E’ morto Tullio De Mauro. Ha affermato : La scuola di Renzi è un passo nel vuoto

| 5 Gennaio 2017 | Comments (0)

 

 

1. Francesco Erbani da La Repubblica del 5 gennaio 2017

Aveva 84 anni, ha introdotto in Italia gli studi linguistici. Era stato ministro dell’Istruzione dal 2000 al 2001. Tra le sue opere più importanti la “Storia linguistica dell’Italia unita” e “Il grande dizionario italiano dell’uso”. Mattarella: “Un lutto che colpisce tutta l’Italia”

È morto Tullio De Mauro. Linguista, docente universitario, saggista, aveva 84 anni. Attraverso la lingua De Mauro guardava alla cultura delle persone e alle persone in senso lato. De Mauro ha introdotto in Italia gli studi linguistici, ne ha fatto una disciplina a sé, emancipandola dalla glottologia e dalla storia di una lingua. Ha ricostruito il testo fondativo della linguistica moderna, il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussurre – era il 1967 – prima disponibile solo in una versione indiretta. Ma l’indagine sulla lingua lo ha indirizzato verso i parlanti. Sono loro l’oggetto di un impegno durato oltre cinquant’anni (De Mauro era nato a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, nel 1932 e si era laureato a Roma nel 1956, con Antonino Pagliaro).
Un impegno condotto in diverse forme, come docente universitario, come ricercatore instancabile, accurato, sempre ancorato ai precetti della verifica, del dato certo, e poi come politico e come ministro della Pubblica istruzione nel governo presieduto da Giuliano Amato, dal 2000 al 2001. Un impegno condensato in una vastissima bibliografia. E in una scuola che in Italia e altrove ha formato generazioni di studiosi.

 

I suoi contributi linguistici sono insostituibili. Sia quelli più specialistici, sia quelli che si allargano su orizzonti più ampi. La Storia linguistica dell’Italia unita uscita da Laterza in occasione del centenario dell’Unità, nel 1961, (più volte ripubblicata, fino al prolungamento della Storia linguistica dell’Italia repubblicana del 2014, sempre Laterza) non è una storia della lingua italiana, è una storia degli italiani e della lingua che essi parlano, la storia di come siano diventati progressivamente padroni di una lingua comune, da analfabeti che in gran parte erano. È la storia sociale, demografica e culturale di una comunità, del rapporto fra città e campagna, fra città piccole e città grandi, di come l’emigrazione interna sia stato un gigantesco fattore di consolidamento del tessuto unitario, linguistico e non solo, e di come, anche procedendo al galoppo, il Paese abbia trascinato forme vecchie e nuove di arretratezza.

Non era certo un’arretratezza, agli occhi di De Mauro, la persistenza del dialetto. Che anzi, come seconda lingua – lingua dell’espressività, dell’affettività – rappresentava un arricchimento della capacità comunicativa. Guai a pronunciare con De Mauro la formuletta, lamentosa o all’opposto orgogliosa, sulla “morte dei dialetti”: era sempre lì con i suoi dati a dimostrare che i dialetti non erano per niente morti, bastava avvicinarsi al bancone di un bar di Napoli o di Venezia per essere, raccontava, “inondati da un fiotto di parlata locale”.

 

No, l’arretratezza era un’altra. E a lui, studioso della cultura diffusa, affezionato al significato largo della parola cultura, non poteva sfuggire che l’arretratezza italiana risiedeva nella perdita progressiva di competenze reali una volta lasciata la scuola. Una cosa, insisteva, sono le competenze formali, quelle assicurate da un titolo di studio – e in questo campo gli italiani avevano compiuto passi da gigante, anche se il numero dei laureati continuava e continua a inchiodarci nei bassifondi delle classifiche internazionali. Quel che lo preoccupava era quale grado di consapevolezza complessiva, linguistica e non solo, avessero gli italiani una volta lasciata la formazione scolastica. E anche qui, poche chiacchiere e molti dati: a parte l’analfabetismo in senso stretto, quello di chi non riconosce che a un segno grafico corrispondano lettere e parole, soltanto fra il 20 e il 30 per cento degli italiani (ma col passare degli anni ci si avvicinava di più al 20) era in grado di dimostrare, attraverso piccoli test linguistici e matematici, di sapersi orientare nel mondo, di capire effettivamente che cosa legge e di saper compiere un’elementare operazione aritmetica.

Il problema non era nella scuola o non era tanto nella scuola, insisteva De Mauro, che la scuola conosceva bene, in ogni ordine e grado. E che ha sempre difeso, forte di una devozione nell’insegnamento di Lorenzo Milani. Ma in quel che c’era fuori e dopo la scuola. Nelle famiglie dove non c’è un libro, per esempio. Era di questo che De Mauro si occupava in prevalenza, non di grammatica o di sintassi, ma della lingua come un sistema di norme il cui possesso – ancora don Milani – rendeva uguali. Aggiungendo lo sconforto per quanto poco le classi dirigenti italiane, politiche, economiche, intellettuali, si misurassero con queste forme di arretratezza o soltanto le conoscessero.

