Diego Fusaro: La favola delle api di Bernard de Mandelville

| 15 Aprile 2017 | Comments (0)


Su segnalazione di Roberto Alvisi diffondiamo da www.filosofico.net questa scheda a  cura di Diego Fusaro

“Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente  quanto la fame è necessaria  per obbligarci a mangiare. E’ impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa” Bernard de Mndelville

 

BERNARD DE MANDEVILLE

Bernard del Mandeville nasce a Dordrecht, presso Rotterdam, nel 1670. Appartenente ad un’agiata famiglia di politici e medici, frequenta e si laurea in medicina alla celebre Università di Leyden a soli ventuno anni, nel 1691. Ben presto si trasferisce a Londra, dove esercita con eccellenti risultati la pratica medica (specializzandosi nei disturbi nervosi e in quelli dello stomaco) e dove si stabilisce definitivamente dopo essersi sposato, nel 1699, sino al 1733, quando si spegne ad Hackney. A parte questo della sua vita conosciamo poco. Al debutto del nuovo secolo, pur non abbandonando la professione medica, si dedica all’attività letteraria, prima come traduttore, poi facendo emergere la sua funambolica vena satirica che lo renderà un polemista capace di suscitare entusiasmo come feroci critiche. Data al 1704 la prima edizione della sua opera di maggiore successo, che gli procura fama e invettive in patria e che lo ha reso famoso ai posteri: The grumbling hive, or knaves turn’d honest (L’alveare ronzante ovvero i truffatori divenuti onesti). Successivamente, nel 1714, ne cura una nuova edizione che pubblica con il titolo The fable of the bees, or, private vices, publick benefits (La favola delle api, ovvero vizi privati, pubbliche virtù), nella quale inserisce anche un saggio intitolato Ricerca sull’origine della morale ed un ricco apparato di note. La favola delle api viene più volte modificata ed integrata sino al 1729 quando raggiunge la sua forma definitiva, alla quale oggi facciamo riferimento. Tra le altre sue opere che ne hanno fatto un rappresentante del primo illuminismo inglese, insieme a Jonathan Swift e a Alexander Pope, ricordiamo A modest defence of public stews (Una modesta difesa delle case di piacere), An inquiry into the origin of honour (Un’indagine sull’origine dell’onore) e A letter to Dion. La favola delle api, che fruttò all’autore anche noie giudiziarie, rappresenta il tipico esempio dei trattatelli filosofici di quella stagione felice e prospera di ingegni che fu l’illuminismo inglese, a torto negletta a vantaggio del successivo periodo francese, con la quale ha poco o punto a che vedere. Breve ed estremamente semplice da leggere, colma di sferzante sarcasmo e di immagini immediatamente recepibili, si tratta tuttavia di un’opera che sottende un’articolata indagine sul costume, sulla morale, pubblica e privata, e sull’effetto dell’intervento normativo dell’autorità pubblica. Di questo incessante approfondimento sono espressione le note e soprattutto il saggio che completano la favola. Mandeville dice, significativamente, che i vizi e le imperfezioni dell’uomo, sommate alla intemperie ambientali, spingono l’uomo stesso all’evoluzione biologica: proprio perché pungolato dall’amor proprio, egli organizza al meglio la sopravvivenza terrena, e le passioni in cui essa si ordina (orgoglio, avarizia, ecc) producono finalità (desiderio di arricchirsi e di primeggiare) e comportamenti (emulazione, concorrenza, ecc) la cui utilità pubblica è innegabile: quelli che sono vizi sul piano privato (l’emulazione, l’arricchirsi, ecc) diventano virtù sul piano pubblico, come recita il titolo della favola di Mandeville “La favola delle api. Vizi private e pubbliche virtù”, in cui l’autore racconta di un favo di api in cui la produzione del miele procede magnificamente poiché tutti lavorano instancabilmente, finchè esse non decidono di chiedere a Giove di far sì che si comportino non più per interesse ma per virtù: accontentate dal padre degli dèi, il loro favo va presto in rovina. La morale che se ne ricava è fin troppo evidente: “il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa”.

