Lillo Montalto Monella: Essere professore a contratto all’università per 3,75 euro all’ora

| 27 Settembre 2018 | Comments (0)

 

Diffondiamo da euronews del 28 gennaio 2018  questo testo di Lillo Montalto Monella che integra l’articolo di Ilaria Venturi.

1.Il caso dei professori a contratto

Uno stipendio di 11€ netti all’ora per insegnare all’università, meno di quanto chiederebbe uno studente per dare ripetizioni al liceo, “è un compenso incompatibile con qualunque attività professionale”. Lo ha denunciato su Facebook a inizio gennaio Lorenzo Pregliasco, esperto di comunicazione politica, sondaggi ed elezioni tra i più noti in Italia.

Per questa cifra, Pregliasco è stato chiamato ad una docenza magistrale all’Università di Torino. Anche quest’anno il laboratorio si terrà, ha comunicato, ma la cifra sarà devoluta in beneficenza. A Londra, per dieci giorni di docenza – non un semestre intero – la mia remunerazione è più di dieci volte tanto, scrive Pregliasco a euronews.

Nella sua situazione in Italia ci sono più di 25mila professori (26.162 stima il Coordinamento Nazionale Precari della Flc Cgil), praticamente 10mila in più rispetto al 1998 quando, secondo dati del Miur, erano 16.274. Per dare un’idea delle proporzioni, quelli “strutturati”, di prima o seconda fascia, sono poco meno di 33mila.

Come scrive Gaetano Manfredi rettore a Napoli e presidente del CRUI “Gli stipendi italiani sono un fattore di non competitività del nostro sistema universitario”

2. Si chiamano docenti a contratto e sono un caso di precariato didattico da manuale in Italia.

Nel 2011 un decreto fissa la loro retribuzione dai 25 ai 100 euro lordi – a discrezione dell’ateneo – ma solamente per le ore di lezione frontale. Esami, ricevimento studenti, correzione delle tesi di laurea, viaggi, incarichi amministrativi, le ore passate a preparare le lezioni non sono pagate se non da alcuni atenei “virtuosi”.

De facto, in Italia un docente a contratto guadagna tra i 4,28 e i 17,14 euro lordo/persona per un corso di 60 ore e tra i 3,75 e i 15 euro lordo/persona per un corso di 30 ore.

Lo rivela un questionario della rete dei precari della didattica e ricerca Unibo in collaborazione con Flc-Cgil che mette a nudo di professori “malpagati, precari e spesso costretti a vivere di espedienti”, di cui parla anche Repubblica in un articolo dal titolo Il prof per campare fa le consegne.

Eppure il loro apporto al funzionamento della macchina universitaria è decisivo: l’85% dei prof. a contratto che hanno risposto al questionario bolognese svolge infatti un insegnamento curriculare, solo il 15% uno opzionale. Il tempo dedicato alle lezioni frontali – quello pagato, per intenderci – è circa il 22% del totale.

Vale a dire: i professori a contratto lavorano pro bono per il 78% del loro tempo.

“L’immagine del docente a contratto esterno è quella del professionista della Lamborghini che viene a fare lezione a Bologna e non ha bisogno di questi soldi, ma in realtà questa figura quasi non esiste”, commenta Barbara Grüning assegnista di ricerca, docente a contratto e coordinatrice della rete dei precari della didattica.

Non solo. Oltre la metà dei rispondenti, denuncia Grüning, “continua a lavorare anche quando il contratto è scaduto per garantire le sessioni d’esame e la continuità didattica agli studenti: garantiscono sulla propria pelle il diritto allo studente ad avere un servizio di qualità”.

3. Un piede nella porta
La ricerca della rete precari dell’Alma Mater di Bologna sfata quattro miti.

I docenti a contratto sono esterni, per lo più professionisti;
I docenti a contratto svolgono attività suppletiva;
I docenti a contratto non sono interessati alla carriera accademica;
Le docenze a contratto non c’entrano nulla con il reclutamento.
Dal 2010, i professori a contratto “vivono in uno stato di precariato puro”, aggiunge Grüning. Eppure non si danno per vinti, con la speranza di poter un giorno ottenere un posto stabile tra i ranghi dell’ateneo. La maggior parte di loro (64%) ha un dottorato, si aggiorna, studia e continua a fare divulgazione: l’86% ha pubblicato saggi o monografie (12 per quinquennio, in media) e l’80% partecipa a conferenze. “Un modo per tenere un piede nell’università con costi straordinari, parte di un fenomeno di esternalizzazione didattica”.

