Ivan Blečić e Arnaldo “Bibo” Cecchini: Elogio della fragilità. Città e territorio per l’epoca (post-) pandemica

| 16 Luglio 2020 | Comments (0)

Elogio della fragilità: Città e territorio per l’epoca (post-)pandemica

Riceviamo da Francesco Indovina il  16 luglio  2020

 

Sunto. Abbiamo visto che gli effetti della pandemia hanno colpito le persone e le strutture più fragili; fragili in diversi sensi. E gli effetti sulle persone, gruppi sociali, località più deboli e fragili sono stati molto più negativi di quanto sarebbe stato possibile. A partire da alcune di queste fragilità, in questo breve saggio affrontiamo tre questioni:
1. Perché una buona politica e una buona pianificazione territoriale dovrebbero proteggere e rafforzare le persone, i luoghi e i sistemi più fragili?
2. Come potrebbero farlo, tenendo conto dei vincoli e della difficoltà a prevedere (soprattutto l’imprevisto)?
3. C’è un assetto territoriale, di organizzazione delle funzioni urbane e di riequilibrio tra città densa e territorio che può essere (più) antifragile?
Prestampa (preprint). Di prossima pubblicazione sul volume a cura di Nicolò Fenu con riflessioni sulle aree interne a partire dalla pandemia del Covid, edito da LetteraVentidue.

Elogio della fragilità.Città e territorio per l’epoca (post-)pandemica

di Ivan Blečić e Arnaldo “Bibo” Cecchini 

Questo testo è scritto usando il genere grammaticale maschile quando si riferisce a persone, ruoli e nomi collettivi (salvo l’opportunità del contesto). Questa scelta, casuale, è stata fatta per semplificare il testo, senza presumere il genere delle persone alle quali si riferisce.

 

Abbiamo visto che gli effetti della pandemia hanno colpito le persone e le strutture più fragili; fragili in diversi sensi.

  1. In primo luogo le morti prodotte dal virus sia direttamente che indirettamente, per l’indebolimento o persino il collasso del sistema sanitario [1], sono in Italia avvenute soprattutto tra gli anziani e tra essi quelli che avevano una o più patologie croniche; inoltre le case di riposo o RSA come si usa chiamarle sono state pesantemente colpite, sia per l’età e le condizioni di salute dei residenti, sia per la carenza di dotazioni e di protocolli di gestione dell’infezione: il contagio si è esteso al personale e ai parenti, prima della chiusura della possibilità di fare visite agli ospiti. Nel mondo poi, in molti paesi tale effetto diretto della pandemia ha accentuato le diseguaglianze radicate, colpendo di più molte popolazioni svantaggiate e – elemento di rilievo per le nostre osservazioni – seguendo un visibile pattern geografico che ricalca le disuguaglianze spaziali preesistenti [2,3] ed esacerba fenomeni della “secessione dei ricchi” [4].
  2. In secondo luogo, le misure di confinamento hanno determinato molti più disagi e difficoltà in abitazioni anguste o sovraffollate e senza spazi o pertinenze affacciate sull’esterno (balconi, cortili, giardini) o in quartieri con scarsa presenza di negozi di generi alimentari, di servizi e di spazi pubblici [5]; quindi sono state molto più disagevoli e meno efficaci per persone appartenenti alle classi sociali più fragili.
  3. La lunga chiusura delle scuole e la sostituzione delle attività didattiche con forme della cosiddetta “didattica a distanza” (DAD) non è stata vissuta allo stesso modo da tutti [6,7], provocando più difficoltà a scolari e studenti appartenenti alle classi sociali più disagiate, quindi con meno dotazioni di apparati tecnologici, di spazi adeguati, di ampiezza di banda (una carenza particolarmente significativa in alcune aree del Paese, quelle a bassa densità abitativa), ma è stata particolarmente penalizzante per scolari e studenti con disabilità [8], che avevano bisogno di essere seguiti da insegnanti di sostegno.
  4. In quarto luogo la maggior parte dei lavori e delle professioni che non hanno potuto usufruire del cosiddetto “smart working” sono attività a basso salario, a volte precarie, a volte parzialmente o totalmente privi di tutele, non di rado “informali” o “in nero”: la retorica sugli “eroi” che hanno permesso al Paese di andare avanti (a partire dagli operatori delle professioni sanitarie e dagli addetti alla pulizie in ospedali e residenze per finire agli operatori delle nettezza urbana) non può nascondere che gran parte di questi “eroi” sono molto in basso nella scala delle retribuzioni, della considerazione sociale, e – a volte – dei diritti.
  5. Le zone del Paese a bassa densità (sia abitativa che di relazione: è questa una distinzione rilevante, su cui torneremo) hanno in generale avuto tassi di contagio inferiore, tanto da essere stati destinazione di sicurezza e di benessere per famiglie benestanti; tuttavia laddove sono state raggiunte da focolai infettivi hanno dovuto fare i conti con una sottodotazione di servizi, specie sanitari, che ha aumentato il rischio di esiti gravi del contagio.
  6. Le zone del Paese ad alto inquinamento, ad elevata concentrazione di attività produttive [9] e soprattutto ad elevata connettività, che alcuni indizi ci dicono essere più importante della mera densità urbana [10], hanno invece avuto un’incidenza del contagio significativamente maggiore: quale sia la correlazione e il rapporto causale può essere difficile da determinare, ma anche qui si tratta di effetti che colpiscono settori di popolazione economicamente più deboli.
  7. Infine le scelte di politica economica degli ultimi anni che hanno contemporaneamente ridotto in cifra assoluta il finanziamento alla sanità e spostato una parte di queste risorse verso la sanità privata, oltre che accettare in modo acritico una logica aziendalistica nelle politiche di gestione, che sovente hanno pesantemente deterritorializzato i presidi sanitari, hanno aggravato gli esiti della malattia, che spesso grave di per sé, non ha – anche per queste ragioni – potuto essere tempestivamente curata.

  Insomma: persone, gruppi sociali, località più deboli e fragili hanno avuto effetti molto più negativi della pandemia di quanto sarebbe stato possibile. Questo elenco ci serve per affrontare tre questioni:

  1. Perché una buona politica e una buona pianificazione territoriale dovrebbero proteggere e rafforzare le persone, i luoghi e i sistemi più fragili?
  2. Come potrebbero farlo, tenendo conto dei vincoli e della difficoltà a prevedere (soprattutto l’imprevisto)?
  • C’è un assetto territoriale, di organizzazione delle funzioni urbane e di riequilibrio tra città densa e territorio che può essere (più) antifragile?

I

Abbiamo speso molte parole nel declinare il concetto di antifragilità in relazione ai sistemi urbani [11–13], cercando di argomentare che una buona pianificazione debba favorire l’antifragilità complessiva del sistema e quindi debba essere essa stessa antifragile:

“Un oggetto o un sistema antifragili sono – a volte o spesso – migliorati dalle perturbazioni e dalla volatilità, ovvero guadagnano dal cambiamento.
In buona sostanza, mentre oggetti o sistemi sono fragili quando molti tipi di perturbazioni, anche lievi, possono rovinarli o distruggerli, e gli oggetti o i sistemi robusti o resilienti sono sostanzialmente indifferenti a gran parte delle perturbazioni (perché non le avvertono nel caso della robustezza, perché le assorbono e si “rimettono in sesto” nel caso della resilienza), oggetti o sistemi antifragili sono quelli per cui alcune perturbazioni non solo non li distruggono o danneggiano, ma possono essere benefiche.” [11]

Ma esistono sistemi antifragili? Seguendo Taleb [14]:

“Questa qualità è alla base di tutto ciò che muta [e soppravive] nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico, la sopravvivenza delle aziende, le buone ricette […], lo sviluppo di città, civiltà, sistemi giuridici, foreste equatoriali, la resistenza dei batteri… persino la vita della nostra specie su questo pianeta.”

