Luca Baldissara: Riflessione sul 25 aprile ai tempi del coronavirus

| 24 Aprile 2020 | Comments (0)

 

Luca Baldissara è Professore di storia contemporanea presso l’università di Pisa, direttore della rivista “900. Per una storia del tempo presente” e  direttore scientifico del “Centro studi R60 centro di studi sindacali e di storia contemporanea”, con sede a Reggio Emilia.

 

Commentando sulle pagine de La Stampa le forme e i contenuti della Festa appena trascorsa, Mattia Feltri nel 2015 concludeva ⪻che il 25 aprile rischia di diventare una festa prêt-à-porter, delle cui origini i ragazzi non sanno nulla, e che ognuno si prende e si modella addosso, con toni involontariamente comici o volontariamente drammatici⪼. Era un modo di osservare come le varie parti in causa tentassero di apporre sulla giornata festiva il proprio brand identitario. Così, si scorreva dalle grida salviniane contro l’Europa, l’euro, l’immigrazione, a quelle grilline contro il fascismo renziano, le une e le altre accomunate nella narrativa demagogico-populistica della lotta ai “regimi” ed ai loro sgherri (l’Ue, il Pd, le banche, gli scafisti). Oppure, si praticava uno sforzo di attualizzazione, ricercando questioni e soggetti su cui riversare rappresentazioni militanti, ad esempio quelle di Laura Boldrini sui migranti partigiani nei paesi d’origine, o quelle di Marco Rizzo, per il quale ⪻l’anti-fascismo è anche anti-capitalismo, altrimenti è fuffa⪼. I commenti ed i resoconti del 25 aprile, insomma, agli occhi di Feltri erano ormai “annotazioni di cronaca”, costrette tutt’al più a registrare variegate espressioni di costume, quando non di folklore, a ricordarci che ⪻è tutto finito, come il bipolarismo⪼. In quel “tutto è finito” andava a condensarsi una riflessione sul mutamento nel tempo della natura del 25 aprile quale festa civile della Repubblica. Prima di trasformarsi nel bank holidaydella Repubblica post-ideologica, il 25 aprile aveva costituito nell’Italia del periodo 1945-89 – comunque e anche nel conflitto più duro – uno spazio politico comune di legittimazione democratica sul terreno antifascista dei partiti e delle culture politico-istituzionali che avevano traghettato il paese dalla dittatura alla Repubblica, scritta la Costituzione, quindi accompagnato la Repubblica stessa nella ricostruzione e nella modernizzazione postbellica. Con la svolta degli anni Novanta, l’implosione del sistema dei partiti di massa aveva trasformato quella giornata in un’arena delle pratiche di reciproca delegittimazione tra le parti a confronto, che rinviavano in fondo a due Italie difficilmente componibili: da una parte, quella berlusconiana, erede delle pulsioni di revisione costituzionale del craxismo e del cossighismo, sdoganatrice della destra radicale e neofascista, portatrice di una (im)morale politica pornografica che traduceva la dialettica degli interessi e le pratiche di governo in mercimonio, scambio opportunistico e spregiudicato tornaconto personale; dall’altra, quella del centro-sinistra, aggregazione difficilmente componibile di ciò che sopravviveva – geneticamente modificato in ambiente maggioritario – del solidarismo cattolico e di quello comunista, del patriottismo costituzionale erede dell’antifascismo, del pensiero critico delle diverse componenti della sinistra “a sinistra” del Pci.