Giovani e non continuano ad insegnare “nella speranza di entrare di ruolo, guadagnare punteggio per i concorsi – anche solo per ricercatore, dove era richiesta esperienza didattica e poteva dare qualche chance in più”, riferisce Pasquale Cuomo del Coordinamento lavoratori e lavoratrici precari dell Flc Cgil.

I contratti fino al 31 dicembre “erano per la maggior parte co.co.co., ora si prevede che ci saranno contratti a partita IVA con più peso fiscale oppure contratti di prestazione d’opera occasionale”. La manovra, tuttavia, ha rinviato l’addio al co.co.co al 2019.

“10 contratti in 4 città diverse”
“Molto spesso vengo chiamato a titolo gratuito, altre volte la retribuzione si aggira sui 110 euro all’ora. Sui Master pagano, sulle lezioni ai corsi ordinari non pagano o è, appunto, un compenso effimero”, conferma un professionista della comunicazione interpellato da euronews.

Su Internet si trova la testimonianza di chi alla facoltà di architettura di Firenze ha ricevuto l’offerta di poco meno di 250 euro per un anno e mezzo di lavoro. Tre euro e 40 centesimi all’ora. Pagata, per giunta, “secondo nuove e umilianti modalità” ovvero in due fasi.

Una docente, contattata via email, scrive che “avrebbe molte cose da raccontare” ma a causa di un concorso che affronterà a breve” non se la sente di intervenire in prima persona.

C’è poi il caso emblematico di Giuliana Scotto, che insegna addirittura tre discipline (diritto, estetica e lingua tedesca) in diverse università.

“Nello scorso anno accademico ho avuto 10 contratti: 1 a Bologna, 3 a Venezia, 4 a Roma, 2 a Pisa. E’ molto faticoso, come si può immaginare”, riferisce al telefono. All’inizio ha dovuto arrotondare “facendo traduzioni per avere uno stipendio dignitoso, che poi dignitoso non è, è minimale”.

Tutti i viaggi sono a suo carico. Nel computo degli spostamenti bisogna anche tener conto della quantità di appelli di esame. “A Bologna se ne fanno 3 o 4, ma a Roma Tre ce ne sono 8 o 9. Anche a Pisa gli appelli sono 9, ma la retribuzione è un po’ più alta”.

“L’università di Bologna è l’unica, nella mia esperienza, che prevede un compenso non solo per la didattica frontale ma anche per ricevimento ed esami”.

 

4.La risposta dei rettori: un problema di competitività
“I governi Monti, Renzi, Letta e Gentiloni non hanno voluto ascoltarci”, riferisce il sindacato. “La politica dei tagli e dell’austerity ha bloccato il turnover, che ora dal 2018 è teoricamente sbloccato ma non ci sono risorse, i soldi risparmiati dal pensionamento servono a fare risparmiare lo Stato”.

Abbiamo chiesto a Gaetano Manfredi, rettore della Federico II di Napoli e Presidente della Conferenza dei Rettori italiana – uno degli interlocutori istituzionali – cosa ne pensasse della questione.

“C’è chi viene a fare solo ore di seminario o ore di lezione frontale senza fare attività di ricerca in dipartimento. Ci sono situazioni molto differenziate” all’interno della galassia dei prof a contratto, riferisce. “Il problema non è solo la retribuzione oraria ma quanto sono pagati i docenti in Italia, dove soprattutto all’ingresso un ricercatore o docente ha uno dei salari più bassi d’Europa”.

Quanto al documento di assunzione che segue al bando pubblico, i contratti di lavoro autonomo hanno sostituito la formula co.co.co nel 2016 per sfuggire nominalmente agli effetti del jobs act ma “nei fatti, nelle pratiche e nel trattamento economico e contrattuale non è cambiato nulla”, scrive Barbara Grüning.

