Quanto valgono le attività non retribuite delle persone anziane in Italia?
Una ricerca realizzata da Beppe de Sario e Alessia Sabbatini per l’Ires Cgil stima che il “lavoro dei nonni” e del volontariato delle persone con più di 54 anni raggiunge in Italia 18,3 miliardi di € all’anno.
Lo sviluppo demografico e il miglioramento delle condizioni di salute della popolazione anziana hanno indirettamente contribuito a suscitare orientamenti politici e culturali secondo cui le persone mature e anziane[1] dovrebbero incrementare il contributo al benessere economico e sociale, sia partecipando più a lungo alla vita lavorativa sia accettando di dare il proprio contributo nelle attività volontarie di tipo solidaristico, sociale e culturale.
In realtà già oggi (cfr. Istat 2006b) la popolazione degli over 54 è quella che dà il maggiore contributo in termini di partecipazione associativa (il 36,8% del totale dei volontari in organizzazioni di volontariato) e di impegno nell’aiuto informale a parenti, amici e vicini (il 36% del totale delle persone che hanno prestato almeno un aiuto, cfr. Istat 2006a); tale dato risulta essere più che proporzionale rispetto a quello della popolazione complessivamente intesa o ad altri gruppi di età.
Le motivazioni di questo orientamento implicano uno spettro complesso di elementi esplicativi. La sola disponibilità di tempo liberato dagli impegni di lavoro non è l’unico fattore in gioco, né risulta lineare e aproblematico. Difatti, laddove vi sono a disposizione dati comparabili (ad esempio per le attività di volontariato e per l’informal care, vd. Share project 2008) viene in luce come paesi europei che mostrano età medie al pensionamento e tassi di occupazione – in particolare per la componente femminile della popolazione – decisamente più alti di quelli italiani evidenziano percentuali di persone mature e anziane altrettanto se non più attive nell’aiuto volontario e spesso anche in quello informale.
Questo dato chiama in causa due dimensioni di fattori che influenzano rispettivamente le capacità e le attitudini all’aiuto: da una parte la possibilità di una sua valorizzazione in un sistema di welfare inclusivo e plurale, che promuova un’offerta diversificata e l’integrazione dell’aiuto informale e associativo nel sistema dei servizi; dall’altra, gli elementi culturali, di tradizione nazionale e quindi di esperienza soggettiva pregressa nel campo delle relazioni sociali e familiari o del volontariato.
Secondo l’ipotesi proposta, comunque queste attività si collochino nello spazio pubblico e personale delle persone esse meritano certamente una specifica attenzione, anche nella misura in cui contribuiscono a creare condizioni di maggiore benessere sociale e individuale.
Valore, benessere e interdipendenza
La ricerca Ires Il capitale sociale degli anziani. Stime sul valore dell’attività non retribuita[2] si è concentrata su due direttrici principali. La prima, di tipo teorico, ha interrogato tradizioni di studio e di ricerca che hanno tentato una valutazione organica e non riduzionista del valore dell’attività non retribuita di aiuto e di cura (Ruffolo 1985, Paci 2005) e in generale dell’attività sociale extramercato (Polany 1974, Offe e Heinze 1997). Mentre con la seconda si è proceduto alla determinazione di un ammontare monetario equivalente di tale attività, considerando i “costi di servizio” che l’eventuale sostituzione di questo contributo gratuito con servizi di mercato, o equiparabili prestazioni lavorative, avrebbe comportato per i beneficiari.
Tale esercizio di calcolo è stato messo in relazione con l’approccio teorico, e non ha inteso in alcun modo fornire una riduzione del valore dell’attività di cura gratuita erogata dai cittadini maturi e anziani a un puro e semplice salario potenziale. Non è infatti auspicabile – né probabilmente è possibile – considerare le attività gratuite come se fossero attività di tipo economico, dal momento che non è possibile anzitutto organizzarle e viverle come tali. Esse, difatti, incorporano un plus relazionale, comunicativo, affettivo e simbolico facilmente degradabile se collocato fuori dal campo della gratuità e dell’informalità. La pura e semplice “mercatizzazione” delle attività sociali non retribuite sarebbe inoltre incapace di tenere in debita considerazione la natura e le finalità delle relazioni sociali che tali attività facilitano e alimentano, mettendo in moto fiducia, riconoscimento delle identità, solidarietà (Bagnasco et al., 2001; Putnam 1993; Sabatini 2007).