Queste due Italie si sarebbero confrontate per oltre un decennio, dal 1994 al 2006, e inerzialmente per un poco ancora, trovando proprio nel 25 aprile un habitat politico-culturale, oltre che simbolico, di scontro. L’agire congiunto nell’ultimo decennio dell’eclissi del berlusconismo, della crisi del Pd, dell’apparente successo di populismi e particolarismi, sembra aver tolto qualsiasi patina di dialettica politica al confronto/scontro tra gli schieramenti, peraltro sempre più fluidi, vischiosi, mutevoli. L’unico collante che è parso resistere è stato il potere: Renzi nel 2016 ammoniva i giovani democratici riuniti a congresso che ⪻stare al potere non è né un bene né un male⪼, invitandoli ad ⪻abbandonare “coperte di Linus e simboli”⪼ per giocare ⪻la carta del potere, perché non ha un valore né positivo né negativo: è la carta per fare le cose⪼. Con coerenza perseguendo tale indirizzo d’azione, puntando dritto sulla Costituzione per depotenziarne la funzione di contrappeso ad ogni concentrazione eccessiva di potere, sfiorando con un dito – nel referendum in tema costituzionale del 2016 – ciò che non era riuscito a Craxi, Cossiga, Berlusconi. In tale contesto, a Renzi appariva dunque funzionale raccontare l’antifascismo come rassicurante ed unitario “atto d’amore” per la libertà: chi è – o chi può essere – contro la libertà? Questo sintetico excursus ci ricorda che – come ogni festività civile – il 25 aprile è destinato a svolgersi perennemente entro un campo di forze in cui il significato storico della data è destinato a entrare in rotta di collisione con la dimensione del presente, con le urgenze dell’attualità, con le convenienze politiche del momento. Tanto più perché questa data è strettamente intrecciata con i fondamenti civili, culturali, politico-istituzionali della Repubblica condensati nella Costituzione, che una parte del paese – una destra dalla consistenza variabile, ma mai irrilevante, talora anzi inquietante – non ha mai del tutto accettato e fatto propri. Si può forse dire che l’antifascismo costituzionale è stato per l’Italia qualcosa di analogo al repubblicanesimo per i francesi, una risorsa politica che ha garantito la tenuta dell’assetto democratico del paese. Tranne che Oltralpe la destra repubblicana neo-gollista non ha mai davvero oscillato – come è accaduto in Italia con Tambroni e poi assai più incisivamente con Berlusconi dal 1994 in poi – verso l’apertura alla destra radicale. Già questo potrebbe essere un primo, forte argomento a favore della difesa, del rilancio, della valorizzazione del 25 aprile. Perché se è vero che in Italia spesso la destra ha assunto toni caricaturali, è pur vero che le sue forme estreme – che a taluno possono apparire folkloriche – sono però la parte emersa di un sentire più diffuso e radicato.
Che dire dell’apparente buon senso di Alessandra Mussolini, che ritiene addirittura una provocazione parlare del 25 aprile in questa situazione pandemica e di difficoltà economica, ovvero di quello espresso dal capogruppo della Lega alla Regione Emilia-Romagna, che giudica una follia la presenza dell’Anpi alle celebrazioni quando sono vietati assembramenti e chiuse le chiese? E che pensare della cruda e cinica ironia dell’esponente forlivese dello stesso partito che inneggia all’andata in piazza dei vecchi partigiani auspicandone la decimazione da parte del virus, oppure della compiaciuta e anacronistica proposta di Fratelli d’Italia e Casa Pound di sostituire il 4 novembre al 25 aprile (un aggiornamento della proposta di Giorgia Meloni del 2015, quando candidava alla sostituzione il 24 maggio), o ancora dello scialbo ed intempestivo suggerimento del Secolo d’Italia di fare di quella data la festa della liberazione dal virus, per non tacere infine del triviale apotismo di Sallusti che – non diversamente da Di Stefano – applaude al coronavirus che ⪻ci ha fatto pure il regalo – uno dei pochi – di liberarci, per la prima volta nel Dopoguerra, della retorica del 25 Aprile, quantomeno della sua rappresentazione fisica nella quale, peraltro, non c’è più un partigiano a pagarlo oro⪼? Tutto ciò evitando di trattare del volgare ed aggressivo liquame riversato on line e sui social da parte della galassia neofascista (e neonazista), già visibile e virulenta nei mesi scorsi attraverso la melassa dei proclami anti-immigrati, delle minacce a Liliana Segre, per sfociare nel razzismo anti-cinese – non meno preoccupante di quello antisemita – manifestatosi nelle prime giornate di quarantena. A documentare di come atteggiamenti precedentemente stigmatizzati o censurati in sede politica sono ora tollerati, se non ritenuti accettabili, grazie alla legittimazione concessa loro a partire dagli anni Novanta da partiti politici e parlamenti. Un fenomeno che peraltro non ha riguardato solo l’Italia, ma un po’ tutta Europa, dalla Francia all’Ungheria, dall’Olanda alla Polonia.
