Gianni Marchetto: Democrazia e produttività

| 11 Febbraio 2013 | Comments (0)

 

 

Pubblichiamo questo testo di Gianni Marchetto, ex operaio Fiat e sindacalista Cgil diffuso l’11 febbraio in http://sinistrainparlamento.blogspot.it

 

+ Democrazia = + Produttività – È evidente che è un assunto che va dimostrato nella pratica – è prima di tutto una sfida a noi stessi prima ancora che al padrone. Io ne sono convinto, però non è detto che la storia vada in quella direzione. Bisogna prima convincere i lavoratori (gara dura, così come lo è stato per l’abolizione delle “paghe di posto”, che al confronto erano un problemino). Questa premessa la pongo sempre immediatamente dopo aver fatto l’affermazione sopra. Però io sono convinto (con Gramsci) che la storia sia il prodotto di scelte che gli uomini fanno, a volte azzeccate a volte non troppo (vedi l’articolo sull’Ordine Nuovo del 1919: “La rivoluzione contro il capitale”).


I FATTORI CHE INFLUENZANO LA PRODUTTIVITA’:

per il padrone: PIU COMANDO = PIU’ PRODUTTIVITA’

per i lavoratori: PIU’ DEMOCRAZIA=PIU’ PRODUTTIVITA

 

Se si fa la storia delle esperienze prima sovietiche, ancor più cinesi, ad un certo punto si incrocia il problema della maturazione (carente o assente) delle masse. E come poteva essere altrimenti? Erano ambedue paesi “arretrati” dal punto di vista dello “sviluppo delle forze produttive”, ergo: hanno fatto fuoco con la legna che avevano.. o no?

Riporto le cose scritte nel libro di Minucci (La crisi generale tra  economia e politica) è il capitolo V° che parla del “Nodo della continuità”. Mi ha colpito nel senso di non trovare niente o quasi nello sviluppo delle rivoluzioni “socialiste” nel 20° secolo: cosa mai esisteva in quelle società che fosse in embrione il “socialismo” che poi si sarebbe instaurato? C’era in Russia? C’era in Cina? Erano completamente assenti! Anzi (ed è di questi tempi) il Partito Comunista Cinese è attualmente a capo di una modernizzazione a carattere capitalista con annesso sfruttamento dei lavoratori, di alienazione di larghe masse e tutto l’armamentario tipico della fase di costruzione del capitalismo.. e si che la borghesia nascente nel tardo medio evo attraverso le scoperte scientifiche e non, attraverso l’affermarsi di nuove professioni nell’arco di 3 secoli o giù di lì, si installò via via nell’ambito della società medioevale fino ad arrivare al 1789 a scoprire l’inutilità delle classi allora al potere e.. tagliò le teste ai nobili e al clero.

Il pluralismo – chissà perché quando noi, parliamo delle vicende nostre, italiane, europee, ecc. facciamo sempre la distinzione tra partiti e sindacati, anzi esaltando (come nel caso italiano) la funzione autonoma e unitaria dei sindacati, quando invece parliamo dei paesi del “socialismo reale” o della Cina, parliamo quasi unicamente dei comunisti e del partito comunista a cui rivolgiamo delle critiche che ce lo fanno diventare di volta in volta il boia e l’impiccato.. mah! E a proposito di pluralismo non c’era solo quello dei partiti delle società dell’ovest. Anche i Soviet erano e contenevano una forma di pluralismo da praticare come pluralismo non delegato, ma una forma di democrazia diretta, a cui prestare la massima attenzione, a cui caso mai i comunisti dovevano GUADAGNARSI la fiducia e essere in questi organismi la maggioranza e non imporla come è stato attraverso un potere statuale (e poliziesco). Così non è stato per cui l’Unione delle Repubbliche Socialiste SOVIETICHE è stata fin dall’inizio tutt’altra cosa, salvo che una Repubblica SOVIETICA. Stessa cosa mi pare per lo sviluppo delle “Comuni” nella Cina maoista: anche lì non si è mai capito dove era il partito: tra le “masse o contro le masse

