infrangersi contro la dissoluzione della sinistra e la crisi d’identità del suo giornale. E quel lavoro collettivo che era venuto meno con l’ultima crisi del manifesto e la fuoriuscita del gruppo storico era ciò che gli mancava di più. Dal giornale avrebbe voluto non andarsene, avrebbe voluto vedere quelli della mia generazione, la successiva alla sua, combattere fino all’ultimo respiro per salvare lo spirito originario. Non ci siamo riusciti, forse non ci abbiamo provato abbastanza o più semplicemente ha vinto lo spirito del tempo e noi abbiamo perso. Valentino è persino tornato a scrivere, talvolta, sul nuovo giornale che porta lo stesso nome di quello originale, nella speranza di trovare ancora un lavoro e una passione collettivi. Ma quella storia, la sua storia, la nostra storia, era finita e questo Valentino non ha mai voluto accettarlo. Con l’associazione Manifesto in rete e con questo sito Valentino Parlato ha collaborato fin dall’inizio.

Venerdì 5 alle 14 il feretro di Valentino Parlato sarà esposto nella sala della Protomoteca del municipio di Roma e alle 17 si terrà la cerimonia funebre. Ciao Vale, un amico, un compagno.

 


 

3. Luciana Castellina: Valentino: il giornale sempre, prima di tutto

 

4 maggio 2017

“A lui interessava solo il Manifesto a cui ha dato più di chiunque altro, tutto se stesso. Perché in 45 anni non ha mai abbandonato un momento la sua quotidiana fatica in redazione, non si è mai distratto per un altro impegno o divagazione”

Sono parecchie le foto del manifesto delle origini in cui appare il gruppo fondatore del giornale. Ora che Valentino è scomparso, «vive – mi dice Rossana al telefono accorata – sono rimaste solo le donne, tu ed io. Perché le donne sono più longeve».

Anche Lidia Menapace, che sebbene proveniente da tutt’altra storia politica si unì assai presto alla nostra avventura, corre ancora per l’Italia – a 95 anni – a fare riunioni. Sarà forse un vantaggio del nostro genere, ma non ne sono sicura: per me la morte di Valentino, nonostante i nostri non infrequenti litigi, è un pezzo di morte mia di cui ora, infatti, non riesco a capacitarmi. Si capisce: abbiamo vissuto accanto, per quasi settant’anni, dentro il contesto di una straordinaria vicenda politica, quella dei comunisti italiani. Prima ortodossi, poi critici, poi eretici.

È per via di questa storia che Valentino, quando gli chiedevano se si definiva ancora comunista, rispondeva di sì.

Lo conobbi che aveva poco più di 18 anni ed era appena sbarcato in Italia dalla Libia: re Idriss lo aveva espulso dal paese dove era nato e vissuto, nella grande casa del nonno siciliano che in quel paese era stato colono.

Al liceo di Tripoli, assieme ad un altro gruppetto di ragazzi, era diventato comunista. Grazie a qualche insegnante mandato lì nel dopoguerra. Invano ho cercato di convincere Valentino a scrivere un libro su quegli anni libici, quando un pezzo del terribile conflitto mondiale era passato proprio da quelle campagne. I suoi racconti erano fantastici, pieni di informazioni inedite.

Non l’ha scritto mai, perché così era Valentino: a lui interessava solo questo giornale a cui ha dato più di chiunque altro fra noi, tutto se stesso. Perché in 45 anni non ha mai abbandonato un momento la sua quotidiana fatica in redazione, non si è mai distratto per un altro impegno o divagazione. Anche scrivere un libro gli sembrava una perdita di tempo. E ora che, invecchiato, non era più al timone, soffriva, si sentiva svuotato.

Un aspetto curioso della sua personalità: intelligente con acutezza, ironico e autoironico, spesso addirittura trasgressivo, il tono sempre distaccato, mai un protagonismo, mai un eccesso di schieramento, mai settario, anzi talvolta dispettosamente compiacente verso il pensiero avversario (amava definirsi «amendoliano», e poi aggiungeva «di sinistra»). E però, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettati da uno così, militante a tutto tondo, sempre «al pezzo». Perché la qualità principale di Valentino – che è poi la migliore fra le qualità – era la generosità.

