La condizione degli anziani in Italia

| 5 Novembre 2011 | Comments (1)

La condizione degli anziani in Italia non ha avuto ancora l’attenzione che merita se si considera la portata dell’invecchiamento della popolazione che non solo è più forte che in ogni altro paese d’Europa, ma è secondo solo al Giappone. Il fenomeno riguarda tutte le regioni del paese con connotazioni in parte comuni e in parte specifiche  in quanto riflesso delle particolarità del contesto locale. Inoltre in Italia si registra un intreccio particolarmente complesso tra questioni di natura demografica e questioni relative al mercato del lavoro.  All’elevato tasso di invecchiamento della popolazione corrisponde infatti una presenza della popolazione attiva nelle classi di età da lavoro più anziane (55-65 anni) modesta e comunque molto più bassa che negli altri paesi europei: il tasso di attività di questi  anziani in Italia nel 2009 era del  26,1% mentre il valore medio per i paesi europei a noi più prossimi socialmente e con una recente storia comune (l’Europa dei 15) era del 42,7%.

La prima questione affrontata riguarda le cause e le caratteristiche dei processi di invecchiamento ed è emerso che ai livelli attuali concorrono cause di natura diversa: non solo l’allungamento delle aspettative di vita, che porta a un aumento in numero assoluto degli anziani, ma anche una riduzione dei tassi di fecondità e di natalità che determinano, per la riduzione delle classi di età infantili e giovanili,  un aumento del peso relativo di quelle anziane. Ma entrambe queste cause richiedono a loro volta spiegazione. I fenomeni demografici – il libro è basato su questa convinzione – hanno alla loro origine altri processi di tipo sociale, economico e culturale. Così, per l’aumento del numero degli anziani i progressi della medicina, in un contesto di miglioramento delle condizioni socio-economiche e igienico-sanitarie, hanno portato alla riduzione delle cause di morte precoce contribuendo   all’invecchiamento  (e in Italia prevalentemente all’invecchiamento in buona salute) della popolazione. Per quanto riguarda il secondo fattore, la riduzione delle nascite, le cause prese solitamente in considerazione sono molteplici dato che la possibilità di programmarle e controllarle si intreccia da un lato con i generali processi di emancipazione e dall’altro lato  con la mancanza di certezze per il futuro delle giovani coppie e la carenza di servizi per l’infanzia.  Di questo si tratta nel primo capitolo a partire dalla modificazione della struttura demografica del paese mettendo a confronto i cambiamenti avvenuti con quelli di altre nazioni significative da questo punto di vista: confronto dal quale emerge per l’Italia un ritmo di cambiamento particolarmente intenso, e più intenso che in Europa, inferiore solo a quello del Giappone. L’analisi dà poi spazio alle differenze territoriali e alle novità che le caratterizzano con il passaggio del primato negativo del crollo delle nascite dalle regioni del Centro-nord a quelle del Mezzogiorno per finire con i primi segnali di controtendenza dovuti sostanzialmente alla immigrazione.

Ma l’allungamento della vita media non è l’unica novità di questa epoca nel nostro paese. Dal punto di vista sociale, così come negli altri paesi sviluppati, ce ne è un’altra: la diffusione su vasta  scala delle pensioni. Iniziata già da prima per alcune categorie, essa si è generalizzata nel corso del Novecento riscattando (parzialmente) gli anziani dalla dipendenza delle famiglie. Si è perciò dedicato un capitolo (il secondo) al mutare delle condizioni di vita degli anziani nel corso della storia e a una tematica  collegata che riguarda le rappresentazioni sociali della vecchiaia e lo status degli anziani nelle diverse società. La prima questione qui affrontata riguarda il concetto stesso di vecchiaia, il significato attribuito a questo termine. Che vuol dire essere vecchi e a che età si comincia a essere vecchi? Per quel che riguarda quest’ultimo punto va notato che nelle analisi demografiche e statistiche attuali l’età di ingresso nella vecchiaia viene fissata solitamente a 60 (o 65) anni e  questo stesso limite di età compare nella letteratura nonché nella regolamentazione giuridica e istituzionale almeno da qualche secolo. E questo stesso era il limite di età anche in epoca romana (due millenni addietro). Ma se ora il limite è riferito alla capacità lavorativa e alla sua riduzione, soprattutto per il lavoro manuale, allora si riferiva alla capacità di portare le armi. Questo non significa che l’età di ingresso nella vecchiaia  e la realtà della vecchiaia siano  determinate solo da aspetti naturali, fisiologici; ed è infatti  riconosciuto universalmente dagli studiosi  che esiste una  costruzione sociale dell’età. Ma, come nota lo storico Paul Johnson [1998], questi aspetti non vanno sovradimensionati; l’esperienza della vecchiaia nel passato non è né semplicemente il risultato di una costruzione sociale nè semplicemente una risposta naturale all’invecchiamento fisiologico.