La nocività e la costrizione – se applichiamo le stesse categorie che ci servono per capire i dati di partenza per una “liberazione del cervello” dei lavoratori in occidente, dobbiamo farlo anche per i lavoratori dei paesi dell’est compresa la Cina. Ebbene, mi pare francamente troppo pretendere che in quelle società, a quel livello dello “sviluppo delle forze produttive” i manager di quelle imprese, i sindacati, i lavoratori fossero nelle situazioni di produrre esempi migliori di quelli che potevano esserci nelle aziende occidentali (tra le migliori, le più sindacalizzate, le più vecchie in termini di età, ecc.). restava anche qui, un ruolo dei comunisti nei sindacati di autentica egemonia e autonomia del soggetto lavoratore che invece non c’è stato per niente, avendo come risultato uno “stato operaio” senza nessuna egemonia della classe operaia, la quale la sua coscienza era il partito comunista.. al potere! Risultato: nel partito si fiondavano tutte le aspirazioni (legittime e non) degli individui più intraprendenti, alla fine della fiera (vedi gli ultimi anni ’80) l’intraprendenza combinava con la corruzione e la corruttela. Nei sindacati, somigliando alle peggiori forme di sindacalismo corporativo e di integrazione nel modello aziendale di marca americana o di particolari esperienze del sindacalismo corporativo europeo. Ho ancora negli occhi la deferenza (tutta falsa, te ne accorgevi a cena con un bicchiere di vodka in più nel corpo) dei sindacalisti nei confronti del manager dell’impresa quando non del capo del partito. Per non dire dell’ultima degenerazione da me toccata con mano: il meglio della creatività, dell’esperienza operaia, della tecnica era fiondato nella produzione di strumenti di morte (aziende di armamenti) facendo qui sì la punta alle produzioni dell’ovest, americani in testa, mentre era del tutto fallimentare la produzione (e la produttività) nel campo della produzione di beni di consumo durevoli. Qui vigeva lo scambio alla democristiana nel nostro pubblico impiego: “io non rompo le balle a te, tu dai un voto a me”. Stesso scambio nelle aziende sovietiche: “voi operai mi date il vostro consenso e io partito vi garantisco il posto di lavoro e un minimo di “stato sociale” a livello aziendale”. In cambio ai lavoratori più intraprendenti cosa restava: quello di andarsene via continuamente da una azienda all’altra alla ricerca di aziende dove il welfare aziendale fosse il migliore e dove vigesse un clima di autoritarismo e di paternalismo meno dispotico e oppressivo. Ma valga per tutte la seguente questione: è in occasione delle rivolte operaie che la produttività operaia raggiunge vette mai raggiunte nei periodi di “normalità”. Il perché è facile intuirlo: si trattava di periodi di grande e intenso impegno individuale e collettivo: “le fabbriche sono in mano nostra, di operai e tecnici e quindi bisogna darsi da fare” – questo nelle ricorrenti rivolte in Polonia, ma anche in Cecoslovacchia, ecc. salvo tornare a vivacchiare nei periodi di “normalità burocratica”.

Ed è chiaro, almeno per me, il limite delle passate rivoluzioni: il partito, che doveva rappresentare e guidare la transizione sia in URSS sia in Cina. Hanno fallito entrambi in entrambi i paesi! Il problema non è quello solamente di RAPPRESENTARE ma di ORGANIZZARE nelle aziende e nella società tutte quelle novità che si presentano, ergo: BISOGNA CONOSCERLE, farle proprie, socializzarle, farle diventare ORDINE MORALE PER UNA INTIERA COMUNITA’. Quindi bisogna avere sindacati e partiti atti alla bisogna (dove sono? Mannaggia!).