Per noi, come per Taleb, le città (non le singole città, ma la città come particolare modalità di insediamento umano assieme all’organizzazione sociale che essa comporta) sono un sistema antifragile:

“Occorre fare attenzione quando diciamo che un sistema come la città è antifragile, perché con ciò non si vuol dire che ogni singola istanza di quel sistema lo sia o che lo sia per sempre; molte città, la maggioranza di quelle nate sono morte, dopo una vita più o meno lunga: quel che si è mantenuto, evoluto, rinnovato, rafforzato è il sistema che chiamiamo città (la cui “istanza” più antica pretende, a torto, di avere diecimila anni di vita).
Una pianificazione antifragile è quella che favorisce l’antifragilità di una città. Questo comprende anche di evitare – via negativa – ciò che potrebbe fragilizzarla.” [11]

Anche se abbiamo più volte sottolineato che favorire l’antifragilità delle città non implica che tutte le sue componenti siano, possano o debbano essere antifragili, forse non abbiamo abbastanza insistito su questo aspetto:

“[…] una buona pianificazione può difendere i sottosistemi fragili con vincoli, sostegni, misure mitigative, progetti: l’importante è che questi interventi rafforzino la capacità del sistema di rispondere nel modo più “naturale” possibile e di evolvere proteggendo le zone fragili, anche con ridondanze.
Insomma, pianificazione antifragile è un insieme di interventi e procedure dotato di scopo, che può dover difendere sotto-sistemi ed elementi che di volta in volta possono essere fragili, robusti, resilienti o essi stessi antifragili e prevederne il mantenimento o lo sviluppo.” [11]

Giova ripeterlo, un sistema antifragile nel suo complesso è composto di molte parti, alcune delle quali è bene che siano fragili e vengano protette, altre robuste, altre resilienti, altre permanenti, altre caduche ed effimere:

“Ci potremmo porre il problema se l’antifragilità della città potrebbe darsi a scapito della sopravvivenza dei cittadini, come avviene per l’evoluzione naturale che è antifragile per quanto riguarda la specie e non i singoli individui, o più in generale per quanto riguarda i viventi e non le singole specie.
Possiamo dare due risposte, l’una è che è così: nell’evoluzione della città gruppi sociali e funzioni scompaiono e si trasformano mutando di natura; l’altra risposta però è che la città senza abitanti non esiste e che gli abitanti della città si chiamano cittadini (un termine che ha una serie di implicazioni): ci pare di poter affermare (ma se ne potrebbe discutere) che senza un forte grado di coesione sociale le città divengono fragili; ovviamente come si ottiene la coesione sociale è un altro tema che andrebbe approfondito; anche qui semplificheremo dicendo che – in buona sostanza e in ultima istanza – la coesione sociale risiede su libertà, equità ed eguaglianza.
Ci piace pensare che la fragilità possa essere anche per le persone una caratteristica da apprezzare, da coltivare, da proteggere.” [11]

 Qui ci interessa fare di questo il fuoco della nostra riflessione.

  C’è una frase attribuita a Margaret Mead (anche se non ci sono riferimenti precisi a questa presunta affermazione dell’antropologa statunitense [15,16]), che è tornata in voga negli ultimi mesi nella quale l’antropologa indica il primo segno di civiltà: “Un femore rotto e poi guarito è la prova che qualcuno si è preso la cura di stare con la persona che è caduta, ha legato la ferita, ha riparato la persona in un luogo sicuro e l’ha assistita a riprendersi. Aiutare qualcun altro a superare le difficoltà è dove la civiltà inizia.”

Farsi carico delle persone fragili, aiutare gli anziani a sopravvivere, sostenere le persone con disabilità, investire risorse collettive nella salute e nella sopravvivenza dei più deboli, respingere l’idea di ottimizzazione implicita nelle teorie eugenetiche, è parte di un’efficace modalità di sopravvivenza della specie umana, una specie sociale come poche altre: la protezione della fragilità è una componente della “strategia” antifragile della nostra specie. E questo vale anche per la società e per la più specifica delle formazioni sociali tipica dell’essere umano, la città.

Ecco perché tra i sei fattori chiave che determinano la fragilità dei sistemi urbani abbiamo inserito [11] quelli della mancata coesione sociale, ovvero dell’iniquità e della disuguaglianza: un fattore che si pone su un livello diverso dagli altri cinque, ed è legato all’assenza della costruzione del consenso e della condivisione, in sostanza che le scelte possano favorire diseguaglianze e iniquità, minando dall’interno la coesione sociale.

Ovviamente i singoli elementi di un sistema non sono stabilmente fragili o antifragili, così è per gli individui, così è per le strutture sociali; altrettanto ovviamente fragilità e antifragilità dipendono dal tipo di perturbazione: si può essere fragili per certi shock e antifragili per altri; e infine è ancora ovvio che non tutto è bene che si conservi o che venga difeso, a volte il posto giusto per conservare qualcosa è nella memoria, altre volte è meglio l’oblio. Un sistema sociale in grado di proteggere e rafforzare i suoi elementi più deboli accoglie una maggiore diversità è in grado di evolversi, avendo maggiore plasticità più opportune ridondanze, imprevisti exattamenti, più stabile senso di comune appartenenza.

In ultima istanza, ciò che ci porta a ragionare della triade fragile–robusto/resiliente–antifragile come strumento di analisi ed operativo, è lo sforzo di introdurre nelle politiche pubbliche in modo organico la consapevolezza della complessità e dell’ineliminabile incertezza del futuro, accoppiata con l’attenzione e la cura per gli esiti collettivi futuri. In questo senso, interrogarsi su “che cosa fragilizza o antifragilizza un sistema territoriale” non è esattamente la stessa cosa che interrogarsi su “che cosa è giusto o ingiusto”. E occorre riconoscere che alla seconda domanda, di natura etico-politica, non si può rispondere trattandola come un mero problema di efficacia dell’azione e delle politiche in condizioni di complessità e incertezza. Ebbene, la nostra tesi di fondo resta che, sebbene si tratta di due domande distinte, ad esse non si può rispondere indipendentemente una dall’altra. In altre parole, che le risposte alle due domande devono essere normativamente e operativamente compatibili tra loro [12].

 Forse abbiamo risposto alla prima domanda.

II

 Ci avviciniamo così a rispondere al secondo quesito, quello sui limiti della possibilità di prevedere, che però va pari passo con il fatto che azioni e progetti, individuali o collettivi, siano inevitabilmente proiettati al futuro, che al futuro guardano e che un futuro aspirano a realizzare. In formula breve, la questione resta quella di “come pensare al futuro, senza prevederlo”.

Faremo a questo proposito due insiemi di osservazioni, uno generale e uno specifico al contesto della pandemia del Covid.

Previsione forte vs. previsione debole. In via generale, è ormai incontrovertibile la difficoltà profonda, a volte l’impossibilità, della previsione forte dei sistemi sociali, data la loro doppia complessità: quella puramente meccanica e quella sociale. Qui per previsione forte intendiamo quell’aspirazione di predire con elevate accuratezza e precisione che cosa accadrà, quando, dove, con quale intensità e come conseguenza di quale azione. Abbiamo già sostenuto [11,12] però che questa impossibilità della previsione forte non deve indurre al fatalismo dell’inazione, come non induce a ciò l’intero mondo vivente, e come non ha indotto le società umane, che hanno sviluppato, spesso inconsapevolmente o come fenomeni emergenti, strategie, euristiche, pratiche, meccanismi, istituzioni, e in ultima istanza la stessa cultura, per affrontare le incertezze, per favorire la possibilità degli esiti favorevoli, e per tenersi alla larga delle possibili fonti di catastrofi, endogene e esogene, sociali e naturali.

Per questo, concretamente, abbiamo suggerito che vi è un diverso possibile atteggiamento nelle pratiche di governo del territorio, anziché fondato sulla vana aspirazione della previsione forte, basato su qualcosa che potremmo chiamare previsione debole: una previsione che non aspira a predire con elevata accuratezza e precisione che cosa accadrà, quando, dove, in seguito a quale politica o azione pianificatoria, bensì che esplori le possibili risposte del sistema alle perturbazioni, alla volatilità, agli eventi di bassa probabilità, al fine di rilevare la loro fragilità, robustezza, resilienza o antifragilità. A chiunque tocchi prendere decisioni, tale pratica di previsione debole è concretamente e operativamente più accessibile ed è, specie nel caso delle decisioni collettive, spesso quel che basta.

