Enrico Pugliese: Agricoltura capitalistica e funzione dell’inchiesta mezzo secolo dopo

| 5 Marzo 2021 | Comments (0)

I parte: agricoltura capitalistica e capitalismo in agricoltura

Premessa

Mezzo secolo addietro scrivemmo un articolo su uno dei primi numeri di Inchiesta, il numero tre, dal titolo “Agricoltura capitalistica e funzione dell’inchiesta”. Il titolo, in coerenza con gli obiettivi generali nel progetto della rivista, intendeva soprattutto sottolineare una questione di metodo: solo un lavoro basato da un lato sulla conoscenza diretta delle situazioni e privo di condizionamenti ideologici e dall’altro di una scelta di campo chiara a favore delle classi subalterne poteva aiutare a comprendere la complessità dei processi di cambiamento nei rapporti di classe in agricoltura. L’articolo fu ripubblicato in diverse pubblicazioni in primo luogo quella in inglese in libro a cura di Fred Buttel e Howard Newby con il titolo “Agricoltura capitalistica e Capitalismo in agricoltura”.

E qui un secondo chiarimento: il capitalismo in agricoltura non si limita alla sola azienda capitalistica, all’azienda condotta con salariati. Lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura aveva informato di se tutte le forme di organizzazione della produzione. Non aveva eliminato la piccola azienda contadina ma aveva assegnato ad essa altre funzioni produttive e sociali e altri rapporti con l’azienda capitalistica condotta con salariati. Probabilmente il messaggio più importante che il nostro articolo conteneva era che nel sistema capitalistico l’agricoltura svolgeva due funzioni principali: quella di partecipazione ai processi di accumulazione e quella di sede dell’esercito industriale di riserva (espressione rispetto alla quale preferivamo quella marxiana di sovrappopolazione relativa latente). espressione usata da Marx sottolineando il termine relativo in polemica con Malthus e la tesi di una eccessiva crescita di popolazione rispetto alle risorse. Insomma il termine relativo indicava che quella popolazione era eccedente rispetto ai bisogni di forza lavoro per le esigenze di accumulazione in un determinato momento.

 

Le due funzioni dell’agricoltura

Queste due funzioni dell’agricoltura – scrivevamo – sono sempre presenti nelle economie capitalistiche ma hanno diverso peso e rilevanza in momenti diversi: in quelli di grande espansione della produzione nella moderna industria e nella stessa agricoltura domina la funzione produttiva con un conseguente richiamo di parte della “sovrappopolazione latente”, tradotto in termini empirici si presentava come insieme di figure di contadini, artigianali e altri piccolissimi produttori il cui contributo all’accumulazione era del tutto irrilevante. Nei momenti di sviluppo – sottolineavamo – seguendo Marx del 23º capitolo del capitale – si “schiudevano i canali del flusso” e nuova forza lavoro era disponibile per il processo produttivo capitalistico. Al contrario nei momenti di stagnazione o di crisi economica o nei momenti in cui i processi di trasformazione della società si rallentavano e non c’era bisogno di forza lavoro per le nuove strutture produttive il deflusso dalle campagne si arrestava e le statistiche nazionali mostravano un aumento – o comunque una stasi – della occupazione agricola senza un aumento della produzione e quindi con una una riduzione della produzione pro capite, e in ultima analisi un impoverimento dei contadini impossibilitati a trovar lavoro altrove. Da questo punto di vista l’Italia era un caso estremamente rappresentativo. E il periodo fascista era stato tipicamente un periodo di congelamento di forze di lavoro in agricoltura di ruralizzazione forzata in mancanza di sbocchi, senza possibilità di esodo agricolo e di emigrazione. Fatto, tra l’altro aggravato dalla chiusura delle frontiere.