Oggi, 25 aprile 2020, quale significato attribuire dunque ad una data innestata così faticosamente nella storia e nella memoria collettiva? Come conciliare passato e presente, le necessità e le persistenze del ricordo con le pressioni e le urgenze dell’attualità? Qualsivoglia considerazione al riguardo non può prescindere dal fatto che questa ricorrenza cade in un momento in cui assistiamo – per la prima volta proprio dal 1945, dall’istante originario della festa – ad una sospensione senza precedenti delle libertà individuali, ad una estesa e condivisa paura sociale (paura del contagio e della malattia, paura della morte, paura degli effetti della pandemia sul “dopo”), ad una caotica frammentazione territoriale della risposta politico-amministrativa di governo dell’emergenza sanitaria, ad una diffusa sensazione di incertezza e preoccupazione circa la crisi economico-sociale che realisticamente si ritiene alle porte. La portata traumatica di quanto accaduto in queste settimane ha favorito il diffondersi di metafore belliche: se in una prima fase si è spesso affermato che “siamo in guerra”, ora, allentata un poco la pressione sanitaria, si ripete quindi che dovremo affrontare i problemi del dopoguerra.
Il sindaco di Bari e presidente dell’Anci, Antonio Decaro, ha con forza dichiarato che ⪻questa è una guerra. Sanitaria e ora anche economica. E i nostri cittadini hanno bisogno di noi, dello Stato […] E, proprio come nel dopoguerra, è necessario anche sostenere il commercio e l’impresa⪼. Dalla prospettiva della prima linea medica, Christian Salaroli, anestesista rianimatore a Bergamo, ha restituito l’intensità del dramma di quell’area con parole efficaci nella loro crudezza: «si decide per età, e per condizioni di salute. Come in tutte le situazioni di guerra. Non lo dico io, ma i manuali sui quali abbiamo studiato […] è come per la chirurgia di guerra. Si cerca di salvare la pelle solo a chi ce la può fare. È quel che sta succedendo». Domenico Arcuri, commissario all’emergenza, ha sviluppato il paragone tra i morti per bombardamenti della Milano 1940-45 a quelli della Milano 2020, “cinque volte di più”, per affermare che ⪻è clamorosamente sbagliato comunicare un conflitto tra salute e ripresa economica. Senza salute, la ripresa durerebbe un battito di ciglia, bisogna tenere insieme questi due aspetti⪼. Del resto, Confindustria per prima ha introdotto il richiamo all’economia di guerra (ed in effetti non sono mancati gli imprenditori che in Lombardia e altrove hanno esposto i lavoratori al contagio, così come i loro omologhi degli anni Quaranta li esponevano ai bombardamenti, affinché il ciclo produttivo non si interrompesse), e Mario Draghi ha sostenuto, in un articolo apparso sul Financial Times, che ⪻davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra⪼, contestualmente evocando la necessità dell’intervento statale attingendo al debito pubblico, proprio come accadde durante la Grande guerra, quando lo sforzo bellico fu sostenuto non già dal prelievo tributario ma dall’indebitamento dello Stato. E Fabiano Fabiani, giornalista e manager pubblico nel dopoguerra, intervistato da Walter Veltroni per il Corriere, ha previsto che «ci sarà un nuovo inizio, come il dopoguerra, ho fiducia che il Paese riesca a riprendersi come allora», a sua volta consigliando di ⪻non avere paura del pubblico, non cedere alle ideologie liberiste⪼. Non troppo diversamente, Enzo Collotti ha asserito che ⪻richiamare oggi lo spirito del 25 aprile vuol dire ridare al Paese il coraggio di una ricostruzione morale oltre che materiale⪼. Non è che non si comprenda come tali affermazioni e immagini siano sollecitate dalla realtà che ci circonda, dall’esigenza di dare senso e prospettiva a quanto di inedito stiamo vivendo con i materiali che nel nostro immaginario del passato e dell’esperienza possono strutturarlo tanto razionalmente quanto emotivamente. Tuttavia, non solo non credo che il paragone – pur evocativo della straordinarietà degli eventi in corso – regga, ma nemmeno lo reputo produttivo sul piano della comprensione di quanto va accadendo, né della definizione di linee di comportamento fondate su un’adeguata consapevolezza critica del presente.