Atteggiamenti, comportamenti e stili di vita degli anziani sono cambiati nella nostra società rispetto a cinquant’anni addietro con un passaggio repentino quale mai si era registrato prima. È l’emergere della terza età, come sottolinea il grande demografico storico Peter Laslett [1992] sottolineando la ricchezza di opportunità che si presentano oggi a chi, ancora in buona salute e senza un significativo peggioramento delle condizioni di reddito, può sottrarsi alla stanchezza e alla pesantezza del lavoro e utilizzare liberamente il tempo a disposizione. Ma c’è da ricordare che Lasltett introduce il concetto di terza età, come età della vita circoscritta tra la ‘seconda età’, quella adulta, e la ‘quarta età ‘ quella della dipendenza. La terza età e il pensionamento non sono  quindi più visti come il limbo e la morte sociale come nelle prime ricerche di Anne Marie Guillemard [1980], non più come  il ritirarsi, il disengagement, delle analisi sociologiche  sugli anziani degli anni cinquanta e sessanta, bensì come il perfezionarsi di un più articolato quadro di situazioni possibili per gli anziani e i grandi anziani (che tra l’altro sono i due termini usati generalmente nel libro per indicare chi sta sopra o sotto i settantacinque anni).

Appare comunque evidente che la scansione tripartita delle età consolidatosi con lo sviluppo del modello economico fordista e comunque con il consolidamento delle moderne società industriali – prima età della formazione, seconda età del lavoro e della produzione e  terza età del pensionamento e del consumo – non funziona più come prima perché sono venute meno le condizioni strutturali che avevano dato luogo a quel modello. Ciò nel duplice senso che il lavoro si è destrutturato e che molto ‘riposo’ – a volte forzato– si rileva ora anche nella età del lavoro, mentre in quella che era una volta la terza età ci sono ancora la possibilità e le condizioni psichico-fisiche per svolgere attività lavorative (di mercato o fuori mercato) oltre che per partecipare ad attività formative. In effetti, soprattutto se si tiene presente la realtà del nostro paese, si può dire che sul tema della destrutturazione delle età della vita si è un  po’ esagerato. Indubbiamente periodi di (più o meno forzato) riposo si registrano nella età adulta così come nella concezione (o ideologia) del life long learning capita che gli adulti partecipino a (più o meno utili) attività formative. C’è inoltre un cambiamento dello stile di vita, causa ed effetto insieme di una sorta di estensione delle pratiche di vita quotidiana della età adulta negli anni della terza età, anche perché la riduzione dei benefici di welfare (in particolare di quelli previdenziali) rende problematiche le condizioni nelle quali dovrebbe svolgersi il riposo stesso. Ma per il resto le tre età dal punto di vista istituzionale, sociale e culturale scandiscono ancora l’esistenza della popolazione italiana. Su queste tematiche ci si soffermerà nel secondo capitolo e  si ritorna poi in maggior dettaglio nel capitolo sesto.