Ma questa funzione di spugna dell’agricoltura non si esercita solo nei momenti di stagnazione dell’economia o quando l’industria, per le caratteristiche del suo sviluppo, non riesce ad espandere la sua base occupazionale. Questa funzione in Italia è proseguita con diverse caratteristiche, diversi tempi e un’accorta gestione, anche nel dopoguerra in un regime democratico e in pieno sviluppo industriale. Per intenderci negli anni di grande crescita del dopoguerra: “i trent’anni gloriosi”, come dicono i francesi. Mentre durante il fascismo la sovrappopolazione relativa latente costituita dai contadini viveva in condizioni di grave crescente miseria col sommarsi dell’oppressione economica l’oppressione politica, nel dopoguerra le cose cambiarono si misero in atto politiche volte a mantenere in vita, sia pure in equilibrio precario, le piccole aziende e a sviluppare anche le piccole proprietà coltivatrici. Dopo la sconfitta delle lotte contadine per la terra e la riforma agraria generale furono prese altre e più complesse misure intese a governare l’esodo dalla terra migliorando la condizione di quelli che restavano, creando una situazione funzionale anche alla stabilità sociale. Misure quali la ‘Cassa per la formazione della piccola proprietà coltivatrice’ e poi, a partire dalla fine degli anni 50, il primo ‘Piano Verde’ e per quanto per qualche verso anche il secondo Piano Verde – due grandi piani di sviluppo agricolo nazionali (che riguardarono intero decennio ’60)- incentivavano la persistenza della piccola azienda diretto coltivatrice favorendo anche l’acquisto di terra e anche di mezzi tecnici tramite prestiti assolutamente vantaggiosi.

 

L’agricoltura e il grande esodo: la mobilitazione dell’esercito industriale di riserva

Tutto ciò non bastò a impedire l’esodo – né d’altronde si voleva impedirlo. L’obiettivo era quello di permettere senza grandi traumi sociali e politici lo spostamento di milioni e milioni di persone dall’agricoltura dalle zone rurali verso la città e verso l’industria. Non furono certo rose e fiori ma alla fine del decennio l’Italia da paese industriale agricolo era diventata una moderna società industriale dove l’agricoltura aveva un peso modesto e dove tre quarti dei lavoratori agricoli avevano lasciato la terra in un lasso di tempo di due decenni. Quando noi scrivevamo il nostro articolo le più importanti trasformazioni dell’agricoltura dal punto di vista sociale ed economico e tecnologico erano già avvenute o in piena realizzazione. La sconfitta delle lotte contadine – non certo compensata da un limitato intervento di riforma fondiaria – si era tradotta in quell’esodo massiccio che modificò il volto delle campagne e anche il volto delle città. Larga parte nel Mezzogiorno agricolo e rurale nel corso del decennio si era trasferito al Nord. Parte dei braccianti dei contadini sono diventati classe operaia.

Ma anche la condizione degli stessi contadini e degli stessi braccianti era mutata. Quelli che avevano rappresentato la maggior parte dei protagonisti delle lotte per la terra nel Mezzogiorno, in particolare di contadini senza terra, erano in sostanza scomparsi. Per quel che riguarda invece la componente bracciantile in senso stretto avanzamenti e sconfitte storiche si intrecciano con un esito complesso. Per decenni la politica del sindacato dei braccianti in Italia ha sempre unito alla lotta sul salario e le condizioni di lavoro una strategia di lotta sui temi del welfare sia in termini di sussidi di disoccupazione sia in termini di incrementi occupazionali – i famosi imponibili di manodopera – sia su tematiche previdenziali e assicurative. Ma già nel corso degli anni 60 diventa chiaro che sul piano della lotta per l’occupazione e per i salari -e soprattutto per la gestione del mercato del lavoro (controllo del collocamento) – la lotta è durissima e con esiti limitati. E soprattutto è forte la repressione come si vide con i fatti di Avola in Sicilia o Isola Capo Rizzuto in Calabria pochi anni prima dell’autunno caldo. Sconfitti sulle tematiche strettamente sindacali, il lavoro e l’occupazione, i braccianti, soprattutto nel Mezzogiorno, acquistano una serie di benefici nel campo delle politiche sociali che permisero condizioni di vita leggermente migliori nonostante l’elevata sottoccupazione. Per quel che riguarda infine una categoria importantissima per l’Italia, quella dei mezzadri le zone dove massimamente si concentrava il “contratto di colonia parziaria appoderata”, cioè la mezzadria classica, furono investite da un grande processo di sviluppo industriale spesso, ancorché non sempre, basato sulla piccola e media impresa capaci di attrarre manodopera a livello di massa. C’è infine – e questo riguarda non solo i mezzadri ma anche gli affittuari in generale – nel 70 si ha l’approvazione della legge sugli affitti agrari che comporta una delle più grandi redistribuzione del reddito dell’Italia a vantaggio delle classi subalterne. La rendita sulla terra che assorbiva una quota della ricchezza prodotta dall’agricoltura era in Italia di gran lunga la più alta d’Europa. Con questa legge il paese si collocò almeno ai livelli europei.