A costo di poter apparire crudo, o forse un tantino cinico, non posso non rilevare anzitutto che la portata di letalità del virus non è nemmeno lontanamente comparabile a quella dei conflitti richiamati (nemmeno i dati riportati da Arcuri su Milano, pur con maggiore plausibilità del campione, sono in realtà concettualmente assimilabili). Piuttosto, occorrerebbe un surplus di discussione sulla percezione della morte nella nostra società, che la occulta quasi alla stregua di una vergogna. Ricordate le body bags con i corpi dei militari caduti nelle “missioni di pace”, fatte rientrare nei paesi occidentali quasi di nascosto in base alla convinzione che una società democratica, consumistica e in pace da decenni, non possa accettare un eccesso di morti in guerra? Lo “scandalo” delle colonne militari di bare in partenza da Bergamo è consistito proprio in ciò: nel rendere brutalmente visibile la morte da virus, che ha così preso forma concreta rispetto ai numeri degli asettici bollettini della Protezione civile o alle evocazioni giornalistiche dei decessi nei reparti di terapia intensiva. La morte, i corpi straziati dalla malattia, sono stati sottratti alla nostra vista, così come il dolore dei congiunti, impediti persino di accompagnare i defunti nell’ultimo viaggio. Ben altro dall’esperienza bellica, dove la morte era tutt’intorno, visibile, dove l’esperienza della violenza e del dolore era quotidiana, diffusa, condivisa, sin quasi ad ottundersi nel suo continuo rinnovarsi. La morte di guerra era così un’esperienza collettiva, di una società nel suo complesso. Mentre la morte da virus, e per i numeri reali, e per le modalità con cui avviene, è invece oggi un’esperienza separata dal quotidiano, da contenersi come l’epidemia stessa, limitata a chi la subisce, vissuta soggettivamente o al più nel nucleo familiare. Il lutto, che poteva essere sublimato collettivamente dalla società di guerra, resta confinato nell’esperienza del dolore al singolare. Davvero condiviso oggi è semmai il vissuto della clausura forzata, del distanziamento sociale, del lavoro o dello studio a distanza, della segregazione domestica dei bambini e degli anziani. La dimensione individualistica – del dolore, del disagio psicologico, della paura, dell’insofferenza per il presente e della preoccupazione per il futuro – è assai enfatizzata ed espansa rispetto a quella collettiva pur celebrata retoricamente dai media. In una società già da anni ripiegata in se stessa, atomizzata, parcellizzata, frammentata, in cui la sfera del collettivo è stata disincentivata, proposta come un retaggio del passato, frustrata dalla competizione individualistica, la capacità di affrontare i mutamenti profondi generati dalla pandemia appare ipotecata, almeno potenzialmente condizionata in negativo dal senso di isolamento in cui l’individuo si trova da solo ad affrontare l’imponderabile, il rischio, il pericolo, la minaccia. Non è questa una novità indotta dal coronavirus. Da anni noi viviamo in una emergenza permanente: l’incertezza del domani è ora provocata dalla crisi economica, ora dalla catastrofe ambientale e climatica, ora dall’esposizione individuale alla malattia, alla vecchiaia, all’imprevisto.
