Bruno Giorgini: Evoluzione umana e cambiamento climatico
Il riscaldamento globale non solo è in atto, ma galoppa tanto che persino Trump se ne è accorto. E sembra andare più svelto di quanto i modelli abbiano fin qui raccontato e previsto. L’aumento della temperatura (che altro non è se non l’energia cinetica media delle molecole di gas) da’ luogo a venti turbinosi e spesso imprevedibili, che tra l’altro alzano onde di marea impressionanti e poi gli tsunami diventano sempre più frequenti spazzando le coste, e poi l’aumento delle temperatura dei mari produce evaporazione delle acque che sale a formare nuvole sempre più gigantesche, e poi queste nuvole si scaricano con piogge torrenziali, e poi le piogge diventano acide distruggendo flora e fauna, e poi la banchisa polare si scioglie – questa estate al polo le temperature hanno oscillato tra 30 e 34 gradi, un caldo mai visto – aumentando il livello delle acque, e poi molte specie muoiono andando prossime all’estinzione e poi là dove c’era erba verde e alberi si fa il deserto, e poi le carestie si moltiplicano, e poi milioni di persone migrano, e poi il mondo si dissemina di guerre e poi i ghiacciai raggrinziscono eccetera eccetera.
Tutto questo groviglio s’annoda, s’ingrossa, s’ amplifica e moltiplica di giorno in giorno mentre l’umanità per ora appare parecchio claudicante a farvi fronte. Anzi qualcuno ci specula e guadagna masse enormi di danaro lucrando su fame, malattie nuove e vecchie, rapine finanziarie, commerci di armi e droga a tonnellate (migliaia), illegalità e violenze, mostruose diseguaglianze, schiavitù delle forze di lavoro, calpestando diritti e libertà individuali quanto collettivi. Fino in Europa questo avviene, e giova tenerlo a mente. Quindi che fare, se fare qualcosa è ancora possibile, almeno per contenere le soglie critiche dentro un quadro di sostenibilità – un aumento che non vada oltre un grado e mezzo ci dice l’ultimo rapporto del gruppo internazionale IPCC (ottobre 2018). Sembrerebbe una causa comune per l’intera umanità, eppure stenta a assumere una dimensione globale capace di permeare l’intera vita associata della specie homo. Per esempio gli accordi tra gli stati, come l’ultimo siglato a Parigi per limitare le emissioni di gas serra, recentemente denunciato da Trump che se ne è tirato fuori, oltre a non coinvolgere tutti i paesi, faticano a essere applicati, trovandosi spesso scappatoie per non rispettare oggi le regole appena definite ieri. Su questo piano soltanto una pressione continua e massiva dell’opinione pubblica può, potrebbe, in qualche modo sollecitare maggiore impegno e celerità di esecuzione, perché a poco servirà chiudere la stalla dopo che i buoi siano scappati.
Nel panorama generale emergono però una miriade di idee, iniziative di base e buone pratiche ecologiche radicate nel territorio di cui varrebbe la pena tracciare una mappa dinamica, cominciando a definire una rete connessa aperta e disponibile sul web. Una rete cooperativa che accolga tanto le entità collettive (associazioni, gruppi di ricerca, partiti eventuali, sindacati, chiese, università, accademie, sistemi di protezione civile ecc.. ) quanto le singole persone. Inoltre nel 2015 Papa Francesco ha licenziato l’ enciclica Laudato Sì, fino ad ora il documento “ideologico” più completo e globale sulla questione, rivolta a tutti gli “uomini di buona volontà”, ma in specifico alle comunità religiose, in primis i cristiani e i cattolici, invitandole a mobilitarsi. Qui però vorrei affrontare il problema sotto un profilo diverso.