Per finire (questa mia filippica): l’errore principale per quelle società (e anche per chi come il PCI se ne accorse molto tardi) è stato quello di costruire una società “semplificata dalla dittatura del proletariato (leggi di partito)”, quando invece il miglior socialismo pensabile è quella società complessa in cui la Democrazia deve sposarsi felicemente con la Produttività e i comunisti (o altri) devono esercitare una egemonia fondata sui dati di conoscenza, di esperienza, eccetera, (così come ebbe a dire per altri versi uno come Vittorio Foa). E questa è una “macchia” di cui sono stati portatori prima di tutto quella banda di burocrati che fecero fuori i migliori tra i comunisti, ma anche quegli intellettuali umanistici che per anni si abbeverarono alla migliore cultura europea e poco di questa fu presa in considerazione in nome della costruzione dell’uomo nuovo da avere nell’arco di una generazione. Con i risultati che si videro!

Per parlare del pieno dispiegamento delle capacità lavorative bisogna avere a mente alcuni postulati di partenza che qui riporto da Ivar Oddone:

 

Trovare lavoro (anche con una

sua riduzione degli orari)

Ridurre drasticamente la precarietà e la flessibilità in

azienda. Si impara di più nel lavoro collettivo e dagli

esempi positivi di altri lavoratori più anziani, più esperti

Lavoro non nocivo anzi coerente

con la salute in senso

complessivo

·         Abbattere tutte le forme di nocività conosciute: sono loro, gli ambienti inidonei, e non gli operai che quando lo diventano sono un peso sul rimanente degli altri operai e un costo sociale

·         Se si vuole che un operaio dia il meglio di sé occorre quindi liberarlo dalle forme di gravosità (i rischi da lavoro), di costrizione (gli accordi alla Marchionne) che non tolte portano gli operai ad un uso del tempo altro, lontano dalla produttività

Lavoro riconosciuto come

produttore di esperienza grezza

Se viene riconosciuto significa un arricchimento

complessivo dell’azienda

Lavoro riconosciuto dalla

società come lavoro sociale

 

Se viene riconosciuto deve significare un salto nella scala

sociale (quindi va certificato) e un adeguato riconoscimento

retributivo

 

Ivar Oddone mi diceva che era da poco tempo che era approdato a superare la SUA convinzione che un individuo poteva dare il massimo di sua produttività in un ambiente di lavoro dove non esistesse nessuna nocività (o quanto meno che questa fosse ridotta al minimo). E invece, continuava, l’assenza di nocività era una PRECONDIZIONE perché il suo cervello potesse essere “liberato” dalla preoccupazione del rischio. E io aggiungevo anche la COSTRIZIONE = non rispetto della dignità del lavoratore (alla Marchionne per intenderci) poteva essere causa di non liberazione. E lui conveniva. Ma da lì in poi tutto era da costruire.

È chiaro (almeno per me) che io ragiono sul “qui e ora”, non mi sogno neanche lontanamente di ipotizzare quale sviluppo avranno queste mie gabole. E sono altresì convinto che occorre “innestarle” nel meccanismo attuale di carattere aziendale e quindi immediatamente dopo di carattere generale ragionando sulla produttività più in generale. E francamente non capisco questa lettura di un capitalismo tutto uguale dappertutto, scevro da ogni contraddizione. È vero che al fondo il capitalismo ha “il profitto e il comando”, ma lo avevano in altre forme anche le società nobiliari in pieno medio evo e ciò non bastò per impedire la nascita di forme preborghesi che un po’ alla volta si fecero strada. A me pare che così non sia (un capitalismo tutto uguale, ecc.), vedi le contraddizioni tra le aziende “esemplari” e le altre (vedi le 4.600 aziende di cui parla Antonio Calabrò nel suo libro “Orgoglio Industriale”, lui le chiama le “multinazionali tascabili”), tra il capitalismo italiano e quello renano, per non dire quello statunitense e quello giapponese e via andando. Così come lo erano diverse le forme di “socialismo realizzato”.

Prima di morire Ivar Oddone precisò cosa, nelle attuali società sviluppate, con questi modi di produzione, si potrebbe tentare di fare: con quella che lui chiamava “la carriera dell’operaio”, (al fondo della quale ci potrebbe essere quel livello di consapevolezza che di per sé significherebbe una maturità delle “masse”), ovvero colmare l’indeterminatezza della strategia della lotta contro questa divisione del lavoro, per puntare ad un’altra divisione. Sarebbe sul serio costruire gli embrioni di novità per una società altra.