 

IL PENSIERO

Medico e filosofo olandese di origine francese, trascorse gran parte della sua vita in Inghilterra dove pubblicò i propri scritti in cui combatteva le convinzioni sociali e morali del tempo. In particolare, egli sostenne che l’egoismo non deve essere represso, in quanto perno attorno al quale si dispiegano le facoltà umane atte a realizzare il progresso e la convivenza sociale, ed è tramite appunto l’egoismo che i vizi privati si convertono in pubblici benefici. La sua opera fondamentale è “La Favola delle Api”, in cui esprime in modo radicale l’opinione secondo cui è l’interesse personale a guidare l’azione economica e a rendere possibile il pubblico beneficio. Incentrata sul poema allegorico dal titolo “L’alveare scontento”, venne pubblicata per la prima volta nel 1703, ma acquisì notorietà, grazie agli scandali che sollevò, nelle sue successive edizioni del 1714 e del 1723, con un commentario dello stesso autore con quello che sarà il titolo definitivo dell’opera, ossia “La Favola delle Api – vizi privati e pubblici benefici”. All’origine prospero e potente, questo “alveare” finisce per diventare povero e spopolato nel momento in cui i suoi abitanti mutano le proprie abitudini, divenendo parchi, risparmiatori, nonché virtuosi cittadini, da prodighi, orgogliosi e dediti a una vita lussuosa quali erano in precedenza. E la diminuzione dei consumi conseguente al mutamento dei costumi, finisce per provocare disoccupazione, depressione, e, di conseguenza, impoverimento generalizzato. Questo rapporto che Mandeville individua tra consumi e occupazione sembra indicarlo come un “keynesiano ante-litteram”. L’autore inglese ritiene che esistano due concezioni differenti della società civile, una prima che presuppone l’immagine di una comunità piccola , frugale e pacifica, retta dalla virtù e dallo spirito pubblico dei cittadini, e una seconda che si identifica con una società vasta e popolosa, commerciale e militare, priva sia della capacità, che del bisogno di suscitare la dedizione dei cittadini. Il confronto tra queste due concezioni diviene in Mandeville il fulcro di un’intera idea sociale e morale. Secondo Mandeville, un gruppo poco numeroso insediato su un territorio limitato, arriva a creare una società chiusa, pacifica ed egualitaria; frugale, senza commercio e denaro, dove i consumi sono limitati ai prodotti naturali del luogo. Una società, per dirla con Mandeville: “di uomini buoni e pacifici, disposti a essere poveri pur di stare tranquilli”. All’opposto, la società grande e popolosa, resa militarmente forte ed espansiva da un esercito permanente e professionale, controllata giuridicamente e amministrativamente da un potere politico sovrano e unitario, volta al commercio interno ed estero. I bisogni crescenti di questa società provocano la necessità di una moltiplicazione delle risorse disponibili, del progresso delle scienze e delle arti, mentre la sua prosperità e la sua potenza è legata al numero degli abitanti. Lo spirito civico cessa di essere il principio cardine della società, come pure il senso di appartenenza ad una comunità morale da parte dei suoi membri, la cui cooperazione reciproca (ognuno realizza i suoi fini lavorando per gli altri) è motivata unicamente dal proprio interesse personale. Ciò comporta che la grande società è una società commerciale, cui ognuno partecipa attraverso lo scambio di beni e servizi, rendendo così possibile la divisione del lavoro, e quindi il progresso tecnico e scientifico, ottenuto con la specializzazione, l’accumulo e la trasmissione dell’esperienza. Di conseguenza, l’istituzione del denaro diviene condizione per l’ordine, l’economia e la stessa esistenza della società civile. Mandeville è stato interpretato in vari modi dagli economisti moderni, chi ne ha fatto un epigono del “laissez-faire”, chi lo ha considerato un vero e proprio mercantilista, ma non si è lontani dal vero quando si afferma che risentì delle idee di un’epoca di transizione dal mercantilismo al liberoscambismo. Tra gli autori pre-classici, comunque, sembra essere quello che più di ogni altro ha enfatizzato il ruolo dell’interesse nella guida delle azioni individuali. Secondo Mandeville, le azioni umane sono indotte da considerazioni egoistiche sui propri desideri e passioni, e sui modi più semplici per soddisfarli, dal che si evince che le relazioni degli uomini con i loro bisogni materiali sono più importanti delle relazioni degli uomini tra loro, e che gli uomini vivono in società non perché la loro natura sia fondamentalmente sociale, ma unicamente per soddisfare i loro bisogni. Contrariamente a quanto sosterrà un secolo più tardi uno dei profeti del “laissez-faire”, Frederic Bastiat, Mandeville non credeva che vi fosse un’automatica armonia tra interessi sociali e individuali. Egli riteneva che i vizi privati possono portare a pubblici benefìci solo se l’interesse egoistico è propriamente indirizzato verso fini sociali dalla mano del governo politico. Il governo, secondo Mandeville, deve assicurare certi diritti fondamentali, promuovendo lo sviluppo istituzionale adeguato a liberare le potenzialità produttive dei cittadini ampliandone i bisogni e i desideri. Allo stesso modo, passioni quali orgoglio e vanità devono essere appropriatamente stimolate a perseguire l’interesse individuale, a patto che non si traducano in crimini che interferiscano con la pace e il benessere pubblico. Poiché anche gli economisti classici delle generazioni successive consideravano un quadro di istituzioni sociali e legali come premessa per l’operare efficiente dell’economia di mercato, si può sostenere che la forza con cui egli ha sottolineato il ruolo dell’interesse personale e la capacità equilibrante del mercato, avvicina Mandeville più alle posizioni liberali che non a quelle mercantiliste. È infine importante rilevare come in Mandeville si intraveda un nuovo modo di concepire il rapporto tra etica e ordine sociale. Se da un punto di vista etico le azioni virtuose sono quelle che intenzionalmente conducono al bene pubblico, le azioni effettivamente intraprese dagli individui riguardano il loro proprio interesse, mentre il benessere collettivo dipende da azioni che non sono consapevolmente rivolte a tale scopo. Dopo la religione, con Mandeville, anche la morale viene espulsa dalla considerazione degli affari umani, il che ci porta a considerare Mandeville come un autore “di transizione”, che opera una cesura tra sistema etico da un lato, nel quale l’ordine sociale dipende da regole morali che si riferiscono alla società intera, e sistema economico dall’altro, le cui regole dipendono dalle motivazioni individuali.