 

La politica agraria comunitaria, il sostegno dei prezzi la crisi definitiva dell’azienda contadina autonoma

Insomma all’epoca dell’autunno caldo alla vigilia del grande shock petrolifero del 73 e della fine degli anni delle grandi riforme del centro-sinistra così come è cambiato il volto della società italiana è cambiato definitivamente il volto dell’agricoltura e delle campagne. Delle novità riguardano l’azienda diretto coltivatrice. Il suo sviluppo stentato e la sua persistenza grazie alle politiche di sostegno all’attività aziendale è anch’esso compensato, così come per i braccianti, da politiche di welfare fondate sia e soprattutto su trasferimenti monetari sia su una politica pensionistica all’inizio ultra benevola sia infine su politiche mutualistiche per quel che riguarda la salute finanziate dallo Stato e sostenute soprattutto dalla più grande lobby che l’Italia abbia mai dalla cosiddetta “Bonomiana” la Federazione Nazionale dei Coltivatori Diretti. Per quel che riguarda la sinistra nel partito comunista domina l’orientamento dettato da Emilio Sereni che vede nell’azienda diretto coltivatrice ancora il nucleo portante dello sviluppo democratico dell’agricoltura. E in tutto questo l’Alleanza dei Contadini l’organizzazione dei coltivatori diretti -originariamente di orientamento socialcomunista – non riesce a controbilanciare la forza della Bonomiana che impone la sua politica corporativa che si esprime – in accordo con il sindacato padronale, la Confagricoltura, – nel sostegno dei prezzi dei prodotti agricoli. Insomma agli inizi degli anni 70 è già successo tutto quello che poteva succedere per quel che riguarda il carattere e la portata della modernizzazione dell’agricoltura italiana, i suoi processi e le sue contraddizioni.

Bisognerà arrivare alla fine del secolo perché avvengono delle trasformazioni di segno nuovo ed emergeranno nuovi attori sociali. L’unica rilevante novità che prende corpo proprio in quel decennio, ma verso la fine, è l’arrivo dei lavoratori immigrati provenienti da paesi del terzo mondo, soprattutto all’inizio troveranno in agricoltura fu una delle principali collocazioni sostituendo in parte nel lavoro nero il bracciantato locale soprattutto nel Mezzogiorno e soprattutto per la componente femminile. Di questo importante fenomeno che riguarda l’internazionalizzazione e la segmentazione del mercato del lavoro non ci occupammo nell’articolo. Non fu una svista: non vedemmo i nuovi braccianti perché ancora non c’erano C’è da aggiungere una questione appena accennata nell’articolo ma che è trattata in un articolo successivo su un numero successivo di Inchiesta: la questione della politica agraria comunitaria. Alla fine degli anni sessanta desta un grande interesse ed esprime la linea della Comunità Europea il cosiddetto Piano Mansholt. Si trattava di una novità significativa per l’Italia perché veniva stabilita dalle direttive del piano una dimensione minima delle aziende che potevano essere destinatarie dei benefici delle politiche di intervento, in pratica i finanziamenti alle aziende . Ciò con l’esplicito obiettivo che il numero complessivo delle aziende avrebbe dovuto ridursi soprattutto nei paesi mediterranei dove molte aziende diretto coltivatrici stavano al di sotto di questa dimensione – ‘valore soglia’ si diceva nel burocratese di Bruxelles In quegli anni la PAC, la politica agraria comunitaria. assorbiva buona parte del bilancio della Cee. E c’è di più: il grosso della spesa non era diretto al sostegno alle aziende bensì al sostegno dei prezzi ( in sostanza dei cereali e dei prodotti lattiero caseari) con effetti devastanti soprattutto per le piccole aziende del Mezzogiorno. Quando si tentò di porvi rimedio con la soluzione delle “quote latte” per ridurre la sovrapproduzione e la spesa la reazione fu fortissima e in chiave corporativa. La Lega, quella iniziale e rurale montanara del Senatur, anche su questo fondò parte del suo successo.