Il “valore” dell’attività gratuita non è quindi definibile sulla base di uno scambio lineare tra prestazione e retribuzione/compenso. Diversamente, le attività non retribuite mettono in atto un sistema complesso di azioni e retroazioni che generano valori positivi e/o negativi in relazione al modo e al contesto in cui queste vengono prodotte, erogate e distribuite e a seconda del loro posizionamento entro il sistema di servizi di welfare, nelle dinamiche del mercato del lavoro e nell’interazione tra questi due sistemi. All’interno di questo complesso meccanismo, le relazioni di prossimità possono generare capitale sociale e mettere in gioco negli individui “capacità” e “funzionamenti” altrimenti difficilmente attivabili (secondo i concetti definiti da Amartya Sen). In tal senso le attività sociali gratuite, in particolare nel nostro caso quelle di aiuto e cura informale, non sono affatto marginali rispetto ai servizi erogati dallo stato e dal mercato. In un’economia ad alto tasso di “intensità relazionale”, il valore delle attività umane si genera in un rapporto – la cui qualità è determinata anche dalla valorizzazione dei soggetti attivi in esso – basato su una precisa quanto articolata interdipendenza. La riflessione in tal senso ben si coniuga ad un modo di guardare all’economia e al benessere che vada al di là di quanto il mercato possa garantire. Il noto rapporto della Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress presieduta da Joseph E. Stiglitz e composta anche da Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi voluta dal presidente francese Nicolas Sarkozy va del resto nella direzione di una messa in discussione del Pil come indicatore di performance economica e progresso sociale. La Commissione sostiene a questo proposito che, affianco agli standard materiali di vita (classicamente reddito, consumi e ricchezza), ai livelli di salute e istruzione (più di recente introdotti nella misurazione dello sviluppo umano), alla condizione ambientale (presente e futura), anche le attività personali non retribuite, la partecipazione e le relazioni sociali contribuiscono a determinare il benessere delle persone[3].
Stime sul valore delle attività gratuite delle persone mature e anziane
Per quanto riguarda il focus del nostro lavoro, i campi di applicazione di tale impostazione teorica sono stati due: quello dell’attività di cura nelle reti familiari e di prossimità, e quello delle attività di volontariato di interesse collettivo, in particolare laddove i soggetti intervengono nella produzione sociale di benessere. La stima è stata elaborata sulla base di una serie di opzioni e di calcoli fondati su selezioni di dati Istat ed elaborazioni sulle quantità di tempo erogato dagli anziani per gli aiuti informali e volontari; ciò è stato messo in relazione con costi orari per prestazioni equivalenti[4].
Le attività gratuite di aiuto e cura informale degli anziani rappresentano una dimensione di grande rilievo, sia in assoluto sia in termini relativi ovvero rapportati al contributo sociale di altri gruppi di età. Difatti, gli over 54 impegnati nell’aiuto gratuito sono circa 4.701.000[5], e garantiscono ogni quattro settimane circa 150 milioni di ore d’aiuto. Queste rappresentano oltre il 50% dell’intero monte ore dell’aiuto informale e gratuito erogato dai cittadini italiani (nel complesso circa 300 milioni di ore, nel corso di quattro settimane), con una particolare concentrazione nell’aiuto rivolto a bambini e minori (circa l’80% delle ore dedicate a questi destinatari), e con una forte presenza anche nell’aiuto ad altri adulti (circa il 40% dell’aiuto complessivo in questa categoria). Il valore di queste attività (al netto dell’aiuto rivolto ai bambini, considerato invece nelle stime dell’aiuto dei nonni destinato ai nipoti) può essere paragonato a un monte retribuzioni di circa 348.660.984 euro per 4 settimane, ovvero 4.532.592.792 euro/anno.