Nel raccontare la sua vita amava ricordare che io gli avevo trovato il primo lavoro della sua vita, per l’appunto quando approdò dalla Libia: un posto di correttore di bozze all’Unità. Ma diventò economista e con queste competenze lavorò con Luciano Barca e Eugenio Peggio alla rivista del Pci Politica ed Economia. Erano gli anni della nascita della Comunità europea, e sarebbe bello ristampare quei suoi articoli che richiamavano l’attenzione su quanto l’unificazione del mercato europeo, senza interventi pubblici correttivi, avrebbe aggravato la questione meridionale. Aveva ragione, anche se la posizione ufficiale del Pci aveva sottovalutato gli aspetti positivi del processo. Purtroppo senza continuare a dare a quella analisi la dovuta rilevanza, quando, negli anni ’60, la linea fu capovolta e si passò ad un europeismo assurdamente acritico.

Le campagne meridionali Valentino le conosceva bene, non solo per via della sua mai spenta sicilianità, ma perché prima che iniziasse la storia de il manifesto, era stato il vice segretario regionale della Puglia, cui era allora a capo Alfredo Reichlin. Furono quei due, scomparsi a così poca distanza di tempo, ad aver conquistato allora una nuova generazione di baresi impegnati nell’università e nelle case editrici – Laterza, De Donato, Dedalo – una grande novità in un partito fino ad allora tanto bracciantile. E però ad avere, ambedue, contemporaneamente sempre ripetuto che proprio da quei braccianti avevano imparato ad essere davvero comunisti.

Mi è difficile scrivere su Valentino, non avrei voluto essere io a commemorarlo anziché lui a commemorare me, come sarebbe stato giusto perché più vecchia di lui. Perché Valentino è stato per me non solo un compagno, ma un fratello. E come sapete non si chiede a una sorella, a poche ore dalla morte, di scrivere sul fratello.

Era così perché dentro il «gruppo» noi avevamo una collocazione simile e in qualche modo diversa: non eravamo giovani come i sessantottini appena arrivati, e però nemmeno anziani come Rossana, o Natoli; non autorevoli come Rossana, Lucio e Luigi, ma tuttavia «dirigenti». Per questo quando c’era qualche missione delicata da svolgere, o qualche fatto intricato su cui scrivere, e nessuno dei «big» voleva farlo, si diceva: «che lo facciano Luciana o Valentino». Per questo ci chiamavano Gianni e Pinotto.

Ho detto fratello. Perché nonostante non fosse affatto saggio Valentino è stato per me, in momenti difficili della vita, un amico saggio, capace di consigliare le cose giuste da fare nella vita. Perché mi voleva bene e gliene volevo molto anche io.

Tanto di più quando penso a questi ultimi tempi inquieti, dominati da tanto pessimismo che tracimava in passività. Lui, pur sempre un po’ scettico, non intendeva rinunciare e continuava a dirmi: dobbiamo fare qualche cosa. E come atto di fiducia, si era persino iscritto a Sinistra Italiana. «Sono tornato ad avere un partito», mi aveva detto.

 


 

4. Enrico Pugliese: Valentino Parlato , comunista, economista, meridionalista

4 maggio 2017 da www.cambia il mondo

Valentino Parlato sarà commemorato oggi degnamente al Campidoglio. E con grande rispetto e affetto di lui, della sua storia, della sua personalità e del carattere del suo impegno hanno scritto in molti non solo sul Manifesto, giornale da lui fondato e per lunghi periodi diretto, ma anche sulla grande stampa ufficiale dal Corriere della sera a Repubblica.

Molti hanno rievocato  la sua vicenda di vita dalla espulsione dalla Libia di Re Idris per volontà degli inglesi perché comunista. Lui che, figlio di funzionario nell’amministrazione della colonia di origine siciliana, in Libia era nato e cresciuto ed aveva compiuto le sue prime esperienze politiche. E alle vicende della Libia egli è rimasto sempre interessato in modo competente e spesso controcorrente.