Due tipi di rischio. Tra le molte cose che l’esperienza del Covid è stata per tutti noi, crediamo che sia stata anche un’accelerata esperienza di apprendimento collettivo circa la natura di due tipi di rischio molto diversi. Ciò che infatti si è rivelato in tutta la sua nitidezza è che non tutti i rischi sono uguali, e che si corrono gravi pericoli se si confondono rischi idiosincratici, non-sistemici, non-moltiplicativi, o a distribuzione statistica con “code sottili” (thin-tailed, per esempio la probabilità di essere investiti da un’automobile, o la stima della prevalenza e degli esiti clinici delle patologie note), con i rischi che invece sono sistemici, moltiplicativi, con distribuzioni statistiche con “code spesse” (fat-tailed, come nel caso di un patogeno ignoto potenzialmente ad alta contagiosità). Sono i rischi di questo secondo tipo, quando presentano possibilità per quanto minuscola di irreversibili catastrofi, a giustificare reazioni collettive rapide, decise, e all’insegna della massima precauzione [17]. Ingiustamente caratterizzato come “irrazionale paranoia”, osserviamo piuttosto come questo atteggiamento sia precisamente il più razionale a fronte dell’incertezza profonda di una condizione che minaccia la sopravvivenza sistemica.

Mediocristan vs. estremistan. Per usare espressioni di Taleb [18], la distinzione tra i due tipi di rischi è quella tra i fenomeni che appartengono al mondo del “mediocristan” e quelli che appartengono al mondo dell’“estremistan”. Alcuni all’inizio della pandemia hanno rimproverato il senso comune dell’eccesso di allarmismo [19–21], sostenendo per esempio che la probabilità di morire in un incidente stradale o dall’influenza comune è maggiore da quella di coronavirus. Tra questi collochiamo anche qualche noto studioso che invitava a “raccogliere più dati” prima di agire aggressivamente con le politiche di contenimento [22]. E tuttavia questo atteggiamento è precisamente frutto della confusione tra i due tipi di rischi, quello idiosincratico, non-sistemico, non-moltiplicativo, a distribuzione statistica con “code sottili”, appartenente al modo del “mediocristan”; con quello sistemico, moltiplicativo, con distribuzioni statistiche con “code spesse” appartenente al mondo dell’“estremistan”.

Un esempio. Per spiegarci un semplice esempio sarà sufficiente. Sarà stato vero, grosso modo fino la metà del mese di marzo 2020, che il numero di morti dagli incidenti stradali a livello annuale fosse maggiore di quelli da coronavirus (al momento di questa scrittura a metà luglio 2020 questo non è più vero: le morti dagli incidenti stradali in Italia negli ultimi 10 anni si collocano tra 3 e 4 mila all’anno [23] mentre le morti dirette e registrate dal Covid hanno raggiunto 35 mila). Ma anche senza questo ex post factum, già nel febbraio 2020 si sarebbe dovuto sapere che per esempio la probabilità è nulla che le morti dagli incidenti stradali triplichino o decuplichino (da 3 mila a 9 mila o a 30 mila) o che scendano a zero. Mentre, nel caso dei fenomeni moltiplicativi con effetti sistemici e proprietà ignote, come il contagio dal nuovo coronavirus, sempre nel febbraio 2020, si sarebbe dovuto sapere che il numero dei decessi sarebbe potuto essere di molti, imprevedibili, ordini di grandezza maggiore dalla prima manciata di casi che si registravano in Italia. Due fenomeni; due tipi molto diversi del rischio (“mediocristan” vs. “estremistan”); memorie di cecità e in ultima istanza di irresponsabilità di chi, comprendo ruoli di autorità e autorevolezza, li confondeva; la consapevolezza che anche senza poter prevedere con precisione, ciò che si sapeva bastava per agire.

Le “code spesse” delle epidemie, due insegnamenti. A proposito delle proprietà statistiche delle epidemie e delle pandemie, vogliamo citare un istruttivo risultato tecnico a cui sono addivenuti Taleb e Cirillo in un recente articolo [24]. Il contributo mostra in modo convincente che le epidemie e le pandemie sono un fenomeno a distribuzione statistica con “code spesse”. In altre parole che, osservando le passate epidemie degli ultimi 2.500 anni, gli esiti di una epidemia o pandemia in termini di decessi, sostanzialmente per la natura moltiplicativa dei processi di contagio, osservano una distribuzione statistica tale da rendere non trascurabile la possibilità di un esito finale catastrofico. Questa natura moltiplicativa, in presenza di un patogeno ignoto che abbiamo appreso essere ad alta contagiosità, rende altamente incerti e fragili le modellizzazioni epidemiologiche convenzionali, dato che i loro risultati (per esempio in termini di previsione del numero di contagiati e deceduti) sono estremamente sensibili sia alle “caratteristiche tecniche” ancora incerte del virus, ma soprattutto alla prontezza e alla natura della risposta collettiva, in termini di azioni, di comportamenti, di riduzione della connettività, di misure di contenimento, tracciamento e isolamento del contagio.

Da questo si possono trarre due insegnamenti. Il primo riguarda l’uso dei modelli nella previsione. L’esperienza del Covid ha certamente rafforzato la necessità di maggiore trasparenza e umiltà negli sforzi modellistici, alla luce dell’incertezza delle assunzioni di partenza, dell’attenzione al contesto, al framing, alle conseguenze sulle decisioni e sull’opinione pubblica [25], anche se non vogliamo negare l’utilità dei modelli come guida e strumenti di esplorazione dei futuri possibili. Tuttavia, il fondamentale insegnamento che si deve trarre è che in presenza di fenomeni con coda spessa le previsioni puntuali delle singole variabili sono altamente incerte, a volte insensate, e che la più utile cosa che possiamo ottenere è la comprensione delle proprietà della distribuzione del fenomeno [26]. Il secondo insegnamento invece è che le politiche pubbliche sono davvero tutto.

Pratica scientifica vs. pratica della gestione del rischio. C’è poi un’ultima cosa che crediamo l’esperienza del Covid ci abbia insegnato, ed è lo scarto tra la pratica scientifica e la pratica della gestione del rischio collettivo (nelle politiche pubbliche). Spesso nel dibattito di questi mesi abbiamo sentito accorati appelli alla scienza, ad affidarsi alla scienza anziché al contagio delle voci infondate, alle “fake news” o alle più o meno fantasiose teorie cospirative. In gran parte ben venga, ma ci preme qui appunto evidenziare una seconda distinzione, spesso trascurata e che ci pare invece di suprema rilevanza. La distinzione che ci interessa parte dalla tesi che per la presa delle decisioni collettive, per le politiche pubbliche, e per l’assunzione dei comportamenti, l’appello ad una ingenua idea della scienza potrebbe non bastare. Se, secondo quest’idea ingenua, la scienza è un insieme di protocolli, fondati su dati empirici, che col tempo consentono di stabilire il grado di fiducia con cui possiamo dire che una cosa è vera (per esempio qual è l’Ro?, e la mortalità?, come si trasmette?, e le mascherine servono?), il problema della gestione del rischio, e soprattutto della gestione del rischio in condizioni di incertezza profonda (nella quale ci trovavamo a gennaio di quest’anno, e nella quale in molti sensi ancora ci troviamo), è che cosa fare, quali azioni e precauzioni intraprendere quando non si sa e quando si è ignoranti, specie se tali azioni e decisioni riguardano rischio sistemico e “questioni di vita e di morte”. Per un approfondimento su questo punto, ci permettiamo di rimandare alla istruttiva keynote lecture di Yaneer Bar-Yam al convegno ICCSA2020 i primi di luglio [27]. Una grande lezione anche perché mostra che la complessità a volte, forse spesso, si può affrontare con principi semplici.