Come risulta anche dal dato sull’aiuto ai bambini, l’impegno più rilevante – e decisivo – delle persone mature e anziane è destinato ai nipoti. Dai dati emerge che in Italia sono presenti circa 6.911.000 nonni. Di questi, 963.000 non si prendono mai cura dei nipoti, mentre 5.948.000 lo fanno, in misura e modalità diverse. Le stime proposte suggeriscono che l’impegno dei nonni possa essere quantificato tra i 103 e i 194 milioni di ore ogni quattro settimane. Il valore del “lavoro dei nonni” – in termini di equivalente retributivo – potrebbe ammontare a una cifra compresa tra 566.600.094 (minimo) e 1.063.541.378 di euro (massimo) per quattro settimane, ovvero fino a un massimo di 13.826.037.914 euro/anno. Se inoltre si considera il risparmio assicurato dal lavoro dei nonni nella cura dei nipoti, ad esempio consentendo alle famiglie di non ricorrere a servizi di accudimento per i bambini – asili nido e baby-sitting – esso si può quantificare in una cifra compresa tra i 495.600.000 euro e i 1.321.600.000 euro annui[6].
Per quanto riguarda l’attività di volontariato, le persone coinvolte con un’età uguale o superiore ai 55 anni sono 304.355, su un totale di circa 826.000 volontari (Istat 2006b). Di questi, i volontari “sistematici”[7] rappresentano il 57,3%, e nelle Opca[8] la loro presenza è ancora più marcata (63,7%). Da ciò si deduce il fatto che l’impegno complessivo delle persone mature e anziane – quantificato in ore di volontariato – è certamente superiore alle altri classi di età dei volontari[9] e tendenzialmente si configura in forme più strutturate e continuative. Se consideriamo le attività di volontariato associabili al campo socio-sanitario e assistenziale, valutando esclusivamente l’impegno dei volontari sistematici, si arriva ad una stima di 41.189.772 ore/anno di volontariato, che possono essere associate a una cifra massima di circa 308.923.264 euro/anno.
Tabella 1, Riepilogo del contributo (in tempo-ore e reddito equivalente) dell’attività di cura/aiuto informale e di volontariato ad opera di persone mature e anziane
Over 54 attivi | Ore erogate all’anno(in migliaia) | Valore equivalente a redditi da lavoro assimilabili(in milioni di euro) | |
Aiuto informale | 4.701.000 | 825.609(al netto dell’aiuto rivolto ai bambini) | 4.533 |
Aiuto ai nipoti | 5.948.000(nonni con nipoti under 13 non co-residenti) | Tra 1.236.000 e 2.328.000 | Tra 7.366 e 13.826 |
Volontariato | 304.355 | 41.190(solo volontari sistematici e attività sociali e sanitarie) | Tra 299 e 309 |
Totale | Oltre 6.000.000(i dati in colonna non sono sommabili, perché i soggetti possono essere gli stessi sebbene impegnati in attività diverse) | Tra 2.102.799 e 3.194.799 | Tra 11.849 e 18.319 |
Fonte: Ires 2009, elaborazioni su dati Istat
Come detto, l’equivalenza reddituale del “lavoro degli anziani” non è la sola dimensione del contributo delle generazioni mature al benessere sociale. Tuttavia, proprio per l’enfasi spesso posta nel discorso pubblico – politico e mediatico – sulle classi di età mature in quanto “generazioni in debito” con quelle successive e nel saldo contributi-benefici nei confronti del welfare, anche il solo dato economico proposto rappresenta un elemento di riflessione. Difatti, tra l’attività di aiuto informale, il sostegno ai carichi familiari in quanto nonni e l’impegno in organizzazioni di volontariato, gli anziani contribuiscono – secondo la pur timida stima risultante dalla ricerca – ogni anno fino a 18,3 miliardi di euro. Considerando il valore del Pil 2009, che ammonta a circa 1520 miliardi di euro, si può sostenere che l’attività gratuita degli anziani corrisponda al 1,2% del Pil[10]. Si tratta di una cifra nient’affatto irrilevante, specie se paragonata ad altre grandezze di solito considerate impropriamente “a debito” degli anziani. Qui di seguito ne sono indicate alcune, solo allo scopo di fornire un dimensionamento relativo delle entità di riferimento: il Fondo nazionale per la non autosufficienza per il 2009 è stato finanziato con soli 400 milioni di euro; il Fondo nazionale per le politiche della famiglia vede uno stanziamento di 185 milioni (137 milioni previsti per 2010); le pensioni di anzianità erogate dall’Inps ai lavoratori dipendenti (2 milioni 233 mila pensioni) nel 2009 ammontavano a circa 45,12 miliardi di euro (dati Inps, Osservatorio sulle pensioni 2010). Senza contare che il valore delle prestazioni pensionistiche assistenziali erogate dall’Inps (pensioni invalidi civili, pensioni ed assegni sociali, indennità di accompagnamento, pensioni di guerra) hanno raggiunto la cifra, nei dati 2008, di 20,4 miliardi di euro (Nvsp 2009).