La sua formazione iniziale in Libia e l’aver trascorso quasi tutta la sua vita dall’arrivo in Italia a Roma non ne hanno mai cancellato i tratti culturali siciliani, soprattutto quelli migliori in particolare la squisita cortesia per altro sottolineata da molti politici e intellettuali che l’hanno conosciuto. E’ difficile dire quanto questa ‘sicilianità’ di Valentino Parlato abbia contato nel suo perenne interesse per i problemi economici e sociali del Mezzogiorno. Ma il senso della questione meridionale  come questione nazionale è stato uno dei capisaldi della sua visone politica.

Naturalmente Valentino era innanzitutto un comunista, senza se e senza ma. Certamente mai del tutto allineato e con una forte originalità di pensiero. Il suo definirsi auto-ironicamente a volte “amendoliano di sinistra” (una sorta di ossimoro per chi ancora  ricorda la forte contrapposizione tra Amendola, la destra, e Ingrao, la sinistra) aveva una sua logica legata alla sua tradizione culturale di riferimento e alla sua conoscenza della realtà socio-economica del Mezzogiorno e dei compagni che vi lavoravano influenzati da Amendola affrontando i temi della economia e della società del Mezzogiorno, dall’intervento pubblico ai colossali cambiamenti sociali a cominciare dall’emigrazione

Valentino si è occupato di molte cose sia  nella organizzazione politica del Manifesto che nel giornale. Ma in alcuni ambiti  il suo ruolo è stato al contempo indispensabile e specifico. Sicuramente Parlato è stato un importante analista della società e della economia italiana. Ed è giusta e convincente l’affermazione di Rossana Rossanda che lo definisce “un economista  nutrito di Settecento” sottolineando l’apertura e la solidità della sua formazione. Valentino non era solo l’economista del Manifesto, ma anche la persona capace di far interloquire il Manifesto con i grandi economisti, non solo di sinistra

Ma soprattutto  è stato uno degli  studiosi del Mezzogiorno più competenti. E la ‘Questione Meridionale’ è stata  una tematica che lo ha visto impegnato a partire dai primi anni successivi all’arrivo in Italia  con la collaborazione a riviste del (o vicine al) Partito Comunista come Cronache Meridionali, una rivista che il Partito promuoveva a Napoli, ricca di inchieste sui contadini,  i braccianti  e il popolo meridionale in generale. Il popolo, appunto: parola che ora ci fa drizzare i capelli in testa ma che all’epoca intendeva  sottolineare la possibile unità e gli interessi comuni di strati  sociali frammentati in un’ottica gramsciana. Non a caso ancora in anni lontani Valentino – insieme a Franco De Felice – curava e introduceva per gli Editori Riuniti il Gramsci della Questione meridionale.

Ma nell’approccio di Valentino al Mezzogiorno, sempre attento ed aggiornato, c’era qualcosa di più: c’era l’adesione ai valori e allo stile della intera tradizione meridionalista: quella basata al contempo su di una analisi concreta della realtà economica e sociale del Mezzogiorno e su di una forma di indignazione per lo stato di cose esistenti. Non erano solo i temi gramsciani a interessarlo ma molti spunti della tradizione meridionalista, dall’anti-protezionismo e anti-colonialismo di Napoleone Colaianni alle esigenze democratica e partecipativa espressa dall’autonomismo di Cattaneo. Tematiche, insomma di una cultura antica, che Valentino ha posseduto e ha cercato di non far disperdere, argomenti ‘inattuali’ che hanno continuato a interessarlo sempre.  In questo come in altro il suo rapporto con gli interlocutori esprimeva sempre una curiosità benevola e senza pregiudizi.

Uno dei suoi contributi principali è stato appunto quello di portare queste tematiche nella cultura del Manifesto e della nuova sinistra. Devo dire anche con successo.  E ora che il Mezzogiorno vive una crisi terribile dal punto di vista economico e occupazionale – ma anche culturale – ci si può rendere conto di quali danni abbia determinato la disattenzione per la questione del Mezzogiorno nella politica e nella società italiana.

Perciò vale la pena anche di riandare a quei lavori di scavo e di denuncia come “industrializzazione e sottosviluppo” scritto insieme a Santo Mazzarino e Eugenio Peggio che analizzava le carenze e le deviazioni dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno e che rese celebre l’immagine delle “cattedrali nel deserto”. Ma anche ai suoi scritti più recenti. Per questa sua competenza alcuni anni addietro venne anche invitato dall’Università di Napoli (Federico II) a tenere come ‘Professore a contratto’ un corso su ‘La questione meridionale’. stimolando grande interesse tra gli studenti.