 

LA FAVOLA DELLE API

“Un numeroso sciame di api abitava un alveare spazioso. Là, in una felice abbondanza, esse vivevano tranquille. Questi insetti, celebri per le loro leggi, non lo erano meno per il successo delle loro armi e per il modo in cui si moltiplicavano. La loro dimora era un perfetto seminario di scienza e d’industria. Mai api vissero sotto un governo piú saggio; tuttavia mai ve ne furono di piú incostanti e di meno soddisfatte. Esse non erano né schiave infelici di una dura tirannia, né erano esposte ai crudeli disordini della feroce democrazia. Esse erano condotte da re che non potevano errare, perché il loro potere era saggiamente vincolato dalle leggi. Questi insetti, imitando ciò che si fa in città, nell’esercito e nel foro, vivevano perfettamente come gli uomini ed eseguivano, per quanto in piccolo, tutte le loro azioni. Le opere meravigliose compiute dall’abilità incomparabile delle loro piccole membra sfuggivano alla debole vista degli uomini; tuttavia non vi sono presso di noi né macchine, né operai, né mestieri, né navi, né cittadelle, né armate, né artigiani, né astuzie, né scienza, né negozi, né strumenti, insomma non v’è nulla di ciò che si vede presso gli uomini di cui questi operosi animali pure non si servissero. E siccome il loro linguaggio ci è sconosciuto, non possiamo parlare di ciò che le riguarda se non impiegando le nostre impressioni. Si ritiene generalmente che tra le cose degne d’esser notate, questi animali non conoscevano affatto l’uso né dei bossoli né dei dadi; ma, poiché avevano dei re, e conseguentemente delle guardie, si può naturalmente presumere che conoscessero qualche specie di giochi. Si vedono mai, infatti, degli ufficiali e dei soldati che si astengono da questo divertimento? Il fertile alveare era pieno di una moltitudine prodigiosa di abitanti, il cui grande numero contribuiva pure alla prosperità comune. Milioni di api erano occupate a soddisfare la vanità e le ambizioni di altre api, che erano impiegate unicamente a consumare i prodotti del lavoro delle prime. Malgrado una cosí grande quantità di operaie, i desideri di queste api non erano soddisfatti. Tante operaie e tanto lavoro potevano a mala pena mantenere il lusso della metà della popolazione. Alcuni, con grandi capitali e pochi affanni, facevano dei guadagni molto considerevoli. Altri, condannati a maneggiare la falce e la vanga, non potevano guadagnarsi la vita se non col sudore della fronte e consumando le loro forze nei mestieri piú penosi. Si vedevano poi degli altri applicarsi a dei lavori del tutto misteriosi, che non richiedevano né apprendistato, né sostanze, né travagli. Tali erano i cavalieri d’industria, i parassiti, i mezzani, i giocatori, i ladri, i falsari, i maghi, i preti, e in generale tutti coloro che, odiando la luce, sfruttavano con pratiche losche a loro vantaggio il lavoro dei loro vicini, che non essendo essi stessi capaci d’ingannare, erano meno diffidenti. Costoro erano chiamati furfanti; ma coloro i cui traffici erano piú rispettati, anche se in sostanza poco differenti dai primi, ricevevano un nome piú onorevole. Gli artigiani di qualsiasi professione, tutti coloro che esercitavano qualche impiego o che ricoprivano qualche carica, avevano tutti qualche sorta di furfanteria che era loro propria. Erano le sottigliezze dell’arte e l’abilità di mano. Come se le api non avessero potuto, senza istruire un processo, distinguere il legittimo dall’illegittimo, esse avevano dei giureconsulti, occupati a mantenere le animosità e a suscitare malefici cavilli: questo era lo scopo della loro arte. Le leggi fornivano loro i mezzi per rovinare i loro clienti e per approfittare destramente dei beni in questione. Preoccupati, soltanto di ricavare degli elevati onorari, non trascuravano nulla al fine d’impedire che si appianassero le difficoltà attraverso un accomodamento. Per difendere una cattiva causa, essi analizzavano le leggi con la stessa meticolosità con cui i ladri esaminano i palazzi e i negozi. Ciò soltanto allo scopo di scoprire il punto debole in cui potessero prevalere. I medici preferivano la reputazione alla scienza e le ricchezze alla guarigione dei loro malati. La maggior parte, anziché applicarsi allo studio dei princípi della loro disciplina, cercavano di acquistarsi una pratica fittizia. Sguardi gravi e un’aria pensosa erano tutto quello ch’essi possedevano per darsi la reputazione di uomini dotti. Non preoccupandosi della salute dei pazienti, essi lavoravano soltanto per acquistarsi il favore dei farmacisti, e per conquistarsi le lodi delle levatrici, dei preti e di tutti coloro che vivevano