Tra i tanti messaggi di cordoglio del mondo politico e culturale, quello del presidente della Repubblica. Sergio Mattarella parla di “un lutto che colpisce tutta la nostra comunità” perché “De Mauro è stato un intellettuale appassionato, un fine studioso, un italiano che non ha esitato, quando gli è stato richiesto, a mettere la propria esperienza e le proprie capacità a servizio delle istituzioni della Repubblica”. “La sua testimonianza resterà nel Paese, nella società, nelle università, come una spinta all’impegno e come un rafforzativo del valore educativo della scuola, così decisivo per il nostro futuro”, conclude il capo dello Stato.

La camera ardente di Tullio De Mauro sarà allestita venerdì 6 gennaio a Roma presso l’Aula 1 di Lettere della Sapienza dalle 11 alle 18. Sabato 7 gennaio alle 10.30, sempre nell’Aula 1 di Lettere, si terrà la commemorazione pubblica.

 

 

2. L’ultima intervista di Tullio de Mauro rilasciata a Panorama. 

 

Si abusa delle parole? «Si abusa spesso, ma è impossibile sanzionare l’abuso di parola». E’ la parola “scuola” la nostra parola abusata? «L’abuso è largo, ampio». Matteo Renzi abusa della parola scuola come abusa dell’inglese? «Il primo abuso è la parola riforma. Ormai si usa per il più banale provvedimento». Le piace la “Buona scuola” del governo? «Mi sembra vaga. Quali risorse? Quali tempi? Ho l’impressione che sia un passo nel vuoto». Nel suo appartamento romano, anzi romanesco, direbbe lo storico che ha nobilitato sillabe e dialetti, Tullio De Mauro sorveglia gli innesti dell’idioma, i guasti della lingua che ha contribuito a elevare a scienza sfidando perfino le raccomandazioni del patriota Niccolò Tommaseo che considerava la linguistica la disciplina dei barbari. «Sono e rimango un linguista». Ministro per responsabilità? «In realtà da un bottone ho fatto un cappotto». De Mauro è il più integro dei ministri restituitoci da Trastevere, un ministero che ha flagellato carriere di storici, rettori, politici, il vero cimitero delle buone intenzioni italiane. E infatti il professore, restituito al diletto e al divagare, è un indulgente uomo di lettere di 82 anni vestito come un preside tutto sintassi e disciplina, un brevilineo che si controlla a tavola, tradito da orecchie alate che gli tolgono severità accademica.

Si possono assumere 148 mila precari in un anno? «No, è fuori dalla realtà per ragioni finanziarie. Non si sa dove possano essere recuperati nel bilancio del 2015».  Tullio De Mauro

Renzi riuscirà a riformare la scuola? «C’è sicuramente più comprensione rispetto al passato, ma si deve capire dove e come riformare. Antonio Ruberti, ex ministro della Pubblica Istruzione, usava la formula “suscitare attese”, annunciare cose che non si possono realizzare. Ho questa stessa impressione leggendo la “Buona Scuola”. Sono buoni annunci, ma vengono ignorati i meccanismi di realizzazione». Si possono assumere 148 mila precari in un anno? «No, è fuori dalla realtà per ragioni finanziarie. Non si sa dove possano essere recuperati nel bilancio del 2015».

De Mauro si protegge dalla conversazione inutile resistendo al telefonino che si ostina a non acquistare e dice che così tesaurizzi tempo, «se lo avessi le sollecitazioni alla conversazione sarebbero tante», un capitale munifico di ore che rendiconta e spartisce, insomma esaurisce. Ed esaurimento è la parola che utilizza la scuola per indicare i supplenti che sono appunto a (rischio) esaurimento, da ex haurire: dissolti, consumati e dissipati. È giusto assumere in blocco i precari delle graduatorie ad esaurimento? «Anche questo aspetto mi sembra discutibile. Si dice: assumiamo tutti. In realtà, molti precari sono bravi, molti no. Hanno insegnato con mille difficoltà. E’ stato impossibile per loro aggiornarsi». Si possono lasciare fuori gli insegnanti che si sono abilitati negli ultimi anni e gli idonei dell’ultimo concorso? «Comprendo le loro proteste. Hanno ragione. Sono i sopravvissuti che vengono così lasciati ancora nell’indeterminatezza. Servivano concorsi con cadenza biennale, come del resto era previsto dalla legge». Basta un riconoscimento di 60 euro per motivare i nostri professori? «Da ministro feci avere un aumento di 100 euro. L’Ocse dice che c’è una relazione tra retribuzione economica e produttività. Il deprezzamento finanziario attrae solo santi missionari». La convince il sistema di valutazione degli insegnanti? «Mi lascia perplesso così come la parte che riguarda i presidi».