È ovviamente un errore giocare alla roulette russa; ma anche se per un fortuito caso si vince e non si finisce con la pallottola in testa, rimane che è stato un errore averci giocato. Magari qualcuno potrebbe sostenere che è una libera scelta individuale, ed entro certi limiti potrebbe non avere tutti torti. Ma certamente non si gioca alla roulette russa con un intero sistema collettivo.

Pensare al futuro, senza prevederlo. Al momento di questa scrittura l’ondata epidemiologica in Italia sta apparentemente scemando, e assistiamo ad un incerto tentativo di ripristino e di “ritorno alla normalità”. Ma sarebbe potuto andare peggio, e lasciamo all’immaginazione gli effetti che un perdurare della fase acuta avrebbe potuto avere non solo in termini di decessi e di potenziale (ancora largamente sconosciuto) aggravamento dei quadri clinici anche cronici ed invalidanti di lunga durata delle persone direttamente colpite dalla malattia, ma anche negli impatti di medio-lungo periodo sul sistema sanitario, sulle attività economiche, sul disagio abitativo, sulla garanzia dei servizi essenziali, sino a mettere a repentaglio la stessa tenuta del tessuto sociale e dello stato di diritto.

Non è solo questa possibilità dell’esito peggiore, che sarebbe potuto accadere, e che può ancora accadere in futuro, che ci impone un profondo ripensamento anche dell’organizzazione e della gestione dei sistemi territoriali, per rafforzarne la robustezza, la resilienza e l’antifragilità. Un adattamento dei sistemi territoriali a partire dal ripensamento della distribuzione delle dotazioni di servizi e attività può renderci non solo meglio preparati per i futuri rischi sanitari, ma anche contribuire ad una maggiore sostenibilità ambientale, a dotare il territorio di servizi, attività e opportunità, riducendo così le disuguaglianze spaziali, estendendo il diritto alla città, e scoprendo modelli dove le capacità umane che scaturiscano da tale diritto siano assicurata anche per chi non vive nella città convenzionalmente intesa.

 

III

 Quest’ultimo passaggio ci porta al terzo quesito che pone al centro l’organizzazione spaziale originata dagli effetti della pandemia e sulle possibili risposte.

Vogliamo indicare una cernita di possibili linee di azione, partendo da due strategie di fondo (la prima è quella della città di prossimità, la seconda quella del riequilibrio tra città e territorio, che comprende anche le aree interne e la cosiddetta “nuova ruralità”), e che poi toccano questioni delle tecnologie e del loro uso, del chi paga, e degli strumenti di valutazione e di supporto alle politiche pubbliche.

  1. La riscoperta della prossimità; verso un “localismo frattale”; una grande opera. La prossimità non può essere abbandonata anche nell’epoca della globalizzazione estrema e delle tecnologie telematiche. Questa è una lezione che nasce dalle pratiche di vita, di lavoro e di consumo, nel periodo degli effetti della pandemia.

Tra le tante riscoperte (che rischiano di rimanere provvisorie) del periodo acuto della crisi epidemiologica, accanto a quelle del ruolo decisivo del pubblico nel far vivere individui e collettività, alla constatazione che sì esiste “una cosa che si chiama società”, c’è quella che una certa dose di “autosufficienza” può essere necessaria a livello nazionale, regionale, territoriale, e che un sistema antifragile non può basarsi su astratti criteri di efficienza e ottimizzazione (come è stato pensato possibile per le dimensioni e la localizzazione dei servizi sanitari e degli ospedali), o di competitività in termini di prezzi di produzione (come è stato pensato per i prodotti agricoli o per i presidi medicali), o di “eccellenza” (come si è più volte detto per la distribuzione e il finanziamenti delle sedi universitarie e degli enti di ricerca), non senza qualche ripensamento [28].

Il che non vuol dire che efficienza, prezzo, qualità non siano una parte delle variabili da tenere in considerazione, ma vuol dire che la capacità di un sistema di reggere gli effetti delle perturbazioni, di assorbire gli effetti di un evento molto improbabile (cigno nero o bianco che sia), di riprendersi ed evolversi implica anche ridondanze, plasticità, exattamenti, immagazzinamenti, duplicazioni; così come implica che un certo tipo di beni e servizi vengano prodotti localmente anche se “non conviene”, ma anche che vi siano possibilità di scambi tra “serbatoi” sovra-locali, tra reti connesse.

È venuta di moda la cosiddetta “città del quarto d’ora” (o di venti minuti) [29,30] e non è una brutta cosa se avviene senza nostalgia, senza comunità immaginarie, senza moduli prefissati (come quello delle cosiddetta neighborhood unit [31]), e in una dimensione futura, ma a partire dalla “città realmente esistente”, come diremo meglio tra poco. Di belle idee o di felici intuizioni ce ne sono, ma per fare politiche e determinare scelte possibili servono numeri, serve sapere quanto costano e soprattutto serve capire a chi giovano e chi paga. Serve sapere qual è la situazione reale e come in ogni punto della città si dà (o non si dà) una potenzialità di vita urbana (e si parla di qualità e di taglia degli alloggi, di spazi pubblici, di marciapiedi, di dotazioni e di servizi, di sicurezza, …). Si può saperlo per ogni “punto” e anche per differenti persone, ricchi e poveri, bambini, giovani e vecchi, donne e uomini, sani e malati, con abilità diverse; si può pensare a come interventi mirati possano elevare queste potenzialità e come alcuni di essi inneschino processi a cascata.

Il nostro non è un appello ad un “localismo piatto” e ad un’autosufficienza autarchica della città di prossimità. Vogliamo piuttosto promuovere la consapevolezza della natura multi-scalare del problema e delle possibili strategie per affrontarlo, dove un’idea di “localismo frattale” [32] con le opportune forme di coordinamento e integrazione [33] diventano la vera risorsa dell’antifragilità e delle politiche antifragili.

Così, non vogliamo proporre un’idea ingenua e romantica di prossimità (i villaggi urbani), ma argomentare che un sistema urbano in cui vi sia un’elevata accessibilità a beni e servizi da parte di ogni persona, a seconda delle sue esigenze e della sue capacità, in tempi ragionevoli, a piedi o con mezzi “dolci” di mobilità, oltre che intrinsecamente più giusto sia anche meno fragile e più capace di proteggere le persone più fragili, ma anche in grado di adattarsi a shock esogeni ed eventi imprevisti, e – a volte – imparare da essi.

In Europa è bene partire dalla città realmente esistente. Perché il numero di abitanti complessivo non crescerà molto, perché in media la densità è elevata, perché in media esiste un enorme patrimonio insediativo inutilizzato o in abbandono. E anche perché ci sono imponenti disfunzionalità e sprechi e inefficienze nei sistemi urbani e insediativi che si sono sedimentati, sicché – partendo dall’esistente – c’è un imponente lavoro da fare per risanare, recuperare, riconvertire, riqualificare rigenerare questo patrimonio da un punto di vista edilizio, architettonico, urbanistico, infrastrutturale, economico, sociale, culturale delle dotazioni e dei servizi. Un lavoro imponente, ma che in molti casi non ha bisogno di svolgersi “tutto di un colpo”, può essere un’opera grande (anzi grandissima), senza essere una grande opera. Anzi se – essendo pensato in una dimensione sistemica e di lungo periodo – il fatto che avvenga in modo modulare può essere un grande vantaggio, può essere antifragile. Di qui viene l’idea che alla base di un progetto che potremmo chiamare “Christaller alla scala urbana nel XXI Secolo, con l’aiuto di Jane Jacobs”. In realtà a questo titolo manca qualcosa, qualcosa cui dedicheremo qualche riga di riflessione a parte ed è la questione del rapporto tra città e campagna.