dei proventi tratti dalle nascite o dai funerali. Preoccupati di acquistarsi il favore del sesso loquace, essi ascoltavano con compiacenza le vecchie ricette della signora zia. I clienti, e tutte le loro famiglie, erano trattati con molta attenzione. Un sorriso affettato, degli sguardi graziosi, tutto era impiegato e serviva ad accattivarsi i loro spiriti già prevenuti. E si badava pure a trattare bene le guardie, per non doverne subire le impertinenze. Tra il grande numero dei preti di Giove, pagati per attirare sull’alveare la benedizione del cielo, ve n’erano ben pochi che avessero eloquenza e sapere. La maggior parte erano tanto presuntuosi quanto ignoranti. Erano visibili la loro pigrizia, la loro incontinenza, la loro avarizia e la loro vanità, malgrado la cura ch’essi si prendevano per nascondere agli occhi del pubblico questi difetti. Essi erano furfanti come dei borsaioli, intemperanti come dei marinai. Alcuni invece erano pallidi, coperti di vestiti laceri e pregavano misticamente per guadagnarsi il pane. E, mentre che questi sacri schiavi morivano di fame, i fannulloni per cui essi officiavano, si trovavano bene a loro agio. Si vedevano sui loro volti la prosperità, la salute e l’abbondanza di cui godevano. I soldati che erano stati messi in fuga venivano egualmente coperti di onori, se avevano la fortuna di sfuggire all’esercito vittorioso, anche se tra essi vi fossero dei veri poltroni, che non amavano affatto le stragi. Se vi era qualche valente generale che metteva in rotta i nemici, si trovava qualche persona che, corrotta con dei regali, favoriva la loro ritirata. Vi erano pure dei guerrieri che affrontavano il pericolo comparendo sempre nei punti piú esposti. Prima perdevano una gamba, quindi un braccio, infine, quando tutte queste mutilazioni li avevano resi non piú in grado di servire, li si congedava vergognosamente a mezza paga; mentre altri, che piú prudentemente non andavano mai all’attacco, ricavavano la doppia paga, per restare tranquillamente tra di loro. I loro re erano, sotto ogni riguardo, mal serviti. I loro ministri li ingannavano. Ve n’erano invero parecchi che non tralasciavano nulla per far progredire gl’interessi della corona; ma contemporaneamente essi saccheggiavano impunemente il tesoro che s’industriavano ad arricchire. Essi avevano il felice talento di spendere abbondantemente, nonostante che i loro stipendi fossero molto meschini; e per giunta si vantavano di essere molto modesti. Si esagerava forse nel considerare le loro prerogative quando le si denominava le loro “malversazioni”? E anche se ci si lamentava che non si comprendeva il loro gergo, essi si servivano del termine di “emolumenti”, senza mai voler parlare naturalmente e senza camuffamenti dei loro guadagni. Infatti non vi fu mai un’ape che sia stata effettivamente soddisfatta nel desiderio di apprendere, non dico quello che guadagnavano effettivamente questi ministri, ma neppure ciò che essi lasciavano scorgere dei loro guadagni. Essi assomigliavano ai nostri giocatori, i quali, per quanto siano stati fortunati al gioco, non diranno tuttavia mai in presenza dei perdenti tutto quello che hanno guadagnato. Chi potrebbe descrivere dettagliatamente tutte le frodi che si commettevano in questo alveare? Colui che acquistava del letame per ingrassare il suo prato, lo trovava falsificato per un quarto con pietre e cemento inutili; e per giunta qualsiasi poveretto non avrebbe avuto la facilità di brontolare di ciò, perché a sua volta imbrogliava mescolando al suo burro una metà di sale. La giustizia stessa, per quanto tanto rinomata per la sua fortuna di essere cieca, non era per questo meno sensibile al brillante splendore dell’oro. Corrotta dai doni, essa aveva sovente fatto pendere la bilancia che teneva nella sua mano sinistra. Imparziale in apparenza, quando si trattava d’infliggere delle pene corporali, di punire degli omicidi o degli altri gravi crimini, essa aveva bens’ spesso condannato al supplizio persone che avevano continuato le loro ribalderie dopo esser state punite con la gogna. Tuttavia si riteneva comunemente che la spada che essa portava non colpiva se non le api che erano povere e senza risorse; e che anche questa dea faceva appendere all’albero maledetto delle persone che, oppresse dalla fatale necessità, avevano commesso dei crimini che non peritavano affatto un tale trattamento. Con questa ingiusta severità, si cercava di mettere al sicuro il potente e il ricco. Essendo cosí ogni ceto pieno di vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità. era adulata in pace, temuta in guerra. Stimata presso gli stranieri, essa aveva in mano l’equilibrio di tutti gli altri alveari. Tutti i suoi membri a gara prodigavano le loro vite e i loro beni per la sua conservazione. Tale era lo stato fiorente di questo popolo. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica. Da quando la virtú, istruita dalle malizie politiche, aveva appreso i mille felici raggiri dell’astuzia, e da quando si era legata di amicizia col vizio, anche i piú scellerati facevano qualcosa per il bene comune. Le furberie dello stato conservavano la totalità, per quanto ogni cittadino se ne lamentasse. L’armonia in un concerto risulta da una combinazione di suoni che sono direttamente opposti. Cosí i membri di quella società, seguendo delle strade assolutamente contrarie, si aiutavano quasi loro malgrado. La temperanza e la sobrietà degli uni facilitava l’ubriachezza e la ghiottoneria degli altri. L’avarizia, questa funesta radice di tutti i mali, questo vizio snaturato e diabolico, era schiava del nobile difetto della prodigalità. Il lusso fastoso occupava milioni di poveri. La vanità, questa passione tanto destata, dava occupazione a un numero ancor maggiore. La stessa invidia e l’amor proprio, ministri dell’industria, facevano fiorire le arti e il commercio. Le stravaganze nel mangiare e nella diversità dei cibi, la sontuosità nel vestiario e nel mobilio, malgrado il loro ridicolo, costituivano la parte migliore del commercio. Sempre incostante, questo popolo cambiava le leggi come le mode. I regolamenti che erano stati saggiamente stabiliti venivano annullati e si sostituivano ad essi degli altri del tutto opposti. Tuttavia con l’alterare anche le loro antiche leggi e col correggerle, le api prevenivano degli errori che nessuna accortezza avrebbe potuto prevedere. In tal modo, poiché il vizio produceva l’astuzia, e l’astuzia si prodigava nell’industria, si vide a poco a poco l’alveare abbondare di tutte le comodità della vita. I piaceri reali, le dolcezze della vita, la comodità e il riposo erano divenuti dei beni cosí comuni che i poveri stessi vivevano allora piú piacevolmente di quanto non vivessero prima. Non si sarebbe potuto aggiungere nulla al benessere di questa società. Ma, ahimè, qual è mai la vanità della felicità dei poveri mortali! Non appena queste api avevano gustato le primizie del benessere, tosto mostrarono che è persino al di là del potere degli dèi il rendere perfetto il soggiorno terrestre. Il gruppo mormorante aveva spesso affermato di esser soddisfatto del governo e dei ministri; ma al piú piccolo dissesto cambiò idea. Come se fosse perduto senza scampo, maledí le politiche, gli eserciti e le flotte. Queste api riunirono le loro lagnanze, diffondendo ovunque queste parole: “siano maledette tutte le furberie che regnano presso di noi!”. Tuttavia ciascuna se le permetteva ancora; ma ciascuna aveva la crudeltà di non volerne concedere l’uso agli altri. Un personaggio che aveva ammassato immense ricchezze, ingannando il suo padrone, il re e i poveri, osò gridare a tutta forza: “il paese non può mancare di perire a causa di tutte le sue ingiustizie!”. E chi pensate che sia stato queste severo predicatore? Era un guantaio, che aveva venduto per tutta la sua vita, e che vendeva anche allora, delle pelli d’agnello per pelli di capretto. Non faceva la minima cosa in questa società che contribuisse al bene pubblico. Tuttavia ogni furfante gridò con impudenza: “buon Dio, dateci soltanto la probità!”. Mercurio (il dio dei ladroni) non poté trattenersi dal ridere nell’ascoltare una preghiera cos’ sfrontata. Gli altri dèi dissero che era stupidità il biasimare ciò che si amava. Ma Giove, indignato per queste preghiere, giurò infine che questo gruppo strillante sarebbe stato liberato dalla frode di cui essa si lamentava. Egli disse: “Da questo istante l’onestà s’impadronirà di tutti i loro cuori. Simile all’albero della scienza, essa aprirà gli occhi di ciascuno e gli farà percepire quei crimini che non si possono contemplare senza vergogna. Essi si sono riconosciuti colpevoli coi loro discorsi, e soprattutto col rossore suscitato sui loro volti dall’enormità dei loro crimini. È cosí che i bambini che vogliono nascondere le loro colpe, traditi dal loro colorito, immaginano che quando li si guarda, si legga sul loro volto malsicuro, la cattiva azione che hanno compiuto”. Ma, per Dio, quale costernazione! quale improvviso cambiamento! In meno di un’ora il prezzo delle derrate diminuí ovunque. Ciascuno, dal primo ministro sino ai contadini, si strappò la maschera d’ipocrisia che lo ricopriva. Alcuni, che erano ben conosciuti già da prima, apparivano degli stranieri, quand’ebbero