Intanto a partire dal recupero (e dalla trasmissione) delle competenze professionale dei lavoratori più esperti ai lavoratori più giovani e meno esperti. Basta pensare quale immane lavoro si presterebbe a fare per i sindacati.. In fondo si tratta di dare seguito alla invocazione di Taylor il quale chiedeva di “produrre una scienza che raccogliesse tutto il sapere dei lavoratori e non una tantum ma in progress, che servisse a completare il sapere delle direzioni aziendali. In caso contrario ci sarà un sapere che andrà del tutto disperso”.

Mi pare inoltre che occorre tenere in conto di un’altra questione che è dirimente: il processo (che bisogna immaginare continuo) di riappropriazione dei “modelli e dei piani tecnico scientifici” che l’attuale divisione del lavoro assegna agli “istruttori”.

Figurarsi se non so che sarà una lunga battaglia (per chi la vuole intraprendere) però questa mi pare la “nuova frontiera”.

Convengo invece sui dubbi di poter avere un qualche terreno di sperimentazione nella situazione attuale (vedi la crisi) e nel contesto italiano fatto da un lato di piccole e micro imprese con imprenditori (abbastanza giovani) però, quasi tutti, con la “bocca alla canna del gas”, e dall’altro lato con una serie di imprenditori non più giovani che non hanno più voglia di rischiare, lo hanno già fatto in gioventù, ora un po’ di patrimonio è accumulato, i figli sistemati e il capitale ha già delle remunerazioni a livello altro (finanziario e simili..).

Ammettiamo per una volta di aver “specializzato” i nostri operai, che cosa farne di questa specializzazione? Sta dentro un contesto “specializzato”? non pare proprio. Siamo ormai un terziario della produzione manifatturiera della Germania con un numero esorbitante di piccole e micro imprese che non hanno nessun soldo per fare ricerca e tantomeno innovazione.

Partiamo dai dati: quante aziende (e padroni ci sono in Italia)? Quelle metalmeccaniche (dati INPS degli anni 2000!): sono 130.000 per 2.003.600 addetti, di cui 320.000 nel settore artigiano (l’Italia è quella a maggior presenza di artigianato: il 23% di occupazione indipendente sul totale degli occupati, siamo al 3° posto dopo la Turchia e la Grecia mentre la Francia e la Germania hanno il 10%). Gli addetti medi sono 15,5 per impresa.

Ancora: come è la composizione di queste imprese? – ora una Solo 2.700 imprese avevano nel 2000 più di cento addetti, il rimanente stava sotto, con 100.000 di queste che stavano al disotto dei 50 addetti- ora un’azienda di 50 addetti ha una media di 15-20 impiegati – alla Fiat Mirafiori su circa 45.000addetti gli ingegneri erano 64! e nel 1990 il 40% degli addetti alla carrozzeria di Rivalta aveva la V elementare.

 

 

 

 

Category: Lavoro e Sindacato

About Gianni Marchetto: Gianni Marchetto. Al libro di Beppe Bivati e Gianni Marchetto: Due storie operaie, Punto Rosso, 2013, Vittorio Rieser nella sua introduzione ha scritto: " Gianni Marchetto aveva cominciato come operaio sociale, passando tra vari lavori di cui non glie ne fregava niente (gli interessava di più tirare i sassi nelle manifestazioni di lotta), poi era diventato operaio massa, entrando nella grande fabbrica, e infine operaio di mestiere, alle officine ausiliarie delle fonderie Fiat. La sua progressiva politicizzazione e sindacalizzazione, l’hanno portato ad essere prima delegato e poi - a metà degli anni ’70 - funzionario e dirigente sindacale". Attualmente, pensionato INPS, è presidente della Associazione Esperienza e Mappe Grezze che si occupa di formazione per i lavoratori e consulenze per enti pubblici re locali.

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