Una delle dotazioni che divengono particolarmente rilevanti per far funzionare la città di prossimità è quella delle scuole. Non solo perché una loro redistribuzione, rifunzionalizzazione, estensione, ripensamento potrebbe favorire una consistente riduzione della mobilità obbligata di breve distanza, ma per il ruolo che quegli spazi, se gestiti in modo aperto, potrebbero avere come poli per i servizi di quartiere e per le attività culturali di base.

Tuttavia senza una politica abitativa gli interventi sugli spazi pubblici si rivelano insufficienti, non potendo avere effetti sulla segregazione sociale: accanto agli interventi di rigenerazione e rifunzionalizzazione occorrono interventi che favoriscano la “diversità” dei residenti: è un processo che non può che essere graduale, ma un buon punto di partenza potrebbe essere che l’assegnazione di risorse pubbliche e le politiche di incentivo agli interventi privati non solo privilegino i quartieri meno dotati, ma siano vincolati a quote rilevanti di alloggi “convenzionati” o pubblici all’interno di piani di rigenerazione “di area” nelle zone più favorite.

  1. Riequilibrio territoriale e aree interne. La possibilità del riequilibrio territoriale è fortemente influenzata dalle politiche e dalla volontà politica: spontaneamente le aree interne tendono verso l’indebolimento e l’abbandono, anche quando sono investite da flussi turistici importanti gli effetti territoriali in aree appena un po’ più ampie rafforzano la marginalità all’esterno dei poli di attrazione.

Ci sono tre aspetti delle politiche necessarie e possibili che sono ben colti dalla “Strategia nazionale per le aree interne (SNAI)” [34], ma che non sempre sono state efficacemente implementate.

La prima è che non tutte le aree interne sono uguali, non solo perché hanno caratteristiche socio-demografiche diverse, diversa accessibilità reale o potenziale, risorse diverse, dotazioni diversi, diverso “capitale sociale”, ma perché possono avere esiti auspicabili diversi: dalla costruzione di una rete urbana, che pure se a bassa densità abbia in qualche misura la caratteristica di una città, alla realizzazione di nuovi sistemi agricoli ad alta valore aggiunto e di elevata qualità o di aree turistiche a residenza prolungata o di zone confortevoli per chi cerca solitudini, ad aree sostanzialmente disabitate e lasciate al terzo paesaggio, ma in cui i presidi mantengano la qualità dei servizi eco sistemici, a territori della memoria e del ricordo.

La seconda è che, qualunque sia l’esito auspicabile gli interventi necessari devono essere tenaci, pazienti e di lungo periodo, ma soprattutto di sistema e di sistemi molto sensibili alle variazioni, come abbiamo spiegato in dettaglio.

La terza è che non si può farlo “da fuori”, che il coinvolgimento nella scelta degli scenari, nel loro disegno, nella loro implementazione e nella loro gestione deve riguardare l’insieme delle comunità interessate, che a volte sono anche disperse (si pensi agli immigrati che magari tornano per periodi di vacanza o a visitatori che hanno un affetto e un legame con i luoghi).

Se c’è una cosa molto preoccupante nel progetto della commissione Colao è che il territorio è visto come uno spazio geometrico astratto, che gli interventi previsti sono per “poli”, che le comunità vanno “convinte” e neutralizzate e che il problema unico è l’estrazione di valore: un passo indietro preoccupante. Seguendo Nigrelli [35]:

[…] in questa visione non c’è il territorio e non c’è il territorio italiano con la sua ricchezza, la sua complessità, le sue contraddizioni, la sua identità, insomma. Non ci sono i luoghi, ma c’è soltanto uno spazio euclideo nel quale programmare «Il progressivo reinsediamento sul territorio nazionale di attività produttive e ad alto valore aggiunto in precedenza svolte all’estero» contribuendo in tal modo significativo «all’accrescimento del gettito erariale e all’incremento del prodotto interno lordo, generando altresì un impatto positivo in termini di occupazione» (scheda 18).

La parola “agricoltura” è contenuta nel documento una sola volta in relazione a interventi di manutenzione dei bacini idrici a servizio del settore primario (scheda 33-34), come se la recente esperienza di lockdown non abbia messo in evidenza l’importanza della produzione agricola di prossimità, la necessità di attivare o riattivare le filiere corte, l’esigenza di ridurre la dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento delle derrate alimentari. (…) Anzi, promuovendo la «realizzazione di 1-2 nuovi Grandi Poli turistici al Sud» (Scheda 51.i) si continua a lavorare non sulle reti, ma sui poli, non sulla riduzione dei gap, ma sulla loro accentuazione. Che differenza ci sarebbe tra i poli turistici proposti da Colao e i poli industriali creati negli anni sessanta/settanta (da Taranto a Gela, da Gioia Tauro a Siracusa/Augusta)? Scelte megalomani eterodirette in cui al massimo ci si deve assicurare «l’approvazione della popolazione locale, dopo aver predisposto il progetto, in modo che non ne ostacoli la realizzazione».

Come dicevamo il tema delle aree interne ha molte dimensioni, di cui – ci permettiamo di dire – la voglia di andare in campagna per riscoprirne le magnifiche virtù in una nuova ondata di ideologia antiurbana [36] alla fine non è altro che una sorta di “schermo dantesco” di operazioni di protezione della rendita urbane; mentre sì le opportunità che nuove forme di ruralità possono offrire in termini di occupazione e di qualità della vita sono significative per una minoranza di “nuovi contadini”, sia come imprenditori agricoli e turistici di sistemi integrati, sia come forza lavoro impegnata in un’agricoltura intensiva, con buoni redditi e con pieni diritti, che potrebbe essere attrattiva anche per una quota di popolazione immigrata. Su questo Alcune considerazioni interessanti si trovano in “Manifesto per riabitare l’Italia” [37], il seguito di “Riabitare l’Italia” [38].

Alcune, più o meno facili o meditate, risposte alla crisi epidemica hanno fatto riferimento alle potenzialità insediative rappresentate dalle cosiddette “aree interne”. Come è noto esistono in Italia, e non solo, aree soprattutto in zone montane che presentano fenomeni di “impoverimento”, relativo e assoluto, in termini di spopolamento, invecchiamento, riduzione di attività, abbandono, degrado, … [38] Una quota di rinnovamento e di traslazione degli insediamenti è fisiologica e forse salutare, ma l’indebolimento di intere aree ha spesso effetti negativi da un punto di vista ambientale, economico e sociale. Potremmo parlare in particolare di una consistente perdita di servizi eco-sistemici per l’intero paese [39] Insomma, la questione delle “aree interne”, cui potrebbero aggiungersi altre aree abbandonate anche in altre collocazioni geografiche, potrebbe essere anche posta come la questione dell’esistenza di aree che sono (divenute) fragili.

Riprendendo alcune delle osservazioni di metodo della nostra idea di pianificazione antifragile possiamo dire che sicuramente alcune azioni prescritte dalla via negativa sono imprescindibili per evitare danni e possibili catastrofi: dalla manutenzione alla sorveglianza al mantenimento in essere di attività. Ma è del tutto evidente che evitare rischi e danni è insufficiente: non fosse altro perché occorre un forte e costante intervento per assicurare che i responsabili si prendano cura dei beni in pericolo che posseggono o che sono loro affidati e per gli alti costi che queste azioni comportano. E qui ha il suo ruolo strategico la visione condivisa: da un lato per definire quale è il futuro desiderabile per questa area fragile: alcune tipologie di aree possono essere “perdute”, altre vanno “protette”, altre accompagnate e sostenute per un lungo periodo, altre abbisognano solo di un innesco; e aree diverse a di diverse tipologie hanno interazioni tra loro il che consente di identificare delle matrici di azioni che favoriscono gli scenari desiderati.

È in questo senso che lo spazio del progetto, non è uno spazio vuoto, ma un “campo”: ci sono progetti attivatori, ci sono progetti hub, ci sono progetti “bandiera”, ci sono progetti che consolidano; la libera iniziativa ha il solo vincolo di non contrastare gli obiettivi della visione condivisa e le prescrizioni della via negativa, ma chi pianifica può favorire quei progetti che mettono in moto processi virtuosi.