ripreso le loro maniera naturali. Da questo momento il tribunale fu spopolato. I debitori saldavano di propria iniziativa i loro debiti, senza eccettuare neppure quelli che i loro creditori avevano dimenticato. Si condonava generosamente a coloro che non erano in grado di soddisfarli. Se sorgeva qualche difficoltà, quelli che avevano torto rimanevano cautamente in silenzio. Non si videro piú processi in cui entrassero la malvagità e la vessazione. Nessuno poteva piú accumulare ricchezze. La virtú e l’onestà regnavano nell’alveare. Che cosa potevano fare allora gli avvocati? Anche coloro che prima della rivoluzione non avevano avuto la fortuna di guadagnare molto, disperati, abbandonavano la loro scrivania e si ritiravano. La giustizia, che sino ad allora si era occupata di far impiccare alcune persone, concedeva la libertà a quelle che teneva prigioniere. Ma, dopo che le prigioni furono vuotate, diventando inutile la dea che ad esse presiedeva, costei si vide costretta a compiere una ritirata, con tutta la sua corte e il suo seguito rumoreggiante. Tra esso si videro i fabbri, addetti alle serrature, ai catenacci, alle inferriate, alle catene e alle porte munite di sbarre di ferro. Poi si videro i carcerieri, i secondini e i loro aiutanti. Venne poi la dea preceduta dal suo fedele ministro scudiero, il carnefice, grande esecutore delle sue sentenze severe. Essa non era armata della sua spada immaginaria, bensí in sua vece portava l’ascia e la corda. La signora giustizia, con gli occhi bendati, seduta su di una nuvola, fu cosí cacciata nell’aria accompagnata dalla sua corte. Attorno al suo seggio e dietro di esso vi erano i sergenti, gli uscieri e i domestici di tale specie, che si nutrivano delle lagrime degli sfortunati. L’alveare aveva ancora dei medici, cosí come prima della rivoluzione. Ma la medicina, quest’arte salutare, non era piú affidata se non a uomini abili. Essi erano cosí numerosi e cosí diffusi nell’alveare, che nessuno di essi aveva bisogno di una vettura. Le loro vane dispute erano cessate. Il compito di guarire prontamente i pazienti era quello che unicamente le occupava. Pieni di disprezzo per le medicine importate da paesi stranieri, essi si limitavano alle semplici medicine prodotte nel loro paese. Convinti che gli dèi non mandavano alcuna malattia alle nazioni senza donar loro, nello stesso tempo, i veri rimedi, si dedicavano a scoprire le proprietà delle piante che crescevano presso di loro. I ricchi ecclesiastici, destati dalla loro vergognosa pigrizia, non facevano piú servire le loro chiese da api prese alla giornata; officiavano essi stessi. La probità da cui erano animati li spingeva a offrire preghiere e sacrifici. Tutti coloro che non si sentivano capaci di adempiere questi doveri, o che ritenevano che si potesse fare a meno dei loro servizi, si dimettevano senza indugio dalle loro cariche. Non vi erano occupazioni sufficienti per tante persone, se pur ne restava ancora qualcuna: giacché il loro numero diminuiva intensamente. Erano tutti modestamente sottomessi al pontefice, il quale si occupava esclusivamente degli affari religiosi, abbandonando agli altri gli affari dello stato. Il reverendo capo, divenuto caritatevole, non aveva piú la durezza di cuore di cacciare dalla sua porta i poveri affamati. Mai si sentiva dire ch’egli prelevasse qualcosa dal salario del povero. Era invece presso di lui che l’affamato trovava cibo, il mercenario il suo pane, l’operaio bisognoso la sua tavola e il suo letto. Il cambiamento non fu meno considerevole fra i primi ministri del re e fra tutti gli ufficiali subalterni. Divenuti economi e temperanti, i loro stipendi bastavano loro per vivere. Se un’ape povera era venuta dieci volte per richiedere il giusto pagamento di una piccola somma, e qualche funzionario ben pagato l’aveva obbligata o a regalargli uno scudo o a non ricevere mai il suo pagamento, prima si era denominata una tale alternativa la “malversazione” del funzionario; ma ora la si chiamava, col giusto nome, una ribalderia manifesta. Una sola persona era sufficiente per adempiere le funzioni per le quali si richiedevano tre persone prima del felice cambiamento. Non v’era piú bisogno di affiancare un collega per sorvegliare le azioni di coloro a cui si affidava il mantenimento degli affari. I magistrati non si lasciavano piú corrompere e non cercavano piú di facilitare i ladrocini degli altri. Una sola persona compiva allora mille volte piú lavoro di quanto non ne facessero prima parecchie persone. Non era piú cosa onorevole il far figura alle spese dei propri creditori. Le livree restavano appese nelle