Poetica della disabilità in esperienza lavorativa: cronaca di una bella mattinata
Perché scrivo queste righe mi chiedo, testimoniare attimi del mio lavoro. Perché raccontare piccoli avvenimenti anziché affrontare sistemi più generali, più collettivi? Ci sono delle ragioni… Ho interesse ad informare e far conoscere attraverso azioni quotidiane residuali, spesso invisibili, sconosciute alla cultura “alta”, il senso deflagrante che il “piccolo” ha nel confronto del “grande”. Spesso viviamo nel quotidiano ma non ce ne nutriamo consapevolmente, ci siamo abituati, e volgiamo lo sguardo ingordo alle grandi forme di gestione della nazione e del mondo, con quel tentativo giusto ma disperato, di dare una rappresentazione alla vita che ci contiene, per capire, sicuramente, ma anche per identificarci, per eludere il senso di smarrimento e di impotenza che gli avvenimenti attorno a noi ci provocano. In questo caso è necessario invertire la famosa storia zen del “il dito e la luna”, quando un dito è ferito, oppure semplicemente vogliamo entrare in rapporto con noi stessi, è meglio usare la luce lunare per osservare il nostro, piccolo ma vicino dito umano, forse troppo vicino e troppo umano.
Lavorare con la disabilità, come educatore ha questo lusso, essere costretto a guardare e dare valore immenso a ciò che ti è vicino, alla quotidianità millesimale. Spesso una mattinata di pioggia ha più valore di una decisione di politica internazionale.
Non eludendo ovviamente l’interesse per le forme istituzionali e le macro dinamiche mondiali, che spesso ci vedono spettatori passivi, credo sia più utile, ancora invertire le tendenze: osservare la quotidianità, i bisogni minimi, le piccole emozioni, e di queste farne scuola, per “agire contenuti” e non solo osservare e “opinionizzarci”, sulle grandi forme che ci governano.
I dati statistici sono interessanti e fondamentali, ma se non ci danno emozione, saranno solo “roba per tecnici”, poche persone a nucleo chiuso. Le emozioni, le identificazioni, le sensazioni, i colori dell’esistenza sono passaggi democratici di contatto e conoscenza. Attraverso le descrizioni emotive, della poesia, del racconto, del romanzo, ci mettiamo in contatto con gli avvenimenti, poi ci verrà l’interesse per la qualità specifica, le quantità, e il relativo impatto e significato nel mondo. Questo è il piccolo compito che mi sono dato, narrare il mio lavoro, poiché conoscere è anche sentire, scrivere non solo come educatore ma col piacere del narratore, casualmente ambientato in una relazione educativa.
La prima mattina di lavoro di Giovanni
Ho sempre frequentato i supermercati, fin da quando ero piccolo e i grandi magazzini. Anzi ricordo che spesso, non sapendo dove lasciarmi, mia madre, che faceva la parrucchiera, mi portava alla Standa, poi lei tornava in negozio ed io restavo un po’, forse un’ora o due? Non ricordo, sotto la sorveglianza di commesse amiche, per non stare tutto il giorno nel retrobottega, con la puzza delle sostanze per la tintura dei capelli.
Poi da educatore, o scoperto il supermercato. Il supermercato alimentare medio, non di quelli enormi che sono dispersivi, ne quelli piccolissimi del centro città.
Casualmente ho dovuto fare degli inserimenti di ragazzi con disabilità cognitiva all’interno di queste aziende. I miei colleghi spesso utilizzavano queste risorse per far sperimentare ai ragazzi sia delle scuole superiori, sia dei corsi di formazione, la possibilità di trovarsi a contatto con un ambiente normalizzante, ma volto al confronto con il lavoro, diciamo propedeutico. Ne avevo sentito decantare le qualità di questo ambiente, ma quando mi sono trovato a lavorarci direttamente, l’esperienza ha superato le mie aspettative. E’ estremamente confortante vedere come in ambienti non nati appositamente su valori e metodologie educative, possano invece rivelarsi luoghi così significativi per la crescita della persone, trovarsi di fronte a casuali ed involontarie metodologie educative ottimali e con gestori e personale che con le loro competenze grezze hanno molto da insegnare ai professionisti come me.