Ecco dunque che una previsione “debole” e una pianificazione non prescrittiva e deterministica possono produrre una guida “forte” dei cambiamenti [46].

  1. Tecnologie che trasformano e vengono trasformate. Abbiamo detto sopra che la prossimità non può essere abbandonata anche nell’epoca della globalizzazione estrema e delle tecnologie telematiche. Ma occorre collegarlo con il nostro repertorio delle fragilità che si sono accentuate nelle fasi acute della pandemia del Covid. Infatti, i dati degli spostamenti ci dicono che in pieno periodo di massima restrizione degli spostamenti le persone dei quartieri poveri erano costretti a spostarsi molto di più di quelle degli altri quartieri, come mostra uno studio su Barcelona [47,48] (vedi sotto Figura 1) o su alcune città statunitensi [49] (Figura 2), il che vuol dire che anche nella possibilità di mantenere il distanziamento, i poveri sono svantaggiati: perché devono andare al lavoro di più (i lavoratori essenziali su cui si sono sprecati fiumi di inutile retorica sono prevalentemente lavoratori di basso salario), perché hanno meno accesso alle risorse telematiche (il problema legato ai limiti della cosiddetta DAD non sta solo negli aspetti didattico –pedagogici, che pure ci sono, ma anche e talvolta soprattutto nella differenza di dotazioni – lato sensu – tra ricchi e poveri) e perché vivono in una città segregata (più o meno fortemente).
Figura 1. Area metropolitana di Barcellona: percentuale di biglietti di trasporto pubblico timbrati nella terza settimana del “lockdown” rispetto alla media del gennaio-febbraio 2020, per quartiere e reddito medio disponibile. (Tratto da [47])

 

 

Figura 2. Trend medio delle 25 aree metropolitane più popolose degli Stati Uniti d’America: differenza nel numero degli spostamenti tra ricchi e poveri (Tratto da The New York Times [49])

 

Quello che succederà on il telelavoro e la teledidattica, una volta passata la fase acuta della pandemia sarà diverso per le diverse classi sociali. Lo dimostrano le valutazioni sulla possibilità che diversi tipi di lavoro hanno di essere svolti a distanza [50,51] (Figura 3), e ci sono persino indizi che il telelavoro contribuisce ad aumentare le disuguaglianza salariali in Italia [52

 

Figura 3. “Le attività economiche italiane in base all’indice di facilità a lavorare insmartworking” (Fonte INAPP, tratto da [51])

A queste considerazioni si aggiunge il dato territoriale della diversa distribuzione dell’accesso alla banda larga [53], che ancora una volta ha rilevanza nella questione degli equilibri territoriale e delle aree interne.

Che una nuova tecnologia “uccida” la vecchia è profezia banale e falsa, ma non è che la vecchia sopravviva come prima; sopravvive (sempre?) solo cambiando, occupando uno spazio nuovo o una nicchia o costruendo(si) una nuova ed imprevista funzione. Sicché accelerando una tendenza che già c’era molte attività accresceranno la loro “virtualizzazione”. Molte ma non tutte e gli effetti non saranno necessariamente univoci, non di rado saranno contro intuitivi. Ad esempio sulla mobilità: che sicuramente si ridurrà come mobilità obbligata per effetto del “lavoro agile”, ma che non sappiamo come si evolverà come mobilità “libera” o che si ridurrà verso i centri commerciali per effetto dell’e-commerce, ma che non sappiamo che effetto avrà sul traffico urbano nelle città compatta a causa dell’incremento dei veicoli commerciali impiegati nelle consegne, così come non è necessariamente univoco l’effetto dell’e-commerce sui negozi di prossimità. E di esempi ne potremmo fare moltissimi. E un po’ (forse molto) dipenderà dalle politiche sia di vincolo, che di incentivo, che di regolazione.

E parlando delle tecnologie, non vogliamo far eccessivo appello a strumenti per la cosiddetta, a volte impropriamente attribuita, “intelligenza urbana” (smart city). Anche nel contesto di questa pandemia, abbiamo assistito alla proliferazione di proposte di strumenti ad alto contenuto tecnologico, sotto forma di sistemi informativi integrati e supportati da app per dispositivi mobili, che si propongono di assistere persone ed operatori suggerendo comportamenti quotidiani, scelte di trasporto pubblico e dei percorsi, gestione degli accessi ai servizi e alle attività commerciali, e così via, tesi a ridurre l’esposizione al rischio di contagio, o a indicare il profilo di rischio dei comportamenti assunti nel passato (collochiamo in questa famiglia anche l’app “Immuni”). Impiegando tecnologie di tracciamento, di localizzazione, di scelta dei percorsi e di ottimizzazione dinamica, questi strumenti sono spesso basati sulla raccolta e trattamento di una grande mole di dati in tempo reale. Non intendiamo sottovalutare l’importanza che tali strumenti possano avere nella gestione delle fasi emergenziale e nell’accompagnamento delle misure di monitoraggio nelle condizioni non acute, ma osserviamo che essi stessi possono rivelarsi fragili, o per una sottovalutazione delle esigenze di manutenzione e di gestione delle piattaforme, o perché esibiscono forti economie di network (richiedendo una diffusa adozione per essere efficaci), o perché si basano su algoritmi previsivi e di ottimizzazione “just-in-time” centralizzati e fortemente dipendenti da dati istantanei e ad alta precisione, e pertanto intrinsecamente fragili.

La nostra ipotesi di fondo è, invece, che sia possibile favorire l’adattamento dei sistemi urbani a partire dal ripensamento della distribuzione delle dotazioni di servizi e attività, per rafforzare la loro organica robustezza, resilienza ed antifragilità, tali da favorire – in modo il più possibile spontaneo, auto-organizzato, e senza dipendenza vitale da supporti di coordinamento, di tracciamento, e di sorveglianza – comportamenti, conduzione delle attività economiche, e pratiche d’uso dello spazio urbano che oltre a ridurre i rischi e a contribuire nella gestioni delle emergenze sanitarie, vadano anche nella direzione di una maggiore sostenibilità ambientale, e contribuendo a dotare quartieri e comparti urbani di servizi, attività e opportunità, riducendo così le disuguaglianze spaziali ed estendendo il diritto alla città. Robustezza: per assicurare il funzionamento dei servizi e delle attività essenziali nelle possibili fasi di emergenza acuta, e nella gestione delle misure di contenimento in grado di garantire un livello minimo adeguato di approvvigionamento e di esercizio dei funzionamenti quotidiano della popolazione. Resilienza: per favorire un’ordinata riattivazione dei funzionamenti urbani, assicurando il ripristino dei livelli di servizio antecedenti o un loro equivalente funzionale. Antifragilità: per incorporare la possibilità di apprendimento e di adattamento evolutivo della struttura e dell’organizzazione urbana e territoriale nel medio e lungo periodo.

  1. Chi paga? Alla domanda chi paga, possiamo avanzare due ipotesi. La prima è di natura macroeconomica, e riguarda il fatto che la crisi del Covid potrebbe dar luogo alla caduta della “dottrina austeriana” della politica fiscale e monetaria. Negli ultimi mesi, avendo compreso di trovarsi sull’orlo del precipizio non solo di una grave crisi sociale, ma del rischio di un cataclismico collasso dello stato di diritto, la classe dirigente europea ha con certa saggezza operato per allentare i vincoli, per mettere a punto ed orchestrare strumenti e risposte nella fase emergenziale. Ci sono quindi timidi segnali di un cambio di rotta nelle politiche fiscali e monetarie, come anche la maturazione e l’affermarsi di proposte alternative [54], acutamente attente agli effetti ridistributivi della politica economica, e che paiono iniziare a far presa sulle forze politiche anche del moderato centro-sinistra. È però difficile prevedere gli effetti economici di breve e medio periodo del simultaneo shock di domanda e di offerta, come anche l’evoluzione del quadro politico, a partire dalle elezioni americane del prossimo novembre, l’evoluzione che in ultima istanza sarà decisiva per dare gambe e consolidare nel medio periodo un tale cambio di rotta. Se accadrà, e se – come è abbastanza improbabile – le risorse che così si “libereranno” non saranno sperperati in inutili o dannose “grandi opere” e in un massiccio assalto all’accaparramento da parte dei “padroni del vapore”, esse potrebbero rendersi disponibili per l’“opera grande” della messa in sesto delle nostre città di cui dicevamo prima.