L’attività gratuita in un sistema di produzione di benessere
Come già posto all’inizio di questo lavoro, l’analisi teorica svolge la funzione di restituire alle attività gratuite di cura/aiuto e volontariato la loro ‘eccezione’ rispetto al mercato. Vale quindi la pena di riprendere e specificare questo discorso per una ricollocazione di quanto detto all’interno di un sistema complessivo di produzione di benessere.
Sia nel caso delle attività di aiuto informale che in quello del volontario il significato di “lavoro” è stato articolato in un senso più ampio di quello generalmente utilizzato nella letteratura economica, in cui generalmente prevalgono le dimensioni classiche di mercato e di merce. La principale caratteristica di queste attività è infatti quella di sottrarsi per definizione ad un riconoscimento economico proporzionale alla natura della prestazione e al tempo dedicato al loro svolgimento, dal momento che esse non sono retribuite e retribuibili, ma vengono in vario modo ricompensate. La ricompensa è semmai riferibile al tipo di riconoscimento sociale attribuito alle specifiche attività e può assumere forme diverse di compensazione delle attività prestate. Diversamente dalla considerazione (specie teorica) data al lavoro per il mercato, ricompense e riconoscimento sociali dell’attività gratuita sono sempre situati e socialmente radicati (embedded) in un contesto culturale, valoriale e di relazioni sociali. D’altra parte, questo radicamento si concretizza anche nel rapporto con il sistema dei servizi e più ampiamente nella cornice prevalente di welfare, le quali ne determinano in certa misura il carattere di centralità, complementarietà o marginalità.
Partendo da queste basi, le possibilità di analisi, lettura, concettualizzazione e collocazione nello spazio teorico del sistema di welfare di queste attività sono di diverso tipo. Alcuni studiosi, più interessati al lavoro familiare informale e volendone porre in evidenza i differenziali di genere, si concentrano sull’estensione del reddito e in generale sulla funzione di riproduzione sociale delle attività non retribuite (Picchio 2003). Altri lavorano sulla definizione dei confini sfrangiati nei quali si muovono le “attività ad alto contenuto relazionale”, tra società, stato e mercato (Ruffolo 1985, De Vincenti e Montebugnoli 1997). Infine, altri ancora – più interessati alla dimensione e al ruolo della partecipazione sociale – pongono attenzione alla valorizzazione di vere e proprie “economie associative” (Paci 2005).
Se guardiamo, ad esempio, al lavoro familiare informale svolto dalle persone mature e anziane, e pensiamo ancora più precisamente all’aiuto prestato dai nonni direttamente ai nipoti e indirettamente ai figli è possibile ipotizzare che per una parte (non irrilevante: visti i livelli di copertura dei servizi di cura per l’infanzia) il lavoro delle madri sia sostenuto in modo decisivo dall’attività gratuita, in chiara funzione di estensore di reddito e più complessivamente di supporto alla funzione di riproduzione sociale[11]. Questi contributi risultano essenziali in taluni casi sia sostenendo, come detto, l’occupazione femminile, sia offrendo un non meno indispensabile contributo economico indiretto, ad esempio attraverso il risparmio ottenuto ricorrendo a servizi prestati gratuitamente e altrimenti reperibili sul mercato, come quello di accudimento e custodia dei figli minori.
Inoltre, nell’enumerare i vantaggi non monetari andrebbero anche presi in esame quelli di cui possono beneficiare gli stessi anziani fornitori di aiuto, in quanto soggetti attivi. Alcuni studi, infatti, pongono in relazione la partecipazione sociale attiva – sia di tipo formale che informale – con livelli migliori di salute, oltre che migliori capacità di autotutela e protagonismo sociale anche dovute a occasioni di informazione e formazione. Questo circolo virtuoso non è tuttavia scontato, difatti la “produttività sociale” degli anziani è una nozione complessa, e comprende diverse attività: “paid work, whether or not based on an employment contract, volunteering or charity work, providing help to family, friends or neighbours, or caring for a sick or disabled person are major examples of socially productive activities in ‘third age’ populations”[12]. Per stimolare tale produttività, specialmente tra le persone mature e anziane, pare emergere la necessità di intrecciare – tenendo conto di ostacoli e bisogni di conciliazione – diverse forme di attività volontaria formale, informale e lavoro vero e proprio, in un “balanced social exchange”[13] capace di interagire a sua volta sul benessere e sulla salute degli anziani.