Ad esempio, ho notato confrontandomi con un capo negozio, come nel caso delle mie competenze personali, siano alte le capacità di rielaborazione dell’esperienza del lavoro e di analisi, ma la sua capacità di motivare e stimolare i ragazzi alla prestazione l’ho trovata insuperabile. Il connubio di questa differenza di approccio al lavoro, ha dato ai ragazzi inseriti un rinforzo notevole sull’autostima.
Porto per il primo giorno Giovanni al negozio, dopo vari incontri di preparazione, di descrizione, di introduzione dei temi, delle possibilità, di elaborazione dei vissuti e delle aspettative… (tutta roba da educatore, insomma!).
Il capo negozio ci vede, ci viene incontro, mi guarda appena, con entusiasmo si rivolge al ragazzo, gli chiede il nome, se ha voglia di cominciare, gli da la mano come se fosse uno del consiglio di amministrazione. Il modo è conciso, sommariamente sbrigativo ma molto partecipativo. Non mi delega niente, prende in carico il ragazzo immediatamente. Se lo porta in giro, gli fa vedere il negozio, gli spiega quello che dovrebbe fare, quanto è importante quel lavoro, gli dice quanto è utile quel lavoro, quanto lui sarebbe soddisfatto se lo facesse con cura, (la vendita crescerà del 30% se esegue quella attività). Soprattutto gli da la maglietta e il cartellino identificativo.
Il ragazzo lavora, mette a posto gli scaffali, perché il disordine diminuisce le vendite, le vecchiette e le persone basse non arrivano alla scansia alta, chi non può piegarsi non prende la merce da quella bassa, e ci sono tante persone col mal di schiena o basse. Ci sono clienti indisciplinati, rovesciano le scatole dei prodotti, le scambiano, fanno confusione. Passano gli anziani che hanno sempre bisogno, non vedono bene, non trovano i prodotti, non ci arrivano. Passano i colleghi che fanno due chiacchiere. Passa il Capo che gli dice “bravo” e gli da altre consegne.
Si sta un po’ da soli ma insieme a tanti, qualcuno interrompe, poi si ricomincia, se ci si trova in difficoltà si va a chiedere aiuto ai colleghi e tutti ti aiutano. E’ interessante per un educatore vedere come ci si insegna tra colleghi nel mondo del lavoro, tra esperti e principianti, giovani e anziani. Usano il tempo giusto, non è il loro mestiere insegnare, quindi lo fanno con istintiva naturalezza, non diventano insistenti, giudicanti, pedanti, hanno una neutralità positiva, perché hanno altro da fare, ti danno l’informazione, si assicurano che tu abbia capito e se ne vanno, ti lasciano solo a provare, se c’è bisogno ritornano.
I compiti sono semplici, apparentemente, ma dentro a questi compiti semplici c’è tanta vita, tante relazioni, tante diramazioni di significato. Nella scuola, ad esempio tutto questo mancava, e per il ragazzo è stata una piacevole scoperta. Questa esperienza, ad esempio insegna il rapporto tra ciò che si ritiene “piccolo” e “grande”. Nella scuola si favoriva l’aumentare delle le proprie prestazioni individuali cognitive, in solitudine, qui invece ci si abitua ad “allargare” semplici prestazioni in favore di tanti compiti informali, e soprattutto in favore degli altri e del guadagno del supermercato, che qui appare come come uno stimolo alla partecipazione al lavoro.
Si fa la pausa, anche, a metà mattina, si va alle macchinette a prendere un caffè. Vicino alla macchinetta del caffè, c’è un ragazzo down, che lavora.
Ha il compito di aiutare la clientela nel prendere i piccoli carrelli, e distribuisce i dépliant pubblicitari. Ha prestazioni da manuale, saluta cordialmente, da le notizie sul tempo alle signore e quelle del calcio ai signori che si attardano. Ha anche l’abitudine di dire ai clienti anziani e alle commesse “ti voglio bene!” con leggerezza e sincerità. Quelle parole le usa perché creano il clima giusto per stare assieme. Ho sentito clienti dire alle cassiere, che vengono a fare la spesa più volentieri in un posto dove c’è qualcuno che ti dice “ti voglio bene” senza imbarazzo.