 

Sviluppo tecnologico e accelerazione della ristrutturazione capitalistica

Prima di passare agli eventi successivi agli inizi degli anni 70 e soprattutto alle novità più attuali è bene soffermarsi ancora a definire come si era andato realizzando il processo di sviluppo capitalistico fino a quel periodo, in quegli anni di grande crescita e trasformazione strutturale dell’economia agricola. Sono stati anni di intenso sviluppo tecnologico favorito all’intervento pubblico e da una forte ideologia che propagandava grandi effetti benefici delle applicazioni della scienza e della tecnologia in tutti i campi rilevanti per l’agricoltura. Innegabilmente tutto questo permise – nonostante una riduzione progressiva della forza lavoro impegnata – un incremento non solo della produttività ma anche della produzione globale. Le produzioni unitarie (quintali per ettaro) delle varie colture – pensiamo al mais e dei semi ibridi – aumentano in maniera straordinaria. L’utilizzazione su vasta scala dei prodotti chimici sostituisce in un impegno di lavoro umano. Figure che erano state tipiche dell’agricoltura di determinati contesti regionali scompaiono: le mondine sono sostituite dagli erbicidi fito-selettivi. La ricerca biologica porta un continuo aumento di nuove varietà culturali altamente produttive e spesso con frutti adeguati alla raccolta meccanica. Il caso del pomodoro è uno di quelli più significativi non solo in America. In conclusione tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ’70, dall’autunno caldo e il primo grande shock petrolifero del ’73 – data di inizio del post fordismo la grande trasformazione capitalistica dell’agricoltura è già avvenuta la stragrande maggioranza dei contadini – mezzadri, figure miste, contadini senza terra, braccianti, piccoli coltivatori sono scomparsi dal panorama della società e della composizione di classe della società italiana.

Ritornando al tema iniziale che era stato uno degli aspetti analitici più importanti del nostro lavoro, vale a dire il ruolo dell’agricoltura come area di assorbimento di manodopera eccedente, anche in questo caso c’è un cambiamento di tutto rilievo. C’è in tutta Europa e in Italia in particolare una grande diffusione del part-time agricolo di gente che lavora in agricoltura e in altri settori. Nella retorica rappresentazione che se ne dava nelle aree con presenza di industriali si parlava di metalmezzadri. Da un punto di vista di classe la identificazione di questi soggetti come semi proletari agricoli, quale sarebbe stata l’interpretazione coerente con la tradizione di analisi marxista dell’epoca, non vale più. Si tratta di soggetti nuovi in un nuovo contesto, certamente soggetti investiti da un processo di proletarizzazione ma non di persone destinate a diventare proletari agricoli e probabilmente neanche operai industriali. La tematica di rilievo a partire dagli anni 70 affrontata dagli economisti agrari è quella della pluri-attività, della compresenza in un individuo o di una persona di attività professionali dentro fuori dall’agricoltura in condizione di lavoratore autonomo o di lavoratore dipendente. Non una fase di passaggio però ma una condizione di precarietà strutturale che anticipa la grande precarizzazione che si realizzerà nel mercato del lavoro proprio a partire dai decenni di fine secolo. Quindi sviluppo tecnologico e meccanizzazione, utilizzazione delle scoperte biologiche per la modificazione dei prodotti agricoli e uso sempre crescente dei prodotti chimici – tanto come fertilizzanti quanto per l’anticrittogamici e pesticidi in generale hanno cambiato l’organizzazione della produzione agricola con uno spettacolare aumento della produzione e soprattutto della produttività. Il ritmo dell’esodo già negli settanta si andato drasticamente riducendo per il fatto che chi se ne doveva andare se ne era già andato. Un’implicazione di questa scelta di grande sviluppo tecnologico è rappresentata dai vantaggi del capitalismo industriale. ‘Cheap food, cheap labor’ è quello che nel modello fordista è rivendicato come il corretto rapporto tra agricoltura e industria o meglio il compito che il capitalismo industriale assegna all’agricoltura: quello di produrre cibo a basso costo per la riduzione del costo del lavoro. Da notare che la parola cheap viene intesa dagli studiosi che si occupano di questa tematica nel suo duplice senso di modesto prezzo e di scadente. La qualità è l’ultimo problema che ci si pone ancora in quegli anni. Infine tramonta nel dibattito interno alla sinistra il tea della Questione Agraria. D’altronde nelle mutate circostanze parlare di Questione Agraria nei paesi a economia avanzata come l’Italia non aveva più senso come in passato.