Nel quotidiano vi è un senso dell’apocalittico, una percezione continua di una minaccia incipiente che appare ormai la regola. Si pensi alle pagine dei giornali ed ai lanci dei telegiornali: urlati, minacciosi, preoccupati, allarmistici. Si pensi ancora alle previsioni del tempo nella nostra epoca, e vi prego non sorridete: quanti temporali, bufere, eventi estremi si sono previsti e quanti si sono realizzati? Intendiamoci: non voglio banalizzare, o addirittura negare, il sussistere di problemi economico-sociali, di pericoli ambientali, di fenomeni di disgregazione sociale. E tuttavia, è la grida catastrofista che pare la cifra della discussione intorno ad essi, la modalità prevalente con cui dare le notizie, la ragione con cui giustificare gli atti di governo. E quale effetto ha tutto ciò su un’opinione pubblica da anni sottoposta alla pressione del pericolo incombente? Si è messa sul banco degli imputati l’inclinazione leghista alla vellicazione della paura, all’eccitazione collettiva contro l’immigrato, contro l’UE, o, agli inizi della quarantena, contro la minaccia cinese. Ma in fondo, benché questa strategia ne sia un’espressione estrema ed estremista, non è forse questo il codice comunicativo dominante nell’informazione, nella politica, persino nella cultura? Abbiamo forse dimenticato come nel passaggio dalla fase rassicurante a quella apprensiva ed inquietante dell’emergenza gli stessi esperti, gli scienziati, oltre ai governatori delle regioni, hanno optato, consapevolmente o meno, per un linguaggio estremo, allarmante, facente appello alla paura ed alla pericolosità, proprio mentre mostravano al contempo le incertezze della scienza di fronte ad un virus “nuovo”, talora pure litigando tra loro? E cosa comporta il ricorso generalizzato all’evocazione della “catastrofe” come regola del discorso pubblico? Non solo l’abbattimento della complessità della questione che di volta in volta si intende proporre all’attenzione, favorendo l’atteggiamento plebiscitario a favore o contro l’una o l’altra tesi (e già qui l’intelligenza critica dei fenomeni sociali va svanendo). Ma, di più, conduce alla necessaria presa d’atto della eccezionalità della situazione. Del resto, di fronte alla catastrofe – evento minaccioso in sé eccezionale – cosa si può fare se non ricorrere a pratiche e strumenti eccezionali? Lo stato di necessità imposto dal virus ha provocato lo stato d’emergenza – o stato d’eccezione – imposto dallo Stato. Siamo stati segregati, impediti negli spostamenti, costretti al lavoro in casa perché la gravità della situazione sanitaria lo imponeva. Non intendo mettere in discussione che ciò rispondesse ad effettiva necessità, nonostante la varietà delle risposte che si sono prodotte – e ancora si stanno manifestando – da paese a paese. Osservo piuttosto che l’emergenza e l’eccezione si vanno configurando come la normalità e la regola. Abbiamo accettato una limitazione pesante della nostra libertà, come mai prima d’ora. Abbiamo accolto gli sfottò dei governatori – talora le minacce di un’ulteriore accentuazione punitiva delle misure restrittive – per chi manifestava irrequietezza nella clausura. Abbiamo tollerato che il paternalismo muscolare dei governatori si rovesciasse repentinamente in appelli alla ripresa dell’attività produttiva (del resto, di fronte all’eccezionalità della crisi economica che va profilandosi…).