È un buon principio che gli investimenti pubblici si orientino su processi che rendano il più grande possibile il beneficio per chi ha una qualità della vita più bassa, perché ha meno capacità e meno dotazioni [55,56], anche se bisogna sempre tener conto degli effetti indiretti. Ad esempio la riduzione della segregazione e dei suoi effetti negativi può avvenire in molti modi, lavorando a valle (rigenerazione di quartieri abbandonati e incremento delle loro dotazioni) o a monte (promuovendo la mixité di aree attualmente non miste), lavorando sugli edifici, sulle strade, sugli spazi pubblici, sulle scuole, …

La seconda possibile risposta alla domanda “chi paga” riguarda invece gli strumenti della politica locale, ed è all’insegna della massima “segui il danaro” (follow the money), il cui corollario nel nostro caso in specie è “segui la rendita”. Se ci sarà una riorganizzazione post-pandemica della città, governata o spontanea che sia, essa non potrà non comportare anche una riorganizzazione della rendita urbana. Vi sono per esempio indizi di alcuni trend di riorganizzazione del commercio di prima necessità (di cui abbiamo qualche notizia aneddotica di prima mano), dove, alla luce di una minore propensione agli spostamenti motorizzati di media e lunga percorrenza, alcune catene di supermercati si orientano a rendere la presenza dei loro punti vendita più diffusa e capillare, anche nei quartieri e nelle zone urbane periferiche che, sottodotate di servizi ma ben collegate alle infrastrutture viarie ad alta velocità di scorrimento, prima potevano non risultare appetibili. Una tale disponibilità di investimento è certamente un’opportunità per le amministrazioni locali, che con opportuni strumenti, messa a sistema e meccanismi concordatari possono sia agevolare la proliferazione di tali investimenti, sia operare a che questi nuovi luoghi del commercio diventino i nostri hub di prossimità, dotati di ulteriori servizi, opportunità e spazi, “catturando” un po’ della rendita generata anche per qualche opera di riqualificazione degli spazi pubblici. Questo era solo un esempio per indicare un più generale principio che ci interessa indicare: dovunque vi sia la rendita a germogliare, là vi è l’opportunità per le amministrazioni locali di muovere le opportune leve affinché un po’ di quel valore sia “catturato” per creare servizi, per migliorare la qualità urbana, per investirlo nella città pubblica. Non è peraltro scontato che una tale politica debba dar luogo a una relazione antagonistico con gli investitori: l’uniformità di trattamento, la chiarezza degli obiettivi, la certezza dei meccanismi di concessione e di cambio di destinazione d’uso, la velocità e la trasparenza del procedimento amministrativo potrebbero essere apprezzati, come lo sarebbe anche la volontà pubblica di dotare gli hub di servizi e qualità, che sarebbe nel lungo periodo a protezione dell’investimento stesso. Affinché tutto ciò possa avvenire occorre che le amministrazioni locali mettano a punto opportuni strumenti, si dotino di necessarie competenze tecniche, e operino con la chiarezza dell’indirizzo politico.

  1. Strumenti di valutazione e di supporto alle politiche urbane e territoriali. Infine, vogliamo dedicate lo spazio in chiusura per parlare di strumenti di nuova generazione per la valutazione e l’analisi degli scenari, che ricadono dentro il perimetro della cosiddetta urban analytics [57] e che possono fornire un importante aiuto per informare e supportare le politiche urbane e territoriali. Si affaccia così la prospettiva di strumenti di valutazione automatica “di massa” e di analisi degli scenari delle dotazioni urbane, anche ad alta precisione e su una scala spaziale di dettaglio (a livello dell’isolato urbano) – rivolte in primo luogo alle amministrazioni locali, ai gestori dei servizi territoriali e agli operatori economici, ma anche al pubblico generale in chiave di trasparenza e principio di pubblicità –, che si propongono di fornire un supporto operativo per la definizione e gestione di azioni, interventi e politiche urbane rilevanti sia (1) per la gestione delle fasi emergenziali e della prevenzione del rischio, sia (2) per la gestione della riorganizzazione dei servizi e delle dotazioni urbane nel medio e lungo periodo.

Sul versante emergenziale, è opportuno dotarsi di piani di gestione dell’emergenza in vista di diversi possibili scenari, con la tempestiva e coordinata riduzione delle “connettività” territoriali, legate agli spostamenti e al distanziamento sociale. Sebbene la simultanea e generalizzata chiusura (lockdown) abbiano dimostrato l’efficacia nel contenimento del contagio, la loro generalità e a maglia grezza hanno determinato un rilevante danno in termini di interruzione dell’attività economica, oltre ad acuire le fragilità sociali e le disuguaglianze spaziali su diverse scale, da quelle sub-comunali, a quelle regionali. In questo senso, strumenti di urban analytics possono proporsi di supportare il decisore pubblico nella definizione dinamica dei comparti locali (a livello di quartieri o di sottozone urbane) e della gradazione delle misure “restrittive” ad essi associati, che possano simultaneamente (1) garantire un’efficace e dinamica risposta all’emergenza costruendo profili di rischio finalizzati sia alla riduzione dell’esposizione dei cittadini al contagio, sia alla riduzione della vulnerabilità delle dotazioni urbane; (2) consentire l’adozione di misure graduali e flessibili su diverse aree del territorio locale, evitando così l’indiscriminata interruzione delle attività; (3) assicurare che all’interno dei comparti vi sia un livello di dotazioni di servizi, aree verdi e pubbliche, e attività commerciali tali da consentire alla popolazione residente un adeguato approvvigionamento ed esercizio dei funzionamenti quotidiani.

Sul versante della gestione dell’organizzazione urbana nel medio e lungo periodo in chiave del “localismo frattale” (maggiormente attento alle dotazioni, ai servizi e alle capacità urbane presenti nella città di prossimità fruibile con una mobilità dolce non motorizzata, a piedi o in bicicletta), tali strumenti sarebbero in grado di valutare le dotazioni e le capacità urbane a livello di micro-zone urbane (a livello dei singoli isolati) orientate alla camminabilità e alla mobilità “dolce”, mettendo così a disposizione del decisore pubblico una diagnosi analiticamente rigorosa e rappresentata spazialmente tramite sistemi informativi geografici, delle dotazioni e dei deficit dei quartieri e delle zone urbane, suggerendo azioni ed interventi di mitigazione. Questi strumenti aspirano dunque a orientare anche le scelte di sostenibilità, e a supportare le politiche non solo basandosi su una descrizione dei territori, ma dotando il decisore pubblico di uno strumento di elaborazione ed analisi degli scenari perseguibili, fondati sulle metriche a scala micro-locale capaci di rendere conto, dinamicamente ed in un’ottica di monitoraggio, dell’efficacia delle politiche messe in atto.

Per definire la città accessibile, si possono così costruire diversi indicatori delle capacità urbana di ogni “punto” dello spazio sulla base della rete stradale esistente (con un peso per la percorribilità e per le qualità della camminabilità e della ciclabilità), per diverse distanze in base al mezzo di locomozione (a piedi, in bicicletta, in monopattino elettrico, …) e per diversi soggetti (anziani, disabili, persone con carrello, pesi, carrozzine, …) individuando per ciascuna l’insieme dei servizi presenti sia di prossimità (alimentari per categoria, aree giochi, scuole primarie, farmacie, fermate trasporti pubblici con un peso per la frequenza, aree verdi, …), sia di rango intermedio (librerie, ambulatori, scuole secondarie, …), sia di rango elevato (università, teatri, ospedali, …).