Da ricordare che nella tradizione marxista la Questione Agraria non è “l’insieme dei problemi dell’agricoltura” ma la questione del rapporto tra il movimento operaio organizzato e le masse contadine, la politica del movimento operaio nei confronti dei contadini. Ma questi sono largamente cambiati sono figure sociali radicalmente diverse: non parte di una società rurale che non più, non soggetti legati alla terra e partecipi di una cultura particolare: già l’estensione della pluri-attività ne ha modificato radicalmente l’identità culturale e professionale e le loro aspirazioni. Allo stesso modo la riforma agraria, intesa soprattutto come questione dell’accesso alla proprietà della terra dei da parte dei contadini poveri per sottrarsi a contratti agrari scannatori garantirsi una sopravvivenza meno povera per non è più una questione riguarda paesi come l’Italia mentre allo stesso tempo è divenuta questione sempre più urgente nei paesi del sud del mondo. Questo è il quadro che si poteva vedere all’epoca in cui nacque Inchiesta agli inizi degli anni 70. Vediamo in queste pagine finali quali sono i temi più rilevanti emersi negli ultimi decenni, i nuovi attori in campo le nuove richieste e le possibilità di cambiamento.

 

II Parte : dalla terra al cibo

 

Novità contraddittorie

A partire dagli ultimi decenni del secolo scorso e soprattutto nel periodo a noi più vicino nelle agricolture dei paesi sviluppati sono emersi – sia a livello produttivo sia a livello di aggregazioni e movimenti sociali – fenomeni nuovi in parte coerenti in parte contrastanti con quanto si era potuto osservare precedentemente. Due sono le principali tendenze. La prima è la prosecuzione del sentiero tecnologico e scientifico prevalente in agricoltura, del carattere dello sviluppo produttivo, sempre più in direzione dell’agribusiness, e degli stessi valori dominanti in agricoltura e nella politica agraria nei decenni precedenti. I processi di modernizzazione si sono accompagnati a un crescente uso di tecniche produttive dannose per l’ambiente, a una crescente standardizzazione della produzione per mercati sempre più vasti e a un progressivo aumento della spesa aziendale per acquisto di mezzi tecnici. Ciò con la conseguenza sociale di una vita sempre più difficile per la piccola azienda familiare. La seconda è l’emergere di orientamenti che si pongono in netta divergenza rispetto ai paradigmi scientifici dominanti o per lo meno in una radicale e sempre più convincente critica di essi, accompagnata dalla ricerca di nuove forme di organizzazione della produzione più socialmente orientate, caratterizzate da una crescente attenzione alla qualità del cibo prodotto e più rispettose dell’ambiente con il criterio del farming gently , secondo la definizione usata da Van der Ploeg in un articolo su Parole Chiave . Si tratta in questo secondo caso di fenomeni e processi ancora incipienti, di sperimentazioni di soluzioni produttive ‘di nicchia’.