“L’impegno assunto quando si firma il contratto è sostenere anche gli esami corrispondenti per il semestre coperto: si tratta di un forfettario per un blocco di insegnamento, ma è cosi in tutte le parti del mondo”, sostiene Manfredi, che concorda che il problema degli stipendi è anche un problema di competitività con l’estero.

“Gli stipendi italiani non sono competitivi rispetto a quelli stranieri, sia per i dipendenti che per i contratti. Tutto è in proporzione, e questo è un fattore di non competitività del nostro sistema. Stiamo discutendo col governo e discuteremo coi governi futuri per un maggior finanziamento del sistema universitario. Se ci sarà il beneficio ricadrà su tutti”, conclude Manfredi che però sostiene che non ci sia “mai stata un’occasione da parte del sindacato di interloquire con noi” sulla questione.

Dal Ministero non hanno risposto alla nostra richiesta di intervista con il Ministro Fedeli o con il capo dipartimento Università, Marco Mancini.

5. Breve storia della docenza a contratto in 4 tappe
Ecco come “in 30 anni sono state ribaltate funzione, ruolo e prestigio del docente a contratto”, secondo Barbara Grüning.

La categoria nasce nel 1980 con l’istituzione delle docenze a contratto nell’ambito della grande riforma universitaria. Lo scopo era nobile: reclutare “significative esperienze teorico-pratiche di tipo specialistico provenienti dal mondo extrauniversitario”.
Super-esperti in possesso di titoli di “alta qualificazione scientifica o professionale”, dunque. Fino al 1998 sono stimati in 12.500 in tutta la Penisola.

Il decreto legislativo (242) Berlinguer del 1998 cambia tutto ed inizia il boom. Prevede la possibilità per gli atenei di stipulare contratti annuali e rinnovabili al massimo per sei anni: esperti esterni con le stesse mansioni didattiche di un professore ordinario o di uno associato, pur rimanendo estraneo alla vita democratica dell’istituto.
Uguali doveri, diversi diritti in pratica, per “sopperire a particolari e motivate esigenze didattiche” sorte proprio con l’introduzione del 3+2 e l’aumento dei corsi universitari.

Si assiste in parallelo ad un “abuso della docenza a contratto”, secondo la Flc Cgil, a mo’ di “tappabuchi”.

La riforma Moratti del 2005 prescrive che gli incarichi possano essere anche gratuiti.
Nel 2007 i professori ordinari erano 19.625, gli associati 18.733, i contrattisti ben 52.051, calcola Linkiesta.
La riforma Gelmini del 2010 (art. 23) elimina la docenza gratuita e crea tre classi di docenti a contratto (per la prima di esse, a onor del vero, sono ancora previsti i contratti a titolo gratuito).
“Una sorta di gerarchia sociale” a cui corrisponde una “differenza in termini di trattamento economico”, ritiene Barbara Grüning. Ci sono:

Comma 1 – i lavoratori autonomi o dipendenti (es. manager d’azienda o consulenti), ma anche gli ex titolari in pensione, con redditi superiore ai 40mila euro l’anno;

Comma 2 – “professionisti stranieri di chiara fama” per i quali è possibile attingere a risorse extra “sulla base di un adeguato confronto con incarichi simili attribuiti da altre università europee”;

Comma 3 – tutti gli altri, con trattamento economico discrezionale per ogni università, per esigenze didattiche “anche integrative”.

Dal 2008 “il numero dei corsi di studio si è ridotto, ma siccome i docenti universitari vanno in pensione, vengono sostituiti dai docenti a contratto”, fa notare il sindacalista Pasquale Cuomo. “La galassia è vasta: possiamo avere il precario costretto a fare corsi in tre università diverse o l’ex docente in pensione. Il problema drammatico in Italia è la mancanza di turnover: non c’è sufficiente reclutamento di docenti per sostituire quelli che vanno in pensione”.

Proprio dal pensionamento dei docenti al massimo della retribuzione il sindacato propone di trovare le risorse per “assumere ogni anno 4mila junior professor che possano avere la tenure track per diventare associati”.