Per concludere vorrei specificare che  qui mi sono soffermato su di alcune delle dimensioni della figura culturale e politica di Valentino Parlato, ancorché centrali. Non ho sottolineato infatti alcune capacità fondamentali quale quella di aver saputo guidare la nave del Manifesto, spesso in acque procellose, grazie a una sua particolare capacità di mediazione consistente  nel tener conto del punto di vista e delle esigenze dell’interlocutore. E questo, insieme alla sua naturale cortesia, lo ha fatto anche apprezzare – lui comunista senza se e senza ma – da molte personalità di rilievo di altro orientamento politico.


 

5. Guglielmo Ragozzino: Un regalo per Valentino

4 maggio 2017

“Valentino amava con passione perfino smodata il manifesto, ma il manifesto era molto più riservato, sulle sue. In una sola occasione ci siamo lasciati andare, abbiamo restituito qualcosa al suo amore sconfinato; è stato in occasione del suo settantesimo compleanno”

Valentino amava con passione perfino smodata il manifesto, ma il manifesto era molto più riservato, sulle sue. Di certo alcuni – alcune – gli volevano un gran bene, ma era un bene personale, di questo o di quella, mai o quasi mai un sentimento collettivo. Come sopportare un uomo così disordinato e imprevedibile, poco puntuale e sempre smodato nel bere e nel fumare? Per anni e per decenni molte generazioni di manifestini hanno preferito astenersi. No, Vale non era il capo del nostro partito comunista o partito-manifesto tout-court; piuttosto un fratello che il più delle volte sbaglia o pasticcia. In una sola occasione ci siamo lasciati andare, abbiamo restituito qualcosa al suo amore sconfinato, gli abbiamo fatto un regalo che veniva dal nostro cuore; è stato in occasione del suo settantesimo compleanno. Per una volta abbiamo pensato che era davvero il nostro capo; di noi che chi più chi meno eravamo comunisti e gli abbiamo fatto il dono che si meritava o forse l’omaggio esagerato che spettava al numero uno. Gli abbiamo regalato quello che noi – povera gente – avevamo e quello che lui amava soprattutto: gli abbiamo regalato un giornale: un manifesto che parlava solo di lui.

Il manifesto, giornale di chiacchieroni e chiacchierone, fatto di personaggi che avrebbero venduto la primogenitura e anche altro per la notizia e l’esclusiva, si trasformò in un convento di clausura. La consegna era quella del silenzio. Vale non doveva saperne niente del manifesto –Valentino che si stava costruendo. Insieme al giornale normale se ne fece così un secondo, segreto – scritto, composto, attrezzato di pubblicità, interviste, vignetta, servizi esteri –che aveva Valentino come tema unico. Si scomodarono perfino i capitalisti e i banchieri che lo conoscevano per ottenere anche da essi – nel riserbo totale – un contributo di affetto o di amicizia. La raccolta dei testi dai nemici di classe, come non si usava dire quasi più (Valentino non diceva così, se non per prenderci in giro) fu il massimo segno di bravura da parte di direttori e capi redazione che in quelle poche ore smisero di litigare e seppero raccogliere i pezzi, coordinare il giornale speciale e presentarlo il sette febbraio 2001 al nostro amato settantenne. Tutto funzionò alla perfezione, una volta tanto. Il festeggiato ringraziò molto, ma visibilmente era seccato.

Non gli sembrava vero, non gli sembrava giusto perdere tanto tempo e tanti soldi, quando c’era ben altro da fare e da capire. Poi, siccome si adattava all’esistente, se ne fece una ragione: lesse tutto e si divertì anche un po’. Gli piacque soprattutto l’editoriale di Luigi Pintor che in trenta righe scarse riusciva a parlare con molto affetto non solo del suo amico di una vita, ma anche di Giaime, un ragazzo che considerava Alice nel paese delle meraviglie il migliore dei libri. Io però ho sempre “preferito Pinocchio” aggiungeva Luigi, pensando forse di far cosa gradita a Valentino.