botteghe dei rigattieri. Quelli che brillavano per la magnificenza delle loro carrozze, le vendevano a poco prezzo. I nobili si liberavano di tutti i loro superbi cavalli tanto sontuosi e persino delle loro campagne, per pagare i loro debiti. Si evitavano le spese inutili con la stessa cura con cui si evitava la frode. Non si mantenevano piú degli eserciti all’estero. Non curandosi piú della stima degli stranieri e della gloria frivola che si acquista con le armi, non si combatteva se non per difendere la propria patria contro coloro che attendevano ai suoi diritti e alla sua libertà. Gettate ora lo sguardo sul glorioso alveare. Contemplate l’accordo mirabile che regna tra il commercio e la buona fede. Le oscurità che offuscavano questo spettacolo sono scomparse: tutto si vede allo scoperto. Quanto le cose hanno mutato il loro volto! Coloro che facevano delle spese eccessive e tutti coloro che vivevano su questo lusso; sono stati costretti a ritirarsi. Invano tenteranno nuove occupazioni: esse non potranno fornir loro il necessario. Il prezzo dei poderi e degli edifici crollò. I palazzi incantevoli, i cui muri, simili alle mura di Tebe, erano stati elevati con armonia musicale, divennero deserti. I potenti, che prima avrebbero preferito perdere la loro vita piuttosto che veder cancellare i loro titoli fastosi scolpiti sui loro portici superbi, schernivano ora queste vane iscrizioni. L’architettura, quest’arte meravigliosa, fu del tutto abbandonata. Gli artigiani non trovavano piú nessuno che li volesse impiegare. I pittori non diventavano piú celebri con le loro pitture. La scultura, l’incisione, il cesello e la statuaria non furono piú rinomate nell’alveare. Le poche api che vi restarono, vivevano miseramente. Non ci si preoccupava piú di come spendere il proprio denaro, ma di come guadagnarne per vivere. Quando dovevano pagare il loro conto alla taverna, decidevano di non rimetterci piú piede. Non si vedevano piú le donne da bettola guadagnare tanto da poter indossare abiti drappeggiati d’oro. Torcicollo non donava piú delle grosse somme per avere del borgogna e degli uccelletti. I cortigiani, che si compiacevano di regalare a Natale alla loro amante degli smeraldi, spendendo in due ore tanto quanto una compagnia di cavalleria avrebbe speso in due giorni, fecero bagaglio e si ritirarono da un paese cosí miserevole. La superba Cloe, le cui grandi pretese avevano un tempo costretto il suo marito troppo condiscendente a saccheggiare lo stato, ora vende il suo abbigliamento, composto dei piú ricchi bottini delle Indie. Ora sopprime le sue spese e porta tutto l’anno lo stesso abito. L’età spensierata e mutevole è passata. Le mode non si susseguono piú con quella bizzarra incoscienza. Dal canto loro, tutti gli operai che lavoravano le ricche stoffe di seta e d’argento e tutti gli artigiani che dipendevano da loro, si ritirarono. Una pace profonda domina in questo regno; e ha come sua conseguenza l’abbondanza. Tutte le fabbriche che restano producono soltanto le stoffe piú semplici; tuttavia esse sono tutte molto care. La natura prodiga, non essendo piú costretta dall’infaticabile giardiniere, produce bensí i suoi frutti nelle sue stagioni; però non produce piú né rarità, né frutti precoci. A misura che diminuivano la vanità e il lusso, si videro gli antichi abitanti abbandonare la loro dimora. Non erano piú né i mercanti né le compagnie che facevano decadere le manifatture, erano la semplicità e la moderazione di tutte le api. Tutti i mestieri e tutte le arti erano abbandonati. La facile contentatura, questa peste dell’industria, fa loro ammirare la loro grossolana abbondanza. Essi non ricercarono piú la novità, non hanno piú alcuna ambizione. E cosí, essendo l’alveare pressoché deserto, le api non si potevano difendere contro gli attacchi dei loro nemici, cento volte piú numerosi. Esse difendevano tuttavia con tutto il valore possibile, finché qualcuna di loro avesse trovato un rifugio ben fortificato. Non v’era alcun traditore presso di loro. Tutte combattevano validamente per la causa comune. Il loro coraggio e la loro integrità furono infine coronate dalla vittoria. Ma questo trionfo costò loro tuttavia molto. Parecchie migliaia di queste valorose api perirono. Il resto dello sciame, che si era indurito nella fatica e nel lavoro, credette che l’agio e il riposo, che mettono a sí dura prova la temperanza, fossero un vizio. Volendo dunque garantirsi una volta per sempre da ogni ricaduta, tutte queste api si rifugiarono nel cupo cavo di un albero, dove a loro non resta altro, della loro antica felicità, che la contentatura dell’onestà.

