Mariana Mazzucato: L’Italia può ripartire solo con investimenti e innovazione

| 2 Ottobre 2014 | Comments (0)

 

 

 

  • Diffondiamo l’intervista fatta da Wired (Alessio Jacona) il 2 ottobre 2014 all’economista italiana autrice di “Lo Stato Innovatore” prima del convegno a Capri  “Between 2014”

Mariana Maz­zu­cato è docente di Scienza e tec­no­lo­gia all’Università del Sus­sex e autrice de “Lo stato innovatore”. L’economista parlerà domani in Italia  sul palco di Capri-Between 2014, dove interverrà di fronte a rappresentanti delle istituzioni  e a principali attori del mercato TLC italiano per chiedere loro “di impegnarsi a costruire insieme un ecosistema dell’innovazione”.

“L’innovazione non richiede solo grandi idee, ma anche la capacità di sostenerle dall’inizio alla fine”. È quindi necessario, anzi è persino urgente (perché in Italia non è ancora troppo tardi) che settore pubblico e privato collaborino gomito a gomito per “costruire un ecosistema dell’innovazione credibile”

In una lunga intervista, ci spiega quali mali affliggono l’Italia, quali sono le possibili cure, da chi prendere esempio e cosa si cela veramente dietro il successo di ecosistemi dell’innovazione come la Silicon Valley.

 

D. L’economia italiana vista dall’estero: qual è lo stato dell’arte?

“L’Italia accusa il fatto che negli ultimi 20 anni sono mancati gli investimenti in tutte quelle aree chiave che portano produttività, e quindi crescita: la formazione del capitale umano insieme con la ricerca e sviluppo. Quindi i problemi risalgono a prima dell’euro e dell’ultima crisi. Illudersi che tutto ciò di cui abbiamo bisogno sia liberare il business dalla burocrazia e dall’alta pressione fiscale è un’illusione, che non farà che prolungare due decenni di inerzia del paese. Le aziende italiane investono in ricerca e sviluppo in media molto meno che il resto della Comunità europea e, se da un lato lo stato sembra sprecare grandi quantità di denaro, dall’altro non investe abbastanza in scuola, ricerca, formazione e tutte quelle istituzioni orizzontali necessarie a costruire un ecosistema favorevole all’innovazione. Anche con un deficit modesto (pari al 3, 4 per cento prima della crisi, e ora inferiore), il rapporto tra Debito pubblico e PIL continuerà a crescere fintanto che il denominatore cresce a zero. E la cosa non cambierà fin quando non porremo rimedio alla mancanza di investimenti tanto pubblici quanto privati”.

 

D. Che cos’è l’innovazione dal suo punto di vista?

“L’innovazione è il risultato di investimenti pubblici e privati in aree che creano nuovi prodotti e servizi, oppure nuovi mercati per prodotti e servizi già esistenti. Spesso è di natura tecnologica, ma può anche riguardare i processi organizzativi. Non è casuale, ma il risultato di finanziamenti e investimenti a lungo termine. Un processo collettivo, dove alcuni attori sono più importanti degli altri in fasi specifiche. Per fare un esempio, il venture capital entra in gioco solo dopo che una finanza più “paziente” e impegnata sul lungo termine abbia spianato la strada. Spesso questa finanza paziente viene istituzione del settore pubblico “mission-oriented”, come avviene negli Stati Uniti nel caso della Darpa e della NIH (National Institutes of Health), o ancora in Cina con la China Development Bank”.

 

D. Quale potrebbe e dovrebbe essere il ruolo dell’innovazione per far ripartire la crescita in Italia?

“L’innovazione non richiede solo grandi idee, ma anche la capacità di sostenerle dall’inizio alla fine. L’Italia non dovrebbe solo aumentare gli investimenti che già fa nel settore pubblico e privato, ma dovrebbe anche costruire un ecosistema dell’innovazione credibile con istituzioni come Fraunhofer Institute, che sostiene e favorisce il legame tra scienza e industria. La lezione che possiamo imparare dalla Silicon valley è che gli investimenti pubblici sono stati importanti a partire dalla ricerca fino alla commercializzazione, perché hanno finanziato la ricerca di base, la ricerca applicata e sostenuto le aziende con “early stage seed financing”. E a dire il vero, il fondo di venture capital gestito dalla CIA, (così come lo Small Business Innovation Research Programme – SBIR), ha finanziato più piccole aziende ad altro tasso di crescita e innovazione di quanto abbia fatto il venture capital privato.

 

D. Siamo ancora in tempo per creare un’ecosistema dell’innovazione in Italia?

“Se c’è la volontà, allora tutto è possibile. Ma non bastano finanziamenti a pioggia per risolvere il problema. E’ invece fondamentale attrarre competenze dentro il Governo italiano, e io ho grossi problemi per il modo in cui in Italia si parla di quest’ultimo: nonostante tutte le colpe che possa avere, la questione è riformarlo dall’interno, e non semplicemente ridurne le dimensioni. Troppe critiche feroci rendono rendo indesiderabile lavorare per il Governo, mentre si ritiene molto più “sexy” lavorare per Goldman Sachs o Google. Anche in questo caso, quello che possiamo imparare da Stati Uniti, Cina e Brasile è l’importanza delle agenzie governative che sono in grado di attrarre leader di talento a dirigere i loro investimenti: da Steven Chu, vincitore del premo nobel per la Fisica che ha diretto il Department of Energy (e che ha creato l’ARPA-E affinché facesse per le energie rinnovabili ciò che l’ARPA ha fatto per internet), fino a Luciano Coutinho, che ha diretto il Banco Nacional Do Desenvolvimento (BNDES) brasiliano. Entrambi sono esempi di esperti di grande talento che costruiscono team dinamici per guidare il processo di innovazione”

 

D. Molti decisori in Italia credono che la Silicon Valley sia un modello che dovremmo replicare o importare. E’ l’approccio giusto? Ed è davvero possibile?