 

 

6. Vincenzo Comito: Un ricordo di Valentino

 

4 maggio 2017

Sono stati intellettuali e politici come Valentino Parlato ad avere portato avanti per diversi decenni, e pur tra mille difficoltà, un’idea di cambiamento radicale della società

 

Non posso dire di aver conosciuto molto bene Valentino Parlato, ma lo ho comunque incontrato diverse volte nel corso di alcuni decenni. Non ricordo chi me lo aveva presentato, forse Eugenio Peggio. La situazione economica e finanziaria de Il Manifesto è stata, come è noto, sempre abbastanza precaria e le prime volte che egli ha chiesto di vedermi era per domandami una valutazione della situazione finanziaria del giornale e per chiedermi cosa, secondo me, si poteva fare.

In un’occasione in cui i conti erano particolarmente critici, gli suggerii, tra l’altro, di vendere l’immobile di proprietà, cosa che poi mi sembra fecero, non so se solo per il mio suggerimento o anche per quelli di qualcun altro, come appare plausibile. Ma naturalmente, dopo un periodo in cui le cose migliorarono, ritornarono poi le difficoltà.

Sui perché della eterna precarietà economica del giornale si può fare riferimento da una parte alla mancanza quasi totale di pubblicità da parte del mondo delle imprese (tra l’altro, la Confindustria aveva fatto girare la parola d’ordine “niente soldi al Manifesto”), ma dall’altra, plausibilmente, anche alla decisione politica di mantenere al lavoro nel giornale molte più persone di quanto fosse necessario. Si può, a questo proposito, ricordare che anche le difficoltà dell’Unità, secondo quanto immagino, erano dovute alla decisione sempre politica di coprire tutto il territorio nazionale con la distribuzione quotidiana, ciò che comportava costi altissimi, oltre che quella di mantenere redazioni troppo allargate rispetto alle risorse disponibili. Ma comunque le casse del partito avevano una ben altra capienza di quelle del Manifesto.

Più in generale, quello del rapporto tra la sinistra e i conti è quasi sempre stato un problema non risolto (le ragioni storiche sono evidenti, anche se esse non assolvono del tutto dalle colpe), come, se vogliamo, è apparso chiaramente anche nell’ultimo periodo con l’andata al governo di diversi governi orientati a sinistra in America Latina. Certo, esso non era peraltro l’unico problema e forse neanche quello più importante, sia nel caso dell’Italia che del continente sudamericano, ma esso condizionava e condiziona tuttora in maniera rilevante la situazione.

Già Luigi XIV diceva l’intendance suivra, ma questa parola d’ordine non funzionò neanche ai suoi tempi e il Re Sole, anche per mancanza di denaro, nella seconda parte della sua vita perse pressoché tutte le guerre.

La necessità di soldi spinge poi anche ad atti in qualche modo imbarazzanti e si sa che Parlato raccolse delle risorse anche da qualche fonte bancaria su cui si potrebbe forse discutere (si trattava di un istituto che dava soldi ai rappresentati di tutte le forze in senso largo politiche), ma è importante ricordare, d’altro canto, che il giornale non si fece molto condizionare da tali finanziamenti.

Forse diversi anni dopo i nostri peraltro brevi incontri sul tema dei consigli finanziari, sempre su sua richiesta cercai di aiutare il giornale questa volta nella ricerca di un po’ di risorse pubblicitarie, che scarseggiavano come sempre; così in particolare presentai Valentino Parlato all’allora presidente di Unipol, Cinzio Zambelli, un uomo buono; qualcosa da quella parte mi sembra che sia poi arrivato nel corso del tempo. Ma certo non è con la pubblicità che il giornale si regge ancora oggi.

Ricordo anche che di nuovo l’Unità non era messa molto meglio su questo fronte e per lunghi periodi sulle sue pagine apparivano quasi soltanto la pubblicità di una cooperativa di Reggio Emilia ora fallita e quella di una piccola azienda di abbigliamento, anch’essa poi sostanzialmente liquidata. Ma l’assenza di finanziamenti da parte degli “imprenditori” non è certo motivo di vergogna, anzi.

