Attilio Andreini: Ricordo di Stefano Zacchetti

| 1 Maggio 2020 | Comments (0)

Diffondiamo dalla Assciazione Italiana Studi Cinesi del 1 maggio 2020

Mi lega a Stefano un groviglio di lacci, di quelli belli stretti, che affondano i denti nella carne viva. È stato tra i primi che ho conosciuto a Venezia, nel 1986, quando entrambi abbiamo cominciato a studiare a Ca’ Foscari. Subito, la vita. E il dolore di perdite care, ferite che abbiamo cercato di curare facendo del nostro meglio, ovvero lasciandole aperte, affinché ognuno di noi potesse sentire quella dell’altro.

Il dolore non ha scalfito la sua vocazione, che ben presto è esplosa, netta e già matura: unire gli studi sinologici a quelli indologici, far luce sulla contaminazione buddhista nella lingua e nel pensiero cinesi. Ci è riuscito. È diventato il migliore, l’autorità a cui tutti, nella comunità accademica internazionale, si rivolgevano per districarsi in quei territori ibridi in cui cinese e sanscrito deflagrano in idiomi riottosi che lui, però, addomesticava.
Quello che contraddistingueva la ricerca di Stefano era il procedere in verticale e, soprattutto, in orizzontale. Un doppio vettore, alimentato dal suo animo, dall’ampiezza dei suoi interessi e dalla sua curiosità. La propulsione a inabissarsi si sommava all’espansione dello sguardo, onnivoro.

Discutevamo senza remore. Un giorno mi regalò un libro di Ennio Flaiano, che conoscevo poco e male. Da allora Flaiano è diventato uno dei miei fari e piano piano ho comprato tutto quello che ha scritto. Sere fa, prima di addormentarmi, leggevo Tommaso Landolfi e mi sono detto: “Piacerebbe a Stefano, bisogna che gliene parli”. L’indomani gli ho telefonato, ma non ha risposto.

I lacci, dicevo. Quando non mordevano ci tenevano comunque uniti. Per anni siamo stati dirimpettai: stesso ufficio, la scrivania davanti, a sinistra, era la sua. Alternavamo. Parlavamo di ricerca, cose nostre e ridevamo. Tante risate. Rettori, direttori di dipartimento e prèsidi più volte ci hanno gelato con lo sguardo. La sua risata si tramutava spesso in un singulto che non riusciva a soffocare. Ed esplodeva. A quel punto, Stefano prima si copriva gli occhi con la mano, abbassava il mento sul petto e, infine, si alzava, andando a sedersi lontano da me. Inutile. Bastava che lo guardassi perché lui ricominciasse a sghignazzare, più di prima.
Ero con lui, assieme ad altri amici, quando lo raggiunse la telefonata da Oxford. “È fatta”, mi dissi, “se ne andrà, bisogna che mi abitui a ridere un po’ meno”. Ma pensai anche “Finalmente, è un segno che il mondo comincia a girare per il verso giusto”. Gli regalammo una pipa.
Ero con lui anche quando giunse un’altra telefonata, da Stresa. Una telefonata amara. Lo accompagnai alla stazione di Treviso. Come nel 1986, solo che entrambi avevamo qualche capello in meno e qualche chilo in più.
Oltre all’amore per la moglie, i figli e gli amici, penso alla ricchezza di quanto avrebbe ancora potuto dare ai suoi studenti, a noi tutti.
Amabile, umile e acuto. Insieme. Questo era Stefano.

 

 

 

 

 

 

 

Category: Editoriali, Osservatorio Cina

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