Che cosa è cambiato nel mondo della ricerca in fisica?

| 15 Giugno 2011 | Comments (0)

 

Una valutazione dei cambiamenti della ricerca in fisica da parte di Silvio Bergia  dell’Università di Bologna che si è occupato di fisica delle particelle elementari e di fondamenti della meccanica quantistica e della relatività generale.

 Chi scrive ha passato il mezzo secolo in questione in istituti, e poi dipartimenti, di fisica, fra questi ultimi, in particolare, in quello di Bologna. E quello che segue non è un saggio, ma una raccolta di rimembranze e riflessioni personali – con riferimento particolare all’ambiente bolognese e a un ramo specifico della ricerca in fisica – su quanto in questo mondo è cambiato in questo lasso di tempo. Proverò, nonostante la mia estraneità a campi di studio lontani da quello delle scienze della natura, ad affrontare anche aspetti sociologici, riguardanti la normativa e il costume, ma anche la didattica e la ricerca.

I punti sui quali concentrerò maggiormente l’attenzione sono: il passaggio a un’università di massa, e  l’esplosione, con le relative conseguenze, del corpo studentesco; le modalità d’assunzione e le prospettive di carriera del corpo docente e ricercatore; le caratteristiche della ricerca, con l’occhio particolarmente rivolto al settore della fisica subnucleare, l’erede naturale del campo di studi del gruppo di Fermi, dedicando un’attenzione particolare ad alcune caratteristiche della divisione internazionale del lavoro e all’esistenza di una tipica linea di tendenza verso macchine più potenti, per usare una terminologia semplice, e gruppi di ricerca sempre più ampi.

Due avvertenze di carattere generalissimo circa i termini in cui rievocherò momenti della ricerca: ne riferirò, in termini assolutamente qualitativi, e, come tali largamente incompleti, l’intento essendo solo quello di evidenziare le caratteristiche cui alludevo nel capoverso precedente. E il resoconto della vicenda storica del campo di studi cui mi riferisco non ha la benché minima pretesa di completezza[1].

L’ambito, data la mia esperienza personale, sarà limitato. Limitato in quanto solo per alcuni aspetti sono in grado di sconfinare dall’ambito in cui ho operato, quello  di una specifica facoltà, quella di Scienze, e di uno specifico Dipartimento (nella terminologia attuale), come dicevo quello di Fisica di Bologna. E limitato geograficamente: ho avuto esperienze estere, e, naturalmente, ho avuto modo di frequentare vari centri e istituti di ricerca italiani, ma è circa la Facoltà e il Dipartimento di Bologna che mi sento di poter ricordare con conoscenza