Infine, le economie esterne generate dall’attività degli anziani non si limitano a quelle attivate nei circuiti di riproduzione sociale – rapporti familiari tra generazioni diverse, genitorialità, relazioni di prossimità – ma potrebbero concatenarsi fondamentalmente ai sistemi dell’economia dei servizi sociali.
Tuttavia, va sottolineato che le economie esterne possono risultare sia positive che negative, essendo determinate da un sistema complesso di relazioni dinamiche. Ad esempio, nel medio-lungo termine l’impegno delle nonne a favore dell’accudimento dei nipoti – nella prospettiva di un incremento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e di un innalzamento dell’età di pensionamento – potrebbe essere ridimensionato. Oppure, si dovrà continuare a contare sul dato di fatto di vite lavorative più brevi e/o difficoltose per le stesse donne mature. Il trade-off è messo in luce dai dati comparativi a livello europeo riportati in figura 1 (Share 2005, p. 173 e seguenti), da cui emerge come la cura sistematica dei nipoti e la bassa occupazione delle nonne, in questo caso under 65, risultino grosso modo correlate, sebbene da una combinazione complessa di fattori, per cui “country differences in rates of looking after grandchildren are due to a combination of the supply side factors (availability of grandparents and childcare resources outside the family) and demand factors (the need for young mothers to ask for help, which is dependent on whether they are in paid employment)” (Share 2005, p. 173).
Figura 1, Percentuale di nonne che dichiarano di badare ai propri nipoti almeno settimanalmente, e percentuale di nonne occupate (tra le nonne under 65 che hanno badato ai propri nipoti negli ultimo 12 mesi)
Fonte: Share project, 2005
Se il quadro fin qui illustrato si inserisce nel contesto degli equilibri attuali tra i gruppi sociali, su un preciso rapporto demografico, intergenerazionale e di genere, nonché su una precisa dotazione di servizi di welfare, le cose in futuro potrebbero risultare differenti, e molto più complicate per il riposizionamento di diversi fattori: dall’orientamento al lavoro delle donne mature alla doppia presenza nella cura contestuale di nipoti e genitori molto anziani e non autosufficienti, fino alla precarizzazione dei rapporti di lavoro per i giovani e agli scarni benefit di cui questi godono.
Pertanto, da una riflessione orientata in modo dinamico, emerge la necessità di esplorare contestualmente tre dimensioni teoriche e di studio: la prima, socio-demografica, al fine di complessificare il soggetto di cui ci si occupa (articolare le generazioni e le coorti di età anziane nelle loro differenze specifiche attuali e future e nelle diverse modalità e gradi del dare/ricevere aiuto e cura, specie alla luce di una crescita tendenziale della non autosufficienza, vd. Micheli 2004). La seconda, sociologico-istituzionale, va nella direzione di collocare e riconoscere la posizione sistemica dell’attività non retribuita di cura e aiuto all’interno dei sistemi di welfare e di un ampio set di indicatori di sviluppo sociale e benessere (i tassi di occupazione femminili, la disponibilità di servizi sociali, la partecipazione sociale e politica, i gradi di fiducia/civicness e capitale sociale); la terza, maggiormente orientata al soggetto, mira a valutare i flussi e i bilanci di risorse, capacità e funzionamenti (nei termini di A. Sen) nei quali agiscono gli individui protagonisti – caregiver e carereceivers – delle attività di cura e aiuto non retribuite (cfr. Addabbo e Caiumi 2003).
Di conseguenza, per rendere meno impressionistico – e semplicistico – il raffronto tra il “bene” prodotto nell’attività gratuita delle persone mature e anziane e il suo valore esteso – in termini di ricadute, sostenibilità e valorizzazione sociale – occorrerà instaurare un circolo virtuoso tra nuovi sguardi sulla realtà, nuovi concetti e la valorizzazione di risorse riemergenti e non marginali all’interno della società.
