Bruno Giorgini: Covid19. Milano, laddove tutto cominciò
Trascuro qui le lontane possibili e/o probabili origini asiatiche del virus.
Vorrei invece tentare una ricostruzione per quanto approssimativa della sua diffusione in Italia. In particolare nel Nord Italia, in quella megalopoli integrata e connessa che vede Milano come caput mundi, per dipanarsi nell’intera pianura padana fino a Padova, Venezia Treviso Trieste e in tutto il Nord Est, a Sud Est lungo la via Emilia fino a Rimini e Pesaro passando per Bologna, protesa a Ovest verso il Piemonte fino a Alessandria Asti Novara Torino , a Nord arrivando alla Svizzera e a Aosta. Mentre per Genova e tutta la Liguria fanno schermo le Alpi.
Si hanno indizi plurimi e convergenti che già a novembre, dicembre 2019 il coronavirus fosse in circolazione a Milano. All’unisono, nei giorni a cavallo tra il 2019 e il 2020, il Corriere.it e il Giornale per esempio titolano “Ospedali presi d’assalto a Milano”. Al Niguarda, ospedale milanese, avvengono molte decine di ricoveri per persone ammalate di polmonite, una patologia tipica del virus. Tra le righe s’intende che qualcuno pensa a una possibile diffusione epidemica da virus e/o batterio. Epperò sembra quasi non volerci credere nonostante gli indizi convergenti.
Un principo di massima precauzione sanitaria avrebbe voluto che subito si prendessero alcune misure di contenimento, ma non accadde.
Non si poteva chiudere Milano. Perchè chiudere Milano avrebbe voluto dire chiudere la capitale morale e economica d’Italia, la città dei grandi giornali, dell’editoria, della moda, della tecnologia, dell’industria, la città europea per eccellenza. Ma soprattutto avrebbe voluto dire chiudere piazza Affari, cioè la Borsa, tempio dei mercati e simbolo del capitalismo italiano. Ma era possibile in presenza di sospetti, di tracce, di qualche ammalato di polmonite per altro già ricoverato negli ospedali (prossimi alla saturazione in tutta la città a fine gennaio, ma tant’è non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire)? Impossibile e blasfemo: è il capitalismo che lo vieta bellezza. Poi magari l’epidemia non era nemmeno tanto epidemica, e comunque probabilmente con un basso tasso di mortalità. E si muore parecchio per gli incidenti stradali, senza che si vieti il traffico, o la vendita delle automobili!
Così si è aspettato che il virus migrasse nell’hinterland, a Codogno e quindi si è deciso di intervenire. Si badi bene: non c’è stato alcun complotto, o dliberata volontà. No l’esclusione di Milano è venuta da sè, quasi intrinseca al tessuto della metropoli cui tutti i concittadini concorrono, e hanno concorso. Il 17 marzo, in piena diffusione dell’epidemia, il sindaco Beppe Sala scriveva su fb: “Il fronte di Milano resiste. È importante che qui a Milano si resista alla diffusione del virus: resistendo diamo tempo al servizio sanitario di incrementare l’offerta dei posti letto, in particolare in terapia intensiva“. Ma prima, il 23 febbraio, per esempio i giornali parlano di due ricoverati in osservazione per il covid 19.
A tutt’oggi l’epidemia è diffusa ovunque, eppure Milano ancora nelle parole di alcuni si vuole parzialmente al riparo. Si comprende perchè. Se diventasse un focolaio di infezione, con la densità di persone propria di una metropoli sarebbero guai grossi assai. Tracciare zone rosse nei quartieri urbani laddove abitazioni e persone s’ammassano è complicato. E pure nell’intero Nord non è facile. Si tratta di un unico sistema metropolitano aggregato e farne partizioni appare quasi impossibile. Quando si dice: fare come in Cina, si dimentica che colà ci sono dei cluster, degli aggregati, circondati dal vuoto e quindi facili da isolare.
In fine quindi. Io credo che sarebbe bene non soltanto tenere d’occhio le curve globali di crescita dell’infezione, ma anche quelle per località particolarmente significative, per esempio quelle per Milano città. Sperando che non sia chiedere troppo. Per trasparenza in primis. Per precauzione in secundis.
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