Ma sul piano del dibattito e della stessa iniziativa politica la portata delle nuove analisi e delle critiche ai paradigmi tradizionali si fa sempre più diffusa con una presa d’atto anche da parte delle grandi organizzazioni internazionali. Si pensi al Green New Deal della UE che dà un ruolo di tutto rilievo alla problematica agricola. Sembra ora essersi avviata una presa di coscienza dei disastri ecologici che accompagnano gli orientamenti economici del modello dominante . La marginalizzazione e la cessazione in molte aree della piccola azienda causata da quel modello ha finito anche per ripercuotersi in maniera negativa sull’ambiente, che, oltre ad essere danneggiato dai veleni, ha cominciato a soffrire per l’abbandono e l’inselvatichirsi dei terreni con danni e pericoli anche per il paesaggio. Sul piano del patrimonio genetico aumenta anche la presa di coscienza sui pericoli di distruzione della ricchezza di cultivar ancora esistenti. La preoccupazione per la diffusione degli Ogm, per i prodotti agricoli frutto di modificazioni artificiali si salda una preoccupazione rispetto alla concentrazione monopolistica della proprietà e del brevetto di questi organismi – e sulla legittimità del brevetto di organismi viventi già esistenti in natura – oltre che per i danni probabili per la salute. Si va affermando sempre di più il concetto di ‘biologico’ anche se in una condizione di estrema confusione (a partire dalla definizione stessa di ‘biologico’). Il dualismo strutturale tra grande azienda e piccola azienda si è andato approfondendo nonostante la capacità di resistenza – pare che ora si dica resilienza – di quest’ultima. La prima riesce anche con i contributi statali ad aumentare la sua produttività e la produzione globale. Effetto di questo obiettivo è una tendenza alla monocultura diffusa in aree sempre più vaste che – va sottolineato – non riguarda solo le grandi aziende ma anche quelle piccole che non riescono a sottrarsi a questo tipo di innovazione. Il modello della monocultura, impoverendo i terreni, porta a un progressivo incremento dell’uso della chimica che conduce in un vero e proprio circolo vizioso. La ricerca biotecnologica ha incrementato la produttività a scapito della qualità del prodotto. La standardizzazione del prodotto e la internazionalizzazione del mercato danno un nuovo e più potente ruolo alle industrie di trasformazione e alla aziende operanti nel campo della grande commercializzazione scapito delle aziende agricole alle quali impongono prezzi più bassi per i loro prodotto. Legata a questa novità ce ne è un’altra non priva di implicazioni sociali: il punto nodale nella questione agro-alimentare diventa sempre meno la terra e sempre più il cibo. Naturalmente la terra conta ancora moltissimo ma in modo nuovo e in particolare chi la lavora svolge un ruolo sempre meno determinante nella catena del valore dei beni alimentari. Il passaggio dalla centralità della terra alla centralità del cibo è una delle più grandi trasformazioni che hanno luogo a cavallo tra il 20º e il 21º secolo.

 

Una nuova realtà sociale nelle campagne: gli immigrati

E’ cambiata la realtà contadina – anzi nei paesi del Nord del Mondo non ha più senso parlare di contadini per lo meno come classe – e sono cambiati in maniera profondamente diversa e tutt’altro che scomparsi i braccianti agricoli. E a questo punto è necessario un inciso che riguarda nuovi protagonisti della realtà agricola italiana: i lavoratori immigrati provenienti dai paesi del Sud del Mondo ma anche dai paesi della Europa orientale. Si tratta di una novità ma si tratta anche di una ricomparsa di soggetti che sono sempre esistiti nella realtà agricola italiana.: i lavoratori migranti. Essi in Italia così come in altri paesi sono stati sempre i lavoratori più poveri: il lavoro delle mondine o delle raccoglitrici di ulive costrette le prime a migrare e vivere altrove rispetto alla loro casa per un certo periodo le seconde portate generalmente dai paesi più poveri a quelli più ricchi contigui o lontani per le raccolta delle olive. Così come i nuovi braccianti immigrati anch’esse erano alla mercé della figura ormai determinante anche nell’agricoltura del Nord e del Sud del paese, i caporali. Anch’essi sono cambiati ma il loro ruolo non è diverso da quelli che c’erano una volta. Sottopagati, sfruttati ed oppressi essi con il loro cheap labor lavoro povero e privo di diritti riescono a rendere meno costoso il cibo.