Torniamo ora alla situazione nel mercato del lavoro dei lavoratori più anziani – ancora legalmente e convenzionalmente capaci di lavorare – e ai loro bassi tassi di occupazione, cui è dedicato il capitolo terzo. Per quanto il fenomeno si presenti in maniera particolarmente grave ed evidente in Italia, esso è da tempo all’ordine del giorno in tutta Europa, come mostra il fatto che due vertici del  Consiglio d’Europa (Stoccolma e Barcellona)  abbiano  dedicato  particolare attenzione a questa tematica, impegnando i governi  a perseguire un  innalzamento della soglia di età  di uscita dal lavoro e a realizzare un aumento significativo del tasso di occupazione degli anziani. A una decina di anni di distanza si può dire che i risultati delle (scarse) azioni dei governi sono stati in sostanza irrilevanti. In Italia abbiamo oggi pochi anziani presenti nel mercato del lavoro e, tra questi, pochi disoccupati per il semplice fatto che è altissima la percentuale di ritirati dal lavoro, con o senza pensione, a partire dai 55 anni.  Una questione trattata in questo capitolo è appunto la fuoriuscita precoce dal lavoro. La letteratura internazionale sull’argomento sottolinea come la riduzione effettiva della età di uscita dall’occupazione (e di fatto dal mercato del lavoro), per via dell’abbassamento dell’età di pensionamento, abbia rappresentato  in passato lo sbocco prevalente in tutti i paesi rispetto alle difficoltà del mercato del lavoro con accordi tra imprenditori e rappresentanti dei lavoratori, che hanno finito per scaricare sul sistema pensionistico le difficoltà della situazione. E questo è stato in larga parte vero anche per il nostro paese dove si registrano seri problemi  per  gli ‘anziani più giovani’ con rischi di spreco di capitale umano e peggioramento delle loro condizioni economiche.

Naturalmente la rilevanza della tematica dell’invecchiamento non si limita alla semplice questione del mercato del lavoro (o del gravare di un crescente numero di anziani sul sistema previdenziale). Dal punto di vista della qualità della vita l’aspetto lavorativo è certamente fondamentale ma le sfere di vita da prendere in considerazione sono molteplici e riguardano anche i rapporti familiari, la collocazione nelle reti di solidarietà, i servizi, le attività culturali, l’intensità e la qualità della vita di relazione. Queste sono le tematiche affrontate nella seconda parte del libro, a partire dal capitolo quarto che è dedicato ai cambiamenti nella famiglia e alla collocazioni degli anziani al suo interno. Il processo di allungamento e restringimento della famiglia messo in evidenza da sociologi a cominciare da Chiara Saraceno [2008, 2001] e demografi ha riguardato in sostanza padri e figli: i nonni sono esclusi anche da questo processo. L’analisi ha mostrato come nel corso degli ultimi decenni in Italia sia aumentato significativamente il numero complessivo delle famiglie a fronte di una scarsa modificazione dell’entità della popolazione totale, mentre un aumento ancora più impressionante si è registrato tra le famiglie di soli anziani e soprattutto di anziani soli. Ciò ha portato anche a una modifica dei processi di socializzazione dei bambini con l’allontanamento della figura dei nonni, ormai raramente coabitanti, e con un aumento della solitudine degli anziani. Il fatto poi, ormai sempre più oggetto di attenzione da parte  della grande stampa, che i nonni, e soprattutto le nonne, nella loro terza età debbano essere attivi nella cura dei bambini, custodendoli e portandoli da un luogo all’altro (casa propria, case dei genitori, scuola o asilo, palestre e quant’altro) non cambia il quadro. Tutto questo infatti non controbilancia la perdita del ruolo dei nonni rispetto ai quali  autrici francesi (in primo luogo Claudine Attias Donfut [1998]  auspicano un rinnovamento che superi le funzioni attuali di baby sitter e recuperi gli elementi di compagnia, di autorevolezza,  di protezione e di divertimento di quando i bambini appartenevano alla maisonnerie (alla casa, secondo una traduzione un po’ impropria). Non si tratta di una visione nostalgica, ma della ricerca di nuove soluzioni per attivare la vita sociale degli anziani (e non solo) e ridurre la spesa per servizi di welfare pubblici e privati con un miglioramento delle condizioni dell’accudimento dei bambini.

I radicali cambiamenti che hanno avuto luogo nella famiglia con la diminuzione drastica di quelle pluri-generazionali e la crescente indisponibilità di persone  dedicate al lavoro di cura all’interno delle famiglie stesse  è di estremo rilievo e si intreccia con le tematiche del welfare. Nel libro è affrontato il modo in cui in Italia si riesce a venire incontro alle esigenze degli anziani per i servizi di cura tradizionalmente gravanti sulla famiglia. Di questo si parla nei capitoli finali, in particolare nel quinto e nel settimo, che trattano della condizione degli anziani nel sistema di welfare e dei complessi equilibri che si determinano nel welfare mix italiano. Si parte da una questione storica che è quella della presenza degli anziani nell’area della povertà e delle forme di assistenza già in epoca premoderna, con le politiche per i poveri in quello che è stato definito “il welfare prima del welfare”. Come è noto, il periodo più difficile per gli anziani è stato quello della rivoluzione industriale e del primo capitalismo moderno, quando per effetto della penetrazione del mercato e della mercificazione spinta della forza lavoro, i tradizionali rapporti familiari e comunitari furono travolti e gli anziani furono abbandonati a se stessi e alla pubblica e privata carità.  Nelle società a forte livello di industrializzazione ancora a metà del secolo scorso – fino al miglioramento e alla generalizzazione del sistema di welfare e dei pensionamenti – essi rappresentavano la parte più importante dell’area della povertà e, detto per inciso, la persistenza di caratteri agrari e rurali  della società italiana fino a quell’epoca aveva tenuto gli anziani come categoria  specifica fuori dal pauperismo: insomma gli  anziani erano semplicemente poveri come gli altri negli ambienti poveri.