Dall’altro lato per alcuni servizi, pensiamo in primo luogo alle scuole, si potrebbe individuare l’area di attrazione effettiva (ad esempio con i dati – che esistono – sulle residenze degli iscritti).

Strumenti di valutazione di questo tipo permetterebbero di analizzare varie famiglie di capacità urbane disponibili, simulando il valore di accessibilità in essere, o dopo interventi che favoriscano l’insediamento di attività e servizi, o che migliorino la qualità dei percorsi, che spostino attività tra i ranghi, che realizzino hub di prossimità per i servizi di rango superiore.

Un ulteriore passo sarebbe utilizzare il sistema anche per disegnare una struttura organizzativa della città sovrapponendo i quartieri esistenti e verificando l’adeguatezza delle ripartizioni amministrative.

Insomma, un insieme di strumenti analitici e di analisi degli scenari che consentirebbero di pensare a interventi che abbiano la flessibilità necessaria per adattarsi a scenari mutevoli dal punto di vista epidemiologico, che mettano il breve periodo in connessione con il medio periodo e con il lungo periodo, che considerino in modo creativo il possibile sostegno delle nuove tecnologie (ma non solo la DAD, anche il loro uso per consentire una più sicura ed efficiente utilizzazione degli spazi, per disegnare percorsi autonomi, per sviluppare interazioni, per organizzare i tempi), che siano facilmente attivabili, anche dagli utenti stessi, anche all’interno dei percorsi didattici che supportino azioni di aumento delle dotazioni di spazi pubblici, che determinano modifiche nell’organizzazione degli spazi “dedicati” (non solo “mettendoli a norma”).

Opportuni strumenti di valutazione sono auspicabili anche a supporto delle politiche che abbiamo chiamato di riequilibrio territoriale. Così, uno dei possibili approcci alla valutazione di fragilità / opportunità è quella di fare riferimento – con tutte le opportune cautele – al concetto di Capitale Territoriale. “In sintesi, il capitale territoriale può essere definito come un insieme di asset localizzati – naturali, umani, artificiali, organizzativi, relazionali e cognitivi – che costituiscono il potenziale competitivo di un territorio.” [58]. Su questa base possiamo costruire un indice composito chiamato per brevità Indice di Capitale Territoriale (ICT) basato su una combinazione di: Capitale Umano, Capitale Sociale, Capitale cognitivo, Capitale Infrastrutturale, Capitale Produttivo, Capitale Relazionale, Capitale Ambientale, Capitale Insediativo.

Pur consapevoli dei limiti e dei rischi anche “ideologici” di questo approccio, possiamo – in maniera avalutativa – interpretare la parola “capitale” depurando il termine dalle sue molte connotazioni e dal suo orientamento meramente produttivo (l’insieme dei beni destinati a impieghi produttivi per ottenere nuova produzione) e riconducendolo invece al concetto di “dotazione”, di stock di risorse intese in senso lato; in questo senso le espressioni proposte possono essere utili e feconde. Le scelte di articolazione del capitale territoriale in queste categorie sono per molti aspetti arbitrarie e non consolidate in letteratura; ad esempio per quanto riguarda il capitale sociale, che è tra i concetti più sviluppati, a volte esso si pensa distinto in Capitale Strutturale, Cognitivo, Relazionale, con categorie che si sovrappongono a quelle proposte, tuttavia essa può essere utile nel costruire classi di unità amministrative a struttura fine. Una matrice che per ciascuna unità amministrativa – a parità di valore dell’ICT – ci mostri la sua composizione consentirebbe di ragionare sia sugli obiettivi, sia sulle politiche. La spazializzazione di questi dati porterebbe infine all’individuazione delle unità di intervento che accorpando diverse unità amministrative forniscano (anche in questo caso) un’indicazione dell’ambito adeguato degli interventi.

* * *

Sulle modalità concrete e operative di intervento sulla città di prossimità e sul tema delle aree interne stiamo sviluppando diversi progetti di ricerca che hanno già prodotto diversi risultati, e di cui anche questo volume è una tappa importante.

In un prossimo intervento ci promettiamo di raccontare in dettaglio come si può fare.

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Per via negativa in pianificazione intendiamo [11,12] un insieme di regole molto generali e di lunga durata, che tramite vincoli e divieti limitano l’azione dall’“esterno”. Principalmente di natura “nomocratica” [40,41], esse seguono la logica della via negativa in quanto forniscono regole “proscrittive” anziché “prescrittive” [42], non predeterminano direttamente gli esiti, non impongono comportamenti performativi, non indicano che cosa fare e che cosa i soggetti debbano fare, non dicono che cosa deve succedere, ma principalmente che cosa è vietato, che cosa non si deve fare. Ma il concetto dalla via negativa suggerisce anche la rimozione di ciò che può essere dannoso o che sprechi energie sociali ed umane [43], dai vincoli controproducenti alle superfetazioni procedurali e normative.

Visione condivisa. Abbiamo detto che una pianificazione ancorata alla previsione forte è fragile, ma una pianificazione che non “tende verso il futuro” e che non “crea un futuro” è una contraddizione in termini. È ragionevole aspettarsi che una comunità politica si curasse dei suoi esiti futuri collettivi, perlomeno su un orizzonte temporale accessibile al loro “circuito di cura” di tre o quattro generazioni. Per questo vi deve essere uno spazio per deliberare su una visione (ragionevolmente) condivisa dei futuri desiderabili e di quelli da evitare, attraverso una decisione strategica. Tale visione condivisa può essere definita come la concreta declinazione, nel preciso momento storico, basato sulle risorse disponibili, dell’insieme delle capacità e delle libertà di cui si compone il diritto alla città [11,12].

Per lo spazio del progetto intendiamo [11,12] quel piano flessibile per azioni e progetti della pianificazione pubblica e per gli individui, nelle forme sociali che decidono di darsi. A livello di questo piano risiede anche la possibilità di coordinamento tra la via negativa e la visione condivisa. Infatti, poiché la via negativa non persegue obiettivi “positivi” stabilità dalla visione condivisa, uno spazio flessibile ma con confini stabili è offerto da questo spazio del progetto: uno spazio che combina top-down e botton-up, breve e medio periodo, azioni possibilmente reversibili, modulari, anche effimere. Tale spazio del progetto è, per così dire, una specie di “via positiva”, uno spazio di azione (i) vincolato dalla via negativa, e (ii) compatibile con la visione condivisa. Lo spazio del progetto può così contemplare trasformazioni private, interventi e scelte localizzative della pianificazione pubblica[44], partenariati pubblico-privati, ma abbraccia anche pratiche dal basso, di autogestione, di usi temporanei, di interventi tattici [45].

Category: Ambiente, Economia solidale, cooperativa, terzo settore, Epidemia coronavirus, Movimenti, Osservatorio sulle città, Welfare e Salute

About Francesco Indovina: Francesco Indovina insegna Analisi territoriale e Pianificazione presso l'Università IUAV di Venezia e presso la Facoltà di Architettura di Alghero. Da sempre è promotore di un approccio interdisciplinare agli studi sulla città e il territorio, coniugato ad un saldo impegno civile. E` autore di numerosi volumi e saggi, e direttore delle riviste «Archivio di studi urbani e regionali» e «Economia urbana - Oltre il Ponte». Nel 2005 è stato il coordinatore scientifico del progetto internazionale di ricerca dai cui studi è conseguita la mostra da lui stesso curata "L'esplosione della città" alla Triennale di Milano. Direttore della collana "Studi Urbani e Regionali" della Franco Angeli, co-fondatore della rivista «Archivio di Studi Urbani e Regionali» (ASUR). Si occupa delle relazioni tra i processi economici sociali e le trasformazioni del territorio. La "città diffusa" e la "metropolizzazione del territorio" sono i suoi più recenti contributi. Ha inltre pubblicato: Governare la città con l'urbanistica (2006, ed.Maggiori), L'esplosione urbana (insieme a L. Fregolent e M. Savino, ed.Compositori), Il territorio derivato (ed.F. Angeli). Il suo blog con cui siamo collegati è felicitàfutura.blogspot.com

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