 

L’emergere del ruolo ‘democratico’ del consumatore

Ma ci sono altre tendenze contrastanti con quanto era avvenuto in passato che riguardano proprio quest’ultimo aspetto: la questione del paradigma fordista della riduzione del costo di produzione del cibo per ottenere una riduzione delle spese di riproduzione della forza lavoro. Esso poteva funzionare – e tutt’ora funziona – finché i beni alimentari dovevano garantire il semplice livello di sussistenza. Non si pensava alla gente, ai lavoratori, agli operai come consumatori capaci e in diritto di scegliere, come soggetti che potessero avere alcunché da dire su questa importante parte della riproduzione della loro forza lavoro, vale a dire l’alimentazione. Il consumatore nei libri di economia aveva sicuramente possibilità di scelta ma quel consumatore non era mai l’operaio, non apparteneva alle classi subalterne. Negli ultimi decenni però il consumatore emerge anche come figura ‘democratica’ e capace di influenzare le scelte della produzione agricola. L’aumentato reddito di vaste fasce della popolazione permette di richiedere non solo cibo in maggior quantità ma anche di migliore qualità. E a questo si aggiunge il problema della effettiva qualità del cibo rispetto al quale l’etichetta di biologico – meritata o no – diventa sempre più determinante.

 

Le tendenze alternative al modello produttivo tradizionale

Nel nuovo contesto culturale e strutturale c’è un nuovo spazio per la piccola azienda coltivatrice – per ora di nicchia ma certo con prospettive espansione – che richiede per affermarsi una revisione delle linee di politica agricola e alimentare con produzioni meno condizionate dalla triade prima citata (massiccio uso della chimica, meccanizzazione costosa, manipolazione genetica): insomma per quel tipo di organizzazione della produzione farming gently, (agricoltura, rispettosa, gentile). Il tipo di organizzazione che una volta si sarebbe definita familiare è quella più rispondente a questo obiettivo anche se non sempre le aziende diretto coltivatrici sono state capaci di sottrarsi alle tecniche dannose imposte dalla modernizzazione. Certamente sul piano dell’impatto ecologico la piccola impresa diretto coltivatrice mostra ora una maggiore adeguatezza alle esigenze che ora vengono avanzata dalla società. E la sua flessibilità, il suo minore interesse per la monocultura ed altre ‘virtù’ tipiche della piccola azienda possono risultare favorevoli per la produzione di cibo sano quale è quello ora richiesto sia dal consumatore che dalla società in generale anche a costo di spendere di più. In questo è rilevante il tipo di rapporto con il mercato. Per questo l’obiettivo di una organizzazione della produzione fondata su piccole strutture da un lato e produzione di cibo svincolato dal potere delle imprese che detengono i brevetti sul patrimonio genetico sono significativi elementi alla base dai movimenti per una agricoltura uova. Fondamentale da questo punto di vista è la conservazione di cultivar tradizionali più coerenti l’ambiente e meno dipendenti dai monopolisti delle sementi. Si comincia ad affermare in questa area sociale e produttiva – ma anche nella agricoltura capitalistica fondata su grandi aziende – la scelta di una linea di produzione agricola biologica che annulli o riduca l’uso di sostanze velenose che può essere sostituito da implementazioni di sistemi di lotta biologica. E che attragga in questo senso fasce vaste di consumatori Il rapporto produttore consumatore trova una nuova qualità in forme di organizzazione che avvicino le due parti. Non si tratta solo del km zero: la priorità nell’acquisto e nella vendita a mercati locali. Si tratta anche di relazioni dirette quali i Gas (gruppi di acquisto solidale), E’ una valutazione della qualità del cibo, più che del prezzo, che porta a queste soluzioni. Dalla spinta combinata dei consumatori in cerca di cibo più sano e di qualità e degli agricoltori in cerca di un maggior reddito aziendale e di maggiore autonomia nascono forme innovative di distribuzione basate sulla ‘filiera corta’, che comprende i ‘Gas’, i mercati contadini e altre forme analoghe. Ma giù su questo terreno hanno cominciato a operare grande aziende vantando vere o false riconversioni in senso biologico

 

Nuovi soggetti in agricoltura: un ritorno alla terra?