 

6. La mappa italiana

Sono le università private come Cattolica e Luiss ad avere il numero maggiore di professori a contratto rispetto alla forza docente totale a disposizione. Ma attenzione a prendere cum grano salis questi numeri del Miur, relativi all’anno 2016, avverte Pasquale Cuomo. “Il dato è falsato, in queste università i corsi sono tenuti da professori di università statali che insegnano anche lì e sono inquadrati come docenti a contratto”, commenta. “Tuttavia, anche in queste università, inclusa la Bocconi, ci sono docenti a contratto che fanno la fame. Non hanno mai voluto comunicarci dati certi, però”.

Luiss e Università di Torino, quella dove insegna Lorenzo Pregliasco – dal cui caso siamo partiti – non hanno risposto alla nostra richiesta di indicazioni su remunerazione e statistiche relative al corpo dei docenti a contratto.

Quanto al monitoraggio sulla categoria in corso a Bologna, l’obiettivo è estenderlo a tutta la Penisola per una mappatura esaustiva del fenomeno che prescinda dai numeri ufficiali del Ministero.

7. Il confronto con l’estero
Escludendo dottorandi, postdoc, ricercatori, in Francia i chargé d’enseignement vacataires (CEV) possono svolgere 64 ore di corso, 96 ore come tutor o 144 esercitazioni. La retribuzione nel primo caso è di 61,05€ all’ora, nel secondo di 40,70€ e nel terzo di 27,13€. Dopo sei mesi di attività ha diritto a un congedo di maternità o paternità o di adozione remunerato, di una durata legale pari a quella fissata dalla legislazione sulla sicurezza sociale. Ma si tratta solo di una “vetrina”, denuncia un precario vacataire a Le Monde: il netto orario è di 9€ considerati tutti gli oneri che l’insegnamento prevede. Facendo il lavoro di due persone “arrivo a mille euro netti al mese”, quattro volte meno che un titolare.

In Belgio un tutor didattico prende 780€ mensili per 150 ore annue, ma il ricercatore (titolo master) inizia già a guadagnare dai 3.126 euro ai 5.000 circa lordi al mese a secondo anzianità pecuniaria. La tutela sociale è piena e comprende assicurazione sanitaria; maternità; malattia e disoccupazione; vacanze.

In Germania la disoccupazione è garantita per tutti coloro che hanno un contratto con l’università (temporalità minima di un anno). I tutor dei moduli di didattica (laureati) iniziano a guadagnare 13-14€ l’ora. Il collaboratore scientifico (Wissenschaftlicher Mitarbeiter) senza dottorato può guadagnare 3.300€ lordi o 1700€ in caso di part-time.

In Olanda, la più basica figura pre-ruolo, lo Studente Assistant (a partire dal terzo anno di studi), guadagna da 1.874€ a 2.184€ per una durata contrattuale massima di tre anni. Tutele: malattia di 8 settimane, maternità di 16 con possibilità di continuare la propria maternità part-time per ulteriori sei mesi a fronte di una ritenuta di stipendio; permessi per malattia di congiunti o partner; vacanze, rimborso parziale o pieno per convegni; periodi studio; acquisto libri per le proprie ricerche; bonus annuale che varia a seconda del grado salariale.

In Spagna il precariato docente è formato dal gruppo dei profesores asociados, insegnanti temporanei a contratto che, secondo la legge, hanno un’esperienza riconosciuta e uno stipendio nel settore privato, ma ai quali vengono offerti corsi per trasmettere agli studenti le loro conoscenze del mondo esterno e del mercato del lavoro. In pratica, scrive El Pais, insegnanti a basso costo a poco più di 300 euro netti al mese. A volte si arriva a 500. A Valencia, l’offerta “che non si può rifiutare” è di 5€ all’ora e l’accettano 3 docenti su 4. Per il 29 gennaio è previsto uno sciopero.

Nel Regno Unito, se i salari nelle Università per le posizioni in pianta organica o per alcune docenze di “esterni” sono notevolmente alti, gli Atenei tendono ad impiagare anche zero hour contract lecturersche lavorano full-time e senze garanzie. La situazione di precarietà non è tanto diversa da quella italiana, come si legge in questa inchiesta del Guardian che cita il caso di un 44enne professore di politica che lavora in tre istituzioni diverse contemporaneamente, ma guadagna poco più di 6mila sterline all’anno. Chiede i benefits allo Stato per tirare avanti.

Category: Osservatorio Europa, Ricerca e Innovazione, Scuola e Università

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