Il grande miglioramento si è avuto con lo sviluppo del welfare state che nel nostro paese si realizza negli anni successivi al secondo conflitto mondiale e  prosegue ben oltre i trente glouriouses, il trentennio di sviluppo post bellico che termina a metà degli settanta con la crisi del modello di sviluppo fordista. Il sistema italiano di welfare, come è noto, rientra pienamente all’interno di quello che è stato definito ‘modello di welfare mediterraneo’,  caratterizzato tra le altre cose da una prevalenza della spesa pensionistica rispetto a quella destinata ai servizi. L’analisi ha mostrato come la situazione degli anziani all’interno di questo modello sia peculiare perché da un lato essi godono – o comunque hanno goduto fino a ora – di trattamenti pensionistici (e in genere trasferimenti monetari) relativamente ‘generosi’, dall’altro invece soffrono per la carenza di servizi: sia di quelli avanzati di assistenza domiciliare, sia di quelli più tradizionali rappresentati dalle residenze per anziani, case di riposo pubbliche o private. Rispetto agli altri paesi europei questa è una grave carenza dell’Italia: le residenze per anziani sono meno numerose non solo rispetto agli altri paesi europei  in generale ma anche rispetto a paesi dell’area mediterranea come ad esempio la Spagna. In questo ambito si è accennato ai termini e ai limiti del dibattito italiano sull’età di pensionamento caratterizzato da un sovradimesionamento degli aspetti demografici e, per converso, una sottovalutazione delle difficolta dei lavoratori anziani a trovare nuove possibilità di occupazione in caso di licenziamento.

Il rapporto degli anziani con le loro famiglie ritorna ancora nel capitolo settimo che affronta i nessi tra cambiamenti demografici e sistema di welfare. Una delle connotazioni principali del modello di welfare mediterraneo – oltre quelle già accennate – è rappresentata dal  carico di responsabilità che grava sulle famiglie in particolare per il lavoro di cura, compresa quella degli anziani. Con il passare degli anni i cambiamenti nella famiglia illustrati nel capitolo quarto hanno reso non più praticabili gli equilibri precedenti basati sul lavoro non mercificato delle donne presenti in casa, senza però scalfire con ciò i valori e la ideologia familista. Il ruolo della famiglia rimane centrale: solo che si sposta dalla fornitura del lavoro di cura alla organizzazione e gestione di esso. Emerge così una soluzione – tutta italiana, o, più precisamente propria delle società dell’Europa del Sud – che è quella dell’affidamento degli anziani in casa a una figura nuova, quella dell’assistente domestica, ‘la badante’. Si tratta di un equilibrio che ormai riguarda una percentuale significativa delle famiglie italiane. Le cifre in genere fornite hanno ovvi limiti di attendibilità ma si può ragionevolmente supporre che si tratti di almeno un milione di casi. In questo capitolo sono stati analizzati anche i contenuti del lavoro di queste inedite figure professionali, in massima parte straniere, e i loro complessi rapporti con le famiglie. Rispetto al welfare mix si può dire che tutti e tre gli agenti del welfare entrano in campo: la famiglia che gestisce il processo ricorrendo al mercato internazionale della forza lavoro anche grazie all’aiuto dello stato, che – sulla base dei meccanismi di funzionamento tipici del sistema di welfare mediterraneo – versa trasferimenti monetari sotto forma di pensioni varie o assegno di accompagnamento. Al brain drain dai paesi del sud del mondo si aggiunge così quella che, con un gioco di parole, studiose del mercato del lavoro hanno definito care drain.