 

MORALE

Abbandonate dunque le vostre lamentele, o mortali insensati! Invano cercate di accoppiare la grandezza di una nazione con la probità. Non vi sono che dei folli, che possono illudersi di gioire dei piaceri e delle comodità della terra, di esser famosi in guerra, di vivere bene a loro agio, e nello stesso tempo di essere virtuosi. Abbandonate queste vane chimere! Occorre che esistano la frode, il lusso e la vanità, se noi vogliamo fruirne i frutti. La fame è senza dubbio un terribile inconveniente. Ma come si potrebbe senza di essa fare la digestione, da cui dipendono la nostra nutrizione e la nostra crescita? Non dobbiamo forse il vino, questo liquore eccellente, a una pianta il cui legno è magro, brutto e tortuoso? Finché i suoi pampini sono lasciati abbandonati sulla pianta, si soffocano l’uno con l’altro, e diventano dei tralci inutili. Ma se invece i suoi rami sono tagliati, tosto essi, divenuti fecondi, fanno parte dei frutti piú eccellenti. È cosí che si scopre vantaggioso il vizio, quando la giustizia lo epura, eliminandone l’eccesso e la feccia. Anzi, il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa. Per far rivivere la felice età dell’oro, bisogna assolutamente, oltre all’onestà riprendere la ghianda che serviva di nutrimento ai nostri progenitori.”

 

Category: Storia della scienza e filosofia

About Diego Fusaro: Autopresentazione dal blog di Diego Fusaro de Il fatto quotidiano: Sono nato a Torino nel 1983 e insegno Storia della filosofia in Università. Mi considero allievo indipendente di Hegel e di Marx. Intellettuale dissidente e non allineato, sono al di là di destra e sinistra, convinto che occorra continuare nella lotta politica e culturale che fu di Marx e di Gramsci, in nome dell’emancipazione umana e dei diritti sociali. Resto convinto che, in ogni ambito, la via regia consista nel pensare con la propria testa, senza curarsi dell’opinione pubblica e del coro virtuoso del politicamente corretto. Tra i miei lavori più recenti: Bentornato Marx! (Bompiani, 2009), Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (Bompiani, 2012), Il futuro è nostro (Bompiani, Milano 2014), Antonio Gramsci. La passione di essere nel mondo (Feltrinelli, Milano 2015).

Leave a Reply




If you want a picture to show with your comment, go get a Gravatar.