Molto interessante è la ripresa di un movimento di nuovi contadini o aspiranti tali. Per rispetto della storia e delle lotte dei contadini preferirei parlare in questo caso di coltivatori. Si tratta di soggetti che ricercano nuove opportunità di reddito recuperando aziende di origine familiare e cercando sia stili di vita non convenzionali, una sorta di ritorno alla terra ma in un nuovo contesto di apertura al mercato e con indirizzi tecnologici più adeguate processi prima individuati hanno aperto prospettive nuove alle aziende di piccole dimensioni con titolari a pieno tempo o pluri-attivi. La possibilità di produrre e coltivare in modo nuovo, con tecnologie appropriate non tradizionali ma ispirate anche a principi e conoscenze antiche, la capacità di rispondere alle esigenze e ai gusti del consumatore rispettando le caratteristiche della produzione agricola biologica e la possibilità di rapporti con il consumo che riducano i costi dell’intermediazione: questi sono tutti elementi sui quali si basa la speranza da parte di chi comincia a gestire una piccola azienda agricola ( o decide di mutare gli indirizzi di una azienda esistente). Il fenomeno esiste ma ha portata limitata. Esso si inserisce nel quadro dei cambiamenti di mentalità e anche di stile e modello di coltivazione- E’ ancora raro che questi soggetti non siano orientati all’agricoltura biologica. Ma parimenti raro è che siano orientati pratiche produttive arretrate: anzi c’è la ricerca di soluzioni produttive alternative. Lo stesso sviluppo tecnologico può – e a volte questo sta già avvenendo – orientarsi in questa direzione. La prospettiva di cambiamento è tanto più realistica quanto più i soggetti interessati a forme nuove di produzione sono essi stessi dotati di competenze in materia di produzione agricola. E spesso è così se si considera che queste nuove iniziative agricole sono portate avanti da giovani che hanno studiato presso istituti agrari o facoltà (ora dipartimenti) di agraria.

 

La differenza con gli anni 70: più idee ma meno movimento

Rispetto ad analoghe iniziative, di cui alcune ancora in vita, maturate nel corso degli anni settanta – con il tentativo ( a volte velleitario ) di costruire cooperative agricole da parte di giovani spesso di estrazione urbana – ci sono condizioni di contesto migliori rappresentate dalla diffusione nella società di una più generale sensibilità per l’ambiente, per la qualità del cibo, per il paesaggio. Ma purtroppo a questi elementi favorevoli corrisponde qualcosa di meno entusiasmante. Non è che manchino movimenti e associazioni a volte capace anche di far sentire la propria voce sulla tematica delle alternative alla produzione di massa in direzione di una difesa della terra del lavoro degli piccoli coltivatori e dell’ambiente. Ma si tratta ancora di orientamenti e iniziative che hanno una scarsa rispondenza a livello operativo e di massa. C’è una grande sensibilità a livello culturale ma c’è poco effettivo movimento. Di questo presunto ritorno alla terra al quale abbiamo accennato si ritengono protagonisti i giovani. E qualcosa si muove ma ben altro rispetto a quello che 40 o cinquant’anni addietro è rappresentato dall’imponente movimento per il lavoro – anzi per un lavoro diverso – da parte dei giovani non molto centrale assegnato alle cooperative agricole. Con rarissime eccezioni il movimento che influenzò la produzione della legge 285 per l’occupazione giovanile- che fu una grande cosa ma non ebbe un riscontro in una effettiva nascita, diffusione consolidamento di cooperative agricole intese a una produzione e un’organizzazione alla produzione di tipo alternativo. Molte cose sono maturate nel frattempo e abbiamo cercato di darne conto. Di nuovo perché si possano comprendere i processi in corso resta fondamentale il ruolo dell’inchiesta.

Category: Ambiente, Economia, Guardare indietro per guardare avanti, Migrazioni, Movimenti, Osservatorio Sud Italia

About Enrico Pugliese: Enrico Pugliese (1942) è professore ordinario di Sociologia del lavoro presso la Facoltà di Sociologia della Sapienza-Università di Roma. Dal 2002 al 2008 è stato direttore dell'Istituto di ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRPPS-CNR). La sua attività di ricerca ha riguardato principalmente l'analisi del funzionamento del mercato del lavoro e la condizione delle fasce deboli dell'offerta di lavoro, con particolare attenzione al lavoro agricolo, alla disoccupazione e ai flussi migratori. Si è occupato, inoltre, dello studio dei sistemi di welfare, con particolare attenzione al caso italiano e all'analisi delle politiche sociali. Tra le sue pubblicazioni recenti: L'Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne (Il Mulino, 2006); Il lavoro (con Enzo Mingione, Carocci, 2010); L'esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con M. Immacolata Maciotti, Laterza, 2010); La terza età. Anziani e società in Italia (Il Mulino, 2011).

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