Per concludere si è voluto dedicare una attenzione particolare alle prospettive e in particolare alla tematica dell’invecchiamento attivo, una  tematica che ha stimolato un filone di ricerca caratterizzata da una visione molto, e forse non del tutto fondatamente, ottimista.  Ad esso si contrappone una visione, anzi una ideologia, di segno opposto che è quella dell’agisme, secondo un termine coniato negli anni trenta. L’agisme si caratterizza per una svalorizzazione della vecchiaia e per una sorte di ossessione demografica, la “demografia catastrofista” denunciata da molti demografi e studiosi del welfare. Questa preoccupazione per l’eccessivo numero di vecchi si è espressa con maggior forza in diversi periodi e in diversi paesi: così in Francia nei momenti di più acceso nazionalismo per la preoccupazione di una densità bassa e decrescente della popolazione,  in America, e non solo, nell’epoca del capitalismo fordista per il numero eccessivo di persone poco produttive rispetto alle esigenze della organizzazione del lavoro, e attualmente (anche nel nostro paese)  per l’ eccessivo numero delle persone che in condizione di inattività gravano sul sistema di welfare. Queste preoccupazioni finiscono per avere sempre una implicazione punitiva nei confronti degli anziani e mostrano l’incapacità di vedere una alternativa riguardante un impegno e un ruolo non passivo degli anziani nella società.

Su questa prospettiva di impegno si basa invece l’idea dell’invecchiamento attivo. Si tratta di un concetto che ha molteplici dimensioni e che implica in primo la capacità di restare fisicamente autonomi, di vivere senza dover essere accuditi o aiutati per le necessità della vita quotidiana, ma anche la possibilità di restare impegnati nel lavoro ( di mercato o volontario) il più a lungo possibile  e di essere eventualmente soggetto attivo e non oggetto di cura. Molta letteratura sull’argomento sottolinea questa prospettiva ed è interessante notare come  anche libri di qualità si dilunghino nei capitoli  conclusivi sulla necessità di una futura vita attiva per gli anziani presentando tuttavia scarse proposte concrete e scarsi riferimenti a esperienze da usare come modello. E quando dalle parte analitica si passa a quella propositiva il rigore e la documentazione scientifica tendono a cedere il passo alle speranze e agli auspici.  Perciò in questo volume si è preferito fare solo un semplice accenno a questo ambito della discussione, approfondendo invece l’analisi delle questioni concrete così come si presentano oggi in particolare nel nostro paese.

Un’ultima considerazione riguarda il titolo del libro, La terza età. In effetti in esso si tratta anche della situazione dei ‘grandi anziani’ (e quindi della ‘quarta età’) nonché delle persone più giovani e  ancora in età lavorativa (gli older workers nella letteratura anglosassone) con difficoltà di lavoro. Ma il nucleo centrale delle questioni affrontate nel libro e oggetto oggi di dibattito – sul lavoro, le pensioni e lo stile di vita – si riferisce a quella fase della vita definita appunto  ‘terza età’.

 

Questo testo di Enrico Pugliese è l’ introduzione al suo libro La terza età, Bologna, Il Mulino, 2011.

Category: Welfare e Salute

About Enrico Pugliese: Enrico Pugliese (1942) è professore ordinario di Sociologia del lavoro presso la Facoltà di Sociologia della Sapienza-Università di Roma. Dal 2002 al 2008 è stato direttore dell'Istituto di ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRPPS-CNR). La sua attività di ricerca ha riguardato principalmente l'analisi del funzionamento del mercato del lavoro e la condizione delle fasce deboli dell'offerta di lavoro, con particolare attenzione al lavoro agricolo, alla disoccupazione e ai flussi migratori. Si è occupato, inoltre, dello studio dei sistemi di welfare, con particolare attenzione al caso italiano e all'analisi delle politiche sociali. Tra le sue pubblicazioni recenti: L'Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne (Il Mulino, 2006); Il lavoro (con Enzo Mingione, Carocci, 2010); L'esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con M. Immacolata Maciotti, Laterza, 2010); La terza età. Anziani e società in Italia (Il Mulino, 2011).

Comments (1)

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  1. progettosentinella ha detto:

    almeno per egoismo lavoriamo perchè la vita degli anziani sia migliore. le condizioni migliori ce le ritroveremo quando saremo anziani, noi. speriamo!

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