“In parte ho già risposto, ma c’è anche altro da dire. Nel mio libro racconto la storia dell’iPhone, dove ogni tecnologia che rende quel telefono “smart” è stata finanziata dal settore pubblico: da internet al gps, al display touchscreen, fino all’assistente personale SIRI. Certo, è stato essenziale che un genio come Steve Jobs abbia preso quelle grandi tecnologie e le abbia messe insieme con il suo straordinario senso del design e della semplicità. Tuttavia,  far finta che in Europa manchino personalità come Jobs, senza poi ammettere che a mancare davvero sono le grandi ondate di finanziamenti mirati alle nuove tecnologie di cui Jobs e Gates hanno pienamente approfittato, corrisponde a danneggiare il futuro dell’innovazione nella regione. Così come lo è fingere che manchino i finanziamenti per l’innovazione: ciò che manca veramente non è la finanza, ma quel particolare tipo di finanza paziente e impegnata a lungo termine che i fondi pubblici hanno garantito negli Stati Uniti e che ora garantiscono in Cina”.

 

D. Ci sono in Europa nazioni che possiamo prendere a modello? E fuori dall’Europa? Per esempio Israele?

“Le nazioni più interessanti sono quelle in cui ministeri delle Finanze e quelli dell’Industria e Innovazione lavorano realmente a stretto contatto. Un ministro non può mettere in pratica politiche dell’innovazione se poi ne ha un altro che gli lavora contro. Un po’ come avviene con la Commissione europea oggi, dove in teoria abbiamo 80 miliardi di euro da investire in innovazione entro il 2020, ma allo stesso tempo il Directorate General for Economic and Financial Affairs costringe nazioni come la Spagna a tagliare del 40 per cento i fondi pubblici destinati a ricerca sviluppo. Trovo interessanti le linee di condotta di Germania, Danimarca e Brasile. Così come trovo interessante vedere nazioni come Israele che non solo finanziano l’innovazione, ma consentono anche al settore pubblico di guadagnarci qualcosa in cambio. Non solo Grant ma anche equity. Questo ovviamente è cruciale per assicurarsi che la crescita guidata dall’innovazione sia anche una crescita inclusiva. Altrimenti ci ritroviamo delle dinamiche disfunzionali dove sono solo i rischi ad essere sostenuti da tutti, mentre lo stesso non avviene per i guadagni. Sotto Eisenhower l’aliquota marginale era vicina al 90 per cento; questo non ha danneggiato l’innovazione perché essa è guidata dalla percezione di dove sono le opportunità. E queste opportunità sono fortemente correlate con gli investimenti pubblici “mission oriented”. Persino Warren Buffet ha ammesso di recente che una “high capital gains tax” (pari al 40% prima che scendesse sotto il 20% grazie all’azione di lobbying della National Venture Capital Association) non ha mai ostacolato i suoi investimenti”.

 

D. Il governo italiano sta lavorando nella giusta direzione?

“Credo che ci sia grande speranza in Italia. Ma la discussione deve cambiare drasticamente: bisogna smettere di far finta che il problema sia solo “agevolare” il settore privato riducendo la regolamentazione e le tasse e discutere del fatto che sia il settore privato sia il pubblico sono chiamati a co-investire nel difficile processo di innovazione. Ci sono molte critiche feroci al Governo in Italia, ma questo è solo il modo più comodo di gestire la cosa, che oltretutto perpetra una relazione parassitaria tra il settore pubblico e quello privato. Ciò di cui abbiamo bisogno che è che grandi aziende coma la Fiat diventino più coraggiose e disponibile al cambiamento tecnologico e organizzativo. E’ curioso che negli Stati Uniti la Fiat investa in motori ibridi (perché è forzata a farlo da un patto con l’amministrazione Obama) ma non faccia altrettanto in Italia. Questo dimostra come all’Italia non manchi solo un New Deal (investimenti) ma anche un Deal (ad esempio l’appropriata, simbiotica negoziazione tra business e governo)”.

 

D. In questi giorni interverrà a Capri-Between 2014, può anticipare di cosa parlerà?

“Chiederò alle aziende italiane di impegnarsi a costruire un ecosistema dell’innovazione maggiormente simbiotico, da sostituire a quello parassitario che esiste oggi. E di cambiare le loro richieste nei confronti dal Governo, che devo passare dal semplice togliersi di mezzo (o ridurre le tasse),  al costruire insieme in efficiente sistema dell’innovazione dove ambo le parti sono impegnate sul lungo termine. E dove i contribuenti traggano beneficio dagli alti rischi che tutto questo comporta”.

 

Category: Economia, Ricerca e Innovazione

About Mariana Mazzucato: Mariana Mazzucato è bata nel 1968 ed è docente di economia all’Università del Sussex, in Gran Bretagna, presso il centro di ricerca sull’innovazione Science Policy Research Unit. Il suo libro più recente è The Entrepreneurial State: debunking private versus public sector myths (Anthem 2013) è stato tradotto con il titolo Lo stato innovatore (Laterza Bari 2014).

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