Abbiamo atteso l’ora X della liberazione dalla clausura, ora accettando che il ritorno alla normalità (quale normalità?) si allontani nel tempo: l’autunno 2020? la primavera 2021? addirittura il 2025 ipotizzato dagli scienziati di Harvard? Ripeto: non voglio e non posso mettere in discussione l’essenza della minaccia portata dal covid-19. Ma far rilevare invece che in questa congiuntura abbiamo accettato di ridefinire con inedita radicalità e profondità comportamenti e condotte collettive, di vita quotidiana e di lavoro, di vita affettiva e sociale, sulla base di un’emergenza che appare ora prolungarsi ad libitum, tramutarsi in uno stato morboso cronico, persistente se non irreversibile. O, come si è più volte scritto in queste settimane, nel primo anello di una catena epidemica e di eventi-limite che si susseguiranno nei prossimi anni. Ciò che dobbiamo chiederci è insomma quale sia la direzione di trasformazione della società tracciata dall’invenzione – nel senso della costruzione di una percezione collettiva – di uno stato d’eccezione duraturo quale si va configurando l’attuale. Perché esso non si limita a definire uno strumento per fronteggiare il rischio per la salute. Ma perché sta accelerando fenomeni sociali già in atto e suscitandone – o prefigurandone – di nuovi. Si pensi alla precarizzazione del lavoro, presentata come frutto delle torsioni del mercato del lavoro e della riorganizzazione degli apparati produttivi, che ha finito con l’indurre una deregolamentazione del rapporto di lavoro ormai entrata nella stessa legislazione, così tramutando in normalità ciò che appariva effetto di una crisi. Si pensi al lavoro a distanza, presentato prima come una possibilità, oggi divenuto una necessità, in tal modo favorendo la solitudine del lavoratore e le forme di autosfruttamento. Si ponga mente alla didattica a distanza in ambito scolastico ed universitario: da opzione congiunturale appare sempre più una prospettiva che, nell’ipotesi migliore, condurrà alla didattica integrata (on line e in presenza), e nella peggiore al trasferimento in ambito informatico di parte consistente della formazione (con la perdita della creatività del momento pedagogico e della lezione, con la ridefinizione del rapporto docente/studente, con la mutazione del sapere critico e della conoscenza in saperi tecnici e asettiche competenze). Si potrebbe continuare nell’elencazione. Ma è evidente che ciò che si profila è un’accelerazione del processo di atomizzazione sociale in atto da anni, che nel presentare come “obbligate” talune soluzioni di riorganizzazione della società ne ha favorito una ristrutturazione complessiva che ha ridotto le garanzie e le tutele delle componenti più deboli ed esposte, ha ampliato le diseguaglianze, ha rovesciato gli equilibri tra politica e economia a favore della seconda nella definizione degli obiettivi di governo, ha precarizzato i rapporti di lavoro, ha sottratto il senso del futuro e della possibilità di un mondo più equo e solidale a gran parte delle nuove generazioni, ha spinto verso l’individualismo competitivo e il solipsismo.
⪻Non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento⪼, scriveva il 28 novembre 1943 Giaime Pintor al fratello Luigi, motivando la propria scelta partigiana, che lo avrebbe portato alla morte pochi giorni dopo. Queste parole racchiudono il senso profondo, l’etica individuale e di una generazione che prese le armi e si oppose attivamente al fascismo. Ma consentono anche di gettare un ponte tra il passato e il presente, di cogliere quanto di attuale c’è nella scelta di allora pur senza attualizzarla in un mondo completamente diverso, di individuare una “utilità” della conoscenza della storia per l’oggi e per il futuro, di restituire un senso al 25 aprile, intrecciando storia, memoria, attualità. Per quella generazione era la guerra che aveva imposto la “presa di possesso del concreto”, che ⪻ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale⪼. La consapevolezza di sé, di un’esperienza individuale della guerra – che in realtà era e poteva sempre più essere collettiva – spingeva ad una ⪻corsa verso la politica⪼ quei giovani. Ciò era destinato secondo Pintor a riprodursi ⪻ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere a un estremo pericolo⪼. Per questa ragione decideva di trasferire la propria esperienza ⪻sul terreno dell’utilità comune⪼. Questo, che per Pintor costituiva il “senso morale” della mobilitazione collettiva, è, oggi come allora, il valore intimo, essenziale, necessario della scelta di impegnarsi per l’utilità comune.

24 aprile 2020

Category: Editoriali, Epidemia coronavirus, Politica, Welfare e Salute

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