I due episodi sopra ricordati confermano pienamente quanto si è letto in questi giorni sul ruolo di Valentino nel giornale, che era appunto anche quello della persona che affrontava e risolveva i problemi delle emergenze finanziarie e di altro tipo. Probabilmente egli era il più qualificato per farlo, avendo una certa competenza economica; una volta, discutendo con lui, mi sono accorto che conosceva in una certa misura anche diverse questioni economico-aziendali, cosa molto rara per un politico e un giornalista di sinistra, avendo tra l’altro egli lavorato per qualche tempo, se ricordo bene, in una società internazionale di progettazione ed engineering.

In un’altra occasione, infine, probabilmente in occasione dell’ennesima ristrutturazione interna, mi chiese di entrare a far parte del consiglio di amministrazione del quotidiano. Ne parlammo alcune volte nel corso di qualche settimana; il mio nome gli era stato anche suggerito da un qualche personaggio della finanza milanese con cui manteneva rapporti abbastanza assidui e che conoscevo anch’io; egli stesso sembrava comunque molto convinto della scelta. Ma, stranamente, ad un certo punto egli sparì dalla mia vista e non mi parlò più della questione. Forse, avendoci il gruppo dirigente del giornale ripensato, era molto imbarazzato a dirmelo. O forse, allora come adesso, i rapporti interpersonali sono in genere a sinistra spesso piuttosto bruschi.

Comunque da allora non ci siamo, che io ricordi, più incontrati. Avendolo incrociato di recente alcune volte per strada o in qualche convegno non mi ha più riconosciuto ed io non ho osato disturbarlo.

Un errore che gli si può forse rimproverare per quanto riguarda le questioni finanziarie è la sua ammirazione per Cuccia, ammirazione che egli del resto condivideva con molti esponenti del partito, che in generale poi guardavano positivamente anche all’operato di un personaggio come Guido Carli. C’era, più in generale, a sinistra quasi una riverenza verso i protagonisti della finanza del nostro paese, cosa per me già allora discutibile.

Si trattava in realtà, con Cuccia e Carli, di due personaggi che, a mio parere, hanno contribuito in qualche modo, nel loro ambito, nel fare dell’economia italiana la cattiva cosa che oggi in buona parte essa è.

Così ad esempio Cuccia, con tutta la sua intelligenza e la sua cultura, ha portato avanti l’opera di salvare le grandi famiglie del capitalismo italiano, invece di aiutare a far crescere le imprese nel loro livello tecnologico e organizzativo, nonché nella conquista dei mercati mondiali. I risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti.

Una volta Parlato mi sorprese con il giudizio che egli dava della figura di Sindona, giudizio che io accettavo con qualche riserva, ma che appariva di rilevante interesse. Secondo lui, il caso del banchiere siciliano era quello di una grande mente della finanza che era stata spinta verso il mondo del crimine dal fatto che l’establishment finanziario italiano, in effetti molto chiuso ed esclusivo, lo aveva totalmente respinto.

Questo è tutto quello che posso dire sui miei incontri con Valentino e sui suoi rapporti a me noti con il mondo della finanza.

Da tali incontri mi è comunque rimasto il ricordo di un uomo intelligente, molto equilibrato, aperto al dialogo e curioso di tutto, pur nella saldezza delle sue convinzioni; si tratta peraltro di caratteristiche già ricordate in questi giorni da molti commentatori che lo hanno conosciuto meglio di me.

Su di un piano più politico, va soprattutto ricordato che persone come lui e come tutto il gruppo storico del Manifesto hanno fatto parte di una vasta schiera di intellettuali e politici che hanno portato avanti per diversi decenni, pur tra mille difficoltà, un’idea di cambiamento radicale della società; purtroppo forse non sono riusciti a trasmettere tale idea in maniera diffusa, non certo per colpa loro ma per i limiti oggettivi della situazione, alle generazioni successive. Oggi ci troviamo così di fronte ad una crisi grave della sinistra, che, tra l’altro, pur in una situazione che sarebbe per molti versi favorevole, non riesce a decifrare correttamente i codici del nuovo che avanza, mentre le persone come Valentino Parlato che potrebbero aiutare a farlo sono piuttosto rare, almeno da noi.

 

 

Category: Editoriali, Politica

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