Il piacere del mondo della disabilità, è quello per il quale, il ragazzo disabile, sempre per i nostri standard, minato nella prestazione produttiva, mette l’accento sui sentimenti come dimensione prevalente. Bisogna accorgersi di questo. Pensiamo ad un mondo arido e conflittuale, e ci vergogniamo di pronunciare parole di affetto, anche nell’intimo a volte. Il ragazzo down che che dice “Ti voglio bene” se lo può permettere perché protetto dalla corazza dell’ingenuità che caratterizza la visione di questi ragazzi… Ma perché? Un’intera popolazione che avrebbe bisogno di un’educazione alle emozioni, alla conoscenza del sé, non ha forse tratti di disabilità anch’essa, la mancanza di empatia, o l’eccessiva vergogna non è forse anche questa una disabilità sulla quale intervenire per il benessere collettivo?
In realtà, in una società, i “dominanti” maggioritari scelgono le caratteristiche di valori che definiranno i livelli ed i significati dell’handicap, che mai saranno assoluti anche se così appaiono.
Dalle casse si sente una voce. “Giovanni è desiderato alla cassa 4!” Giovanni riprende il lavoro con un gran sorriso, mi guarda e dice con soddisfazione, “non posso stare qui con te! Sono desiderato!”
Questa parola di cortesia, per lui prende un significato particolare, lui non è richiamato ma desiderato… chi è desiderato diviene utile, chi è utile diviene importante e cosi passa la mattinata.
Improvvisamente, il ragazzo disabile, non è più disabile, ci sono un sacco di “non disabili” chiamati “clienti” a cui tenere dietro, in difficoltà, che hanno bisogno di aiuto. Intanto, lui deve fare il suo lavoro, quell’ordine che porterà le vendite al 30% in più… c’è da essere fieri oltre che desiderati.
Giovanni la settimana dopo non è voluto andare in gita scolastica perché avrebbe perso la sua giornata di stage lavorativo al supermercato. Giovanni prima di staccare, vede il signore anziano che prima gli aveva chiesto di un prodotto che non trovava, l’anziano si giustificava, dava colpa alla vista, all’età, era imbarazzato. Giovanni gli mette una mano sulla spalla e gli dice di essere molto contento di avergli trovato il prodotto e che bisogna sempre aiutarsi. Ancora l’ingenuità del disabile muove sentimenti, l’anziano lo guarda stupito di tanta accoglienza, e gli sorride e lo ringrazia un po emozionato. Una signora, mentre usciamo, compra una cioccolata e la regala al ragazzo down, lui la guarda e non capisce il perché di quel gesto, la ringrazia e dimentica la cioccolata sul bancone.
I clienti, di solito frettolosi e presi dai propri interessi, restano storditi al contatto con tutta quella affettività sconosciuta e sembrano togliersi una corazza, sembrano uscire dal limbo autoreferenziale e provano piacere, un piacere gratuito, compreso nel prezzo della spesa.
Queste sono le piccole ma grandi rivoluzioni, disabili all’accoglienza del cliente, disabili nelle corsie, disabili come inservienti, che possono alzare il grado di qualità nelle relazioni umane, anche sui luoghi di lavoro. Se si inserisce un disabile al lavoro, non lo si fa per il disabile, ma per un beneficio collettivo che altrimenti non accadrebbe, e continueremmo a camminare nei nostri scafandri colorati e identitari, credendoci illusoriamente persone abili e sensibili solo perché maggiormente produttivi secondo le leggi di mercato.
Conclusione
Ciò di cui ho narrato non è l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, questo racconto è un’isola felice, una bella sorpresa esistenziale per una persona, un semplice progetto scolastico di avvicinamento al lavoro. L’inserimento lavorativo come fatto sociale e istituzionale è tutta un’altra cosa, fatta di leggi, di problematiche, di forti impegni e di tentativi di evasione dei diritti, è un un fatto di civiltà, è azione politica, è complessità tra valori di mercato e valori umani, spesso non conciliabili… per questo ho voluto descrivere “l’isola felice di una giornata”, perché la grande complessità del problema col tempo copre quelle “luccicanze” che di tanto in tanto si manifestano nel rapporto tra disabilità e lavoro, luccicanza che bisogna mantenere accesa perché è il vero l’obbiettivo.
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