De Sario e Sabbatini fanno ricerca presso l’Ires nazionale, Via di Santa Teresa 23, 00198 Roma. Questo intervento è stato presentato al convegno “Vivere senza welfare? Federalismo e diritti di cittadinanza nel modello mediterraneo”; Napoli 30 settembre-2 ottobre 2010.
Bibliografia
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Siegrist J. e Wahrendorf M., Social productivity and well-being, p. 1
[Questa analisi è stata pubblicata in Inchiesta 170, 2010]
[1] Le elaborazioni sono state effettuate focalizzando l’attenzione su due gruppi di età: le persone mature con età compresa tra i 55 e i 64 anni, e le persone anziane over 64 (oltre a considerare, naturalmente, diverse altre variabili di stratificazione sociale, come l’occupazione, il sesso e il grado di istruzione).
[2] La ricerca si è conclusa nel marzo 2010; è stata realizzata da un’équipe Ires attiva nell’area Welfare e diritti di cittadinanza composta da: Beppe De Sario (ricercatore), Alessia Sabbatini (ricercatrice), Maria Luisa Mirabile (supervisione e coordinamento scientifico, nonché responsabile dell’area).
[3] Per cui è necessario “ampliare le misure del reddito per includere le attività non di mercato” in particolare misurando come le persone impiegano il loro tempo (raccomandazione 5 del Rapporto). Di recente anche in Italia è stato creato un gruppo di confronto con prerogative sia scientifiche che politiche, coordinato dal network Sbilanciamoci! che sta lavorando ad un documento di proposta programmatica, quanto più possibile condiviso dai diversi attori sociali e istituzionali affinché siano da un lato raccolti, dall’altro contemplati e utilizzati anche nella programmazione politica, indicatori di benessere e sostenibilità alternativi o complementari al Pil.
[4] Dati Istat delle indagini Parentela e reti di solidarietà (2006), Vita quotidiana di bambini e ragazzi (2008) e Le organizzazioni di volontariato in Italia (2006). I “prezzi di servizio” sono stati tratti dai CCNL delle cooperative sociali (per le attività socio-sanitarie e assistenziali equivalenti prestate in organizzazioni di volontariato) e dal CCNL sulla disciplina del lavoro domestico (per le attività di cura e assistenza prestate in modo informale e gratuito all’interno della famiglia e di reti amicali e di vicinato).
[5] Su circa 13 milioni di italiani impegnati in aiuti informali; dati 2003: Istat, Parentela e reti di solidarietà, 2006.
[6] A partire da dati sulla spesa media per servizi di accudimento proposta da Cittadinanza attiva (2009).
[7] Secondo la definizione Istat: i volontari che prestano il proprio impegno associativo in modo organizzato e continuativo.
[8] Ovvero quelle organizzazioni nelle quali il numero di volontari maturi o anziani risulta superiore al 50% dei volontari complessivi (nostra definizione, a partire dall’aggregazione dei dati Istat).
[9] Secondo dati Fivol per le classi di età mature e anziane l’impegno medio settimanale risulta di 5,2 ore (Fivol, 2001).
[10] Va ricordato che tale stima è stata basata su dati Istat (aiuto/cura informale e volontariato) datati al 2003. Nel corso degli anni più recenti, si è assistito da una parte a un forte incremento delle associazioni di volontariato (e presumibilmente anche del numero di associati) che in alcune aree del paese ha superato ampiamente il 50% rispetto all’ultimo dato nazionale disponibile (si confrontino le iscrizioni ai registri regionali del volontariato con i dati Istat 2003). Dall’altra, va considerata la crescita assoluta e relativa della popolazione matura e anziana. Di conseguenza, sia la diffusione che il peso dell’attività di cura/aiuto informale e di volontariato è oggi senz’altro superiore a quella registrata dai dati del 2003.
[11] Senza considerare qui, ad esempio, il sostegno dato agli anziani non autosufficienti che risulta spesso a carico di coniugi anziani o dei figli (a loro volta in età matura); vd. Ires, Famiglie e non autosufficienza. Una survey sul bisogno di cura, suppl. a «Notiziario Inca», 8/9, 2009.
[12] Siegrist J. e Wahrendorf M., Social productivity and well-being, p. 1, (paper disponibile su: http://www.share-project.org/t3/share/fileadmin/AMANDA_Praesentationen/Social_Productivity_Well-being.pdf).
[13] Ibid.
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