A cento anni ci lascia Pietro Ingrao. Un ricordo

| 27 Settembre 2015 | Comments (0)

 

 

Oggi è morto a Roma Pietro Ingrao che era nato a Lenola in provincia di Latina il 30 marzo 1915. Ho di lui un ricordo molto bello nella cucina della casa a Formia di Vittorio Foa un altro grande vecchio della politica italiana. Quel giorno c’erano anche Adele e Sesa e si parlava di futuro, di sinistra.

Mario Agostinelli mi ha suggerito di riprendere  il suo intervento al XIX congresso  del Partito Comunista Italiano  (7-11 marzo 1990) in cui Pietro Ingrao si oppose alla mozione di Ochetto [che vinse con il 67% dei voti] che proponeva il cambiamento del nome, del simbolo, della tradizione.

 

 

1. Mario Lavia: E’ morto Pietro Ingrao: La luna e la barricata

L’Unità  del 27 settembre 2015

Protagonista e testimone della sinistra e della cultura italiana, Ingrao ci lascia dopo cento anni di vita e di passioni.

Ci sono due parole, così distanti, che nel vocabolario di Pietro Ingrao hanno un posto particolare. Sono “luna” e “barricata“. C’e un polo buono, bonario, perfino sognante ma c’è anche un polo duro, aspro, meno noto nell’uomo che ci ha lasciato alla fantastica età dei cento anni, altro che “secolo breve”, e che nella dolcezza di un lungo crepuscolo aveva visto acquietarsi da tempo i tumulti di una vita non comune. Anzi, bellissima.
C’era un periodo in cui Ingrao ripeteva sempre (questa cosa di ripetere le stesse frasi era un  po’ un suo tic) di essere considerato un “acchiappanuvole”, naturalmente negandolo ma sapendo in cuor suo che almeno in parte era così. Ingrao il sognatore, l’utopista. Il rivoluzionario di professione che, giovanissimo, si imbarca nella durezza della cospirazione, all’ombra del Partito e della sua ideologia  alla ricerca di qualcosa di eroico. Un tratto alla Stendhal più che alla Lenin.

La “luna” di Ingrao è qualcosa che lui stesso nella accorata autobiografia (sì, riuscì a scrivere un libro accorato su di sé, Volevo la luna, appunto) non chiarì bene cosa fosse: non era più un comunismo che – era evidente – non si poteva realizzare ma non era neppure l’indicazione precisa di cosa diamine potesse essere una democrazia tanto avanzata al punto di “superare” uno stato socialdemocratico di tipo europeo. E dunque la vera sconfitta di Ingrao sta proprio nella insufficiente concretezza del modello da costruire. L’ingraismo, frutto succoso della vicenda della sinistra italiana, era votato alla sconfitta innanzi tutto per la sconnessione con l’evoluzione reale della società italiana, una società che a metà degli anni Sessanta, quando Ingrao scende in campo, come si direbbe oggi, per spostare a sinistra l’asse ideologico e politico del Pci contro la destra di Amendola, si è ormai assestata nel letto di un capitalismo difettoso assai ma pur sempre in grado di garantire crescita e salari.

Pensò di diventare il segretario del Pci, Ingrao, nel dopo-Togliatti? Amendola certamente lo sospettava, ed anche per questo contro di lui, nel ’64, fu durissimo. Quantomeno, pensava di vincere la battaglia per chi fosse riuscito a condizionare un mite Longo, il segretario scelto dopo la morte del Migliore. Fu battuto ma riuscì a restare al vertice del partito, mentre i suoi venivano dispersi (e molti si lamentavano che il capo non muovesse un dito per difenderli). Perchè non si deve pensare che Ingrao non fosse – legittimamente – ambizioso. Come tutti gli uomini politici. E poi è vero che aveva, allora e dopo, un enorme consenso alla base. Ci fossero state le primarie, per dire, avrebbe vinto lui. Quando parlò in quel congresso dello scontro con Amendola “tutta quella massa di compagni – ha ricordato lui stesso – scattò in piedi nell’applauso, e furono per me minuti indimenticabili”. Come un grande attore, effettivamente Ingrao incantava l’uditorio. E lui era attentissimo a creare l’atmosfera giusta, fin nei particolari, come fossero disposte le sedie, dove la tribuna, chi parla prima… Di calore, aveva bisogno. Gli piaceva essere amato, dalla base dei quartieri popolari e delle campagne umbre e dagli intellettuali marxisti di mezza Europa. E forse anche essere un perdente di successo.