La biografia di De Mauro, che ha accettato di pubblicare per il Mulino, forno nazionale di idee, è un esempio di scrittura parca dal titolo gozzaniano Parole di giorni un po’ meno lontani, un incrocio di vocali e atenei, la vita piena e militante dello studioso di sinistra. La sinistra ha rallentato l’evoluzione della scuola? «La sinistra è stata riottosa di fronte allo sviluppo della scuola. Ha dominato l’idea paritaria, promossa dai sindacati, che i dipendenti pubblici siano tutti uguali. Anche uno studioso vicino al Pci come Concetto Marchesi non voleva l’innalzamento dell’obbligo scolastico».

L’inglese della “Buona scuola” sarà sempre quello di Nando Mericoni, americano che parla come i sonetti del Belli? «Nel piano del governo si dice che bisogna studiare più lingue straniere, ma gli insegnanti alle elementari non ci sono. Manca la competenza. Si è provato a formare docenti d’inglese con 50 ore, purtroppo non è così che si impara a insegnare». L’inglese di Renzi è l’ultima polverosità della politica? «Utilizzato in quel modo è inutile, ma ci fa sentire più sicuri, ci veste di internazionalità a buon mercato. Non è altro che il latino usato dall’Azzeccagarbugli con Renzo. Chi sa parlare davvero l’inglese ha imbarazzo a parlarlo».

L’inglese di Renzi è l’ultima polverosità della politica? «Utilizzato in quel modo è inutile, ma ci fa sentire più sicuri, ci veste di internazionalità a buon mercato. Non è altro che il latino usato dall’Azzeccagarbugli con Renzo. Chi sa parlare davvero l’inglese ha imbarazzo a parlarlo». Tullio De Mauro

Nella “Buona scuola”, che De Mauro ha letto, c’è il diluvio dell’inglese, l’alluvione dello slang manageriale: comfort zoneproblem solvingdesign challenge, digital divide, gamification, nudging, digital makers, hackathon, la nuova antilingua che imbroglia ma non spiega. I neologismi illuminano o oscurano? «Credo che il nostro premier ricorra ai neologismi perché gli mancano le parole o non vuole usare le parole giuste». È la supplentite la sciagura della scuola? «La sciagura non sono i supplenti, ma i vecchi programmi, l’aggiornamento, i bassi stipendi, la confusione amministrativa».

E deve essere proprio il disordine l’avversario di De Mauro. La sua casa rispetta la grammatica dell’uomo di tempra solida, la rigidità morale dei filosofi campani, l’etica di Croce e l’empirismo di Vico. E c’è la stessa essenzialità nelle sovrane maniere, nell’arredamento delle sue stanze che divide con la moglie anch’essa studiosa della lingua, nella libreria che è una composizione immune da bizzarrie che invece di riempirsi si svuota di libri, «li dono. Gli ultimi che ho regalato sono testi dialettali».

Perché la scuola è irriformabile? «Non si è mai riuscita a riformare perché la classe politica, imprenditoriale ha sempre nutrito una diffidenza verso l’istruzione. Queste classi non amano la crescita del livello d’istruzione. Norvegia e Finlandia erano paesi poveri ma hanno puntato sull’istruzione a partire dalla bellezza degli edifici. Qui gli unici edifici di valore sono quelli di Reggio Emilia e Ferrara». Non sono le stesse parole di Renzi? «Giuseppe Bottai che era un razzista, ma un grande ministro, per i primi sei mesi preferì ispezionare le scuole senza nessun preavviso. Questo significa andare a vedere seriamente le scuole». Il primo giorno di scuola con i ministri è stato solo passerella? «No. E anche se fosse, meglio questa passerella che Porta a Porta». Le riforme si condividono? «In Francia è stata fatta una consultazione sulla scuola, ma vennero prima formulate le domande. È stato un metodo serio. La consultazione di Renzi non mi sembra seria». Detesta la velocità? «La politica deve essere veloce, ma la velocità è diversa dalla fretta. C’è la voglia di accelerare di affrettarsi per poter spendere eventualmente questi provvedimenti in una competizione elettorale». Ha smesso di insegnare? «Da quattro anni». Le manca? «Mi manca e tornerei. Negli Usa non c’è un limite di età. Tuttavia è giusto lasciare il passo». È un parruccone, un “professionista della tartina” come dice il premier? «Mi sembra aria fritta questa polemica». Si stanca a volte di leggere? «Di leggere no, di leggere scemenze sì. Per i buoni libri ho ancora tempo».

 

 

 

Category: Editoriali, Libri e librerie

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