L’evoluzione dell’homo non è definita soltanto dal suo patrimonio genetico. Anzi il suo corredo genetico è piuttosto striminzito. Se si assume l’escherichia coli come unità di lunghezza per la stringa genetica, la nostra vale circa 30.000/31.000 geni, mentre quella del lilium ne conta 70.000. La lunghezza della stringa misura la variabilità, cioè la capacità di adattamento, per così dire “spontaneo”, all’ambiente circostante e ai suoi cambiamenti. In altre parole noi umani rivestiti soltanto dei nostri geni avremmo avuto vita corta e grama sulla terra primigenia. Ma a questo punto insorge, in modo per ora misterioso, il cervello, quindi la mente, quindi l’intelligenza che suggeriscono la scelta di costruire un ambiente adatto allo sviluppo dell’homo il cui culmine sono le città, nonché le varie fasi dai cacciatori ai raccoglitori fino agli allevatori e agricoltori. Il paradigma che sottende questa decisione evolutiva è quello del dominio dell’uomo sulla natura che deve essere piegata e sfruttata per soddisfare i nostri bisogni e desideri, diventando un enorme reservoir di energia, cibo. ricchezza. Così si sviluppa la civiltà umana sul, e a spese del, pianeta: aria, acqua, terra, materie prime nulla viene risparmiato. Tutto viene preso, occupato, estratto, lavorato e trasformato in merce. Mentre gli scarti di questa secolare e gigantesca attività di costruzione e produzione della cosidetta “seconda natura” vanno a inquinare la prima natura (wild nature). Fin quando si scopre che il reservoir non è infinito, e che per esempio l’inquinamento dovuto ai gas serra può generare un cambiamento climatico globale, certamente contribuendo al riscaldamento del pianeta. Ovvero dal paradigma del dominio sulla natura tramite scienza e tecnologia bisognerebbe transire a un contratto di equità tra umani e natura.
Il che è facile da dirsi ma molto meno a farsi. Edward O. Wilson, biologo di chiara fama, propone di trasformare la metà del pianeta in una riserva naturale dove fauna, flora, territorio e biodiversità siano protetti da ogni contaminazione antropica. Per dare una idea, nel nostro paese l’area delle riserve naturali protette vale circa il 10 – 11% del territorio, e globalmente si arriva al 15%. L’Half Earth Project ha ricevuto l’interesse e il consenso di una parte consistente della comunità scientifica che moltiplica iniziative e prese di posizione, mentre per esempio le grandi corporations disboscano ogni giorno migliaia di ettari in Amazzonia (dal 1970 a oggi sono stati tagliati alberi per 768 mila chilometri quadrati, pari al 19% del totale), e lo stesso avviene in maggiore o minore misura in tutti i grandi sistemi boschivi e forestali del pianeta.
Infine vorrei affrontare il problema da un altro punto di vista. Oltre a un dominio globale dell’uomo sulla natura sempre più marcato fino a diventare come oggi distruttivo, la scienza e la tecnologia hanno enormemente ampliato e approfondito lo spettro delle conoscenze. Salvo che nel patto stretto tra scienza e poteri politico, economico, militare, religioso, dopo alcuni secoli di turbolenza si raggiunse un accordo, un patto sociale, che garantiva una illimitata libertà di ricerca agli scienziati mentre i prodotti della scienza venivano gestiti e utilizzati dai quei poteri. Insomma i ricercatori si rinchiudevano nelle torri d’avorio, e le loro scoperte tecnico scientifiche si spargevano nel mondo secondo i criteri e canoni dei poteri dominanti.
Ecco qui sta il nodo: è urgente non solo per ragioni di democrazia, intraprendere un processo di riappropriazione sociale del sapere scientifico, perché diventi un patrimonio collettivo. Il general intellect deve essere nostro, dei cittadini, la scienza deve scriversi come citizens science. Per questo gli scienziati devono uscire dalle torri d’avorio, come sta in parte accadendo- si veda per esempio il movimento March for Science – e i cittadini/e devono operare per accedere ai tesori di conoscenza che nelle torri stanno rinchiusi. Dalla computer science alla fisica del caos e della complessità, dalla matematica dei big data alla teoria dei materiali, dagli studi sulla coscienza a quelli sul libero arbitrio, ma l’elenco sarebbe lungo quanto la Treccani almeno, tutto/i questo/i sapere/i devono essere impugnati dalle persone, dai cittadini e posti in essere dentro la società, diventarne linfa in grado, tra l’altro, di confrontarsi con il cambiamento climatico. Citizens science quindi come strumento per un contratto di equità tra umani e natura, nonché di eguaglianza tra gli stessi umani. E’ un processo propriamente evolutivo, con alternanza di variabili lente e veloci, su tempi lunghi con improvvise accelerazioni e salti, ma che bisogna cominciare perché questo general intellect tecnico scientifico comune può contrastare il paradigma del dominio e dello sfruttamento, indebolendolo fino alla scomparsa.