Nell’immaginario prevale l’immagine bonaria del presidente della camera che passeggia fra le dune di Sabaudia, il vecchio patriarca a capotavola nella sua Lenola con familiari e famigli, decine di persone appese alle sue parole. Tutto vero.

Ma fu stato anche un duro, Ingrao. Un antistalinista, certo, ma pur sempre cresciuto a quella scuola, una scuola che certi segni li lascia, indelebili. Un eretico, sì, e tuttavia la Chiesa era quella, c’è poco da fare. Fu anche anche detestato, e certo con un Pajetta (ci fu chi disse che ci fu anche qualche rivalità in campo sentimentale, parliamo dei primi anni Cinquanta) il rapporto non fu sereno, o con i “destri”, e con Berlinguer o Napolitano al massimo c’era cortesia, certo non simpatia, specie col secondo. Con i non-ingraiani non era scioltissimo. Un duro che scelse di stare da una precisa parte della “barricata” – il titolo del suo famoso articolo sull’Unità dell’ottobre del ’56 – quella dei carri armati sovietici che calpestavano la libertà e la dignità di Budapest, la prima grande verifica di come fosse impossibile riformare il comunismo. Allora bisognava capire, allora bisognava agire: quanto rimpianse, in seguito, di non aver fatto né l’una né l’altra cosa, “fu il mio errore più grande”. Ecco, la “barricata” è la metafora di un errore che a sua volta era il simbolo del limite vero della vicenda del Pci: i dirigenti capivano che questa storia dell’Urss era inaccettabile eppure ne decretarono “l’esaurimento della spinta propulsiva” nientemeno che nel 1981, 25 anni dopo Budapest, 13 dopo Praga.

E poi, cosa forse ancor meno spiegabile, Ingrao scelse un’altro lato sbagliato della barricata nel 1969, quando il comitato centrale del Pci decise di radiare il gruppo del Manifesto, cioè – diciamo così – il distillato più avanzato dell’ingraismo, Rossanda, Pintor, Magri, Castellina, Natoli, gente che era veramente sua amica e che lui non difese, non solo, ma alzando la mano per il voto a favore che contribuì a cacciare dal partito. Quelli non lo dimenticarono mai. E quando un giorno, tanti anni dopo, in una riunione il vecchio Pietro provò a spiegare a quelli del Manifesto “la linea” da seguire,  Pintor con la durezza che si poteva permettere lo mise al suo posto: non siamo più i tuoi figliocci.

Piano piano gli ingraiani si dissolsero. Si emanciparono. Achille Occhetto, ex giovane pupillo, sciolse il Pci e lui – una vita in dissenso, l’eretico per eccellenza, l’uomo che voleva andare oltre – paradossalmente divenne il capo del “fronte del No” accanto a persone non certo affini, come Cossutta, mentre gente come i “suoi” Reichlin o Bassolino non lo seguirono. Restò per un po’ nel Pds, ma non era più il suo mondo, la sua casa, la sua croce e la sua delizia, tutto cambiava, uscì da quel partito, ma Rifondazione comunista pur vista con simpatia non poteva essere il lato giusto della barricata nè, tantomeno, assomigliare alla luna.

Quella luna, nascosta fra le nuvole, che Pietro Ingrao forse oggi sente più vicina, dopo cento anni di vita e di passioni.

 

 

2. Pietro Ingrao, intervento al XIX Congresso del Partito Comunista Italiano

7-11 marzo 1990

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=Ouy50ybg2Jk[/youtube]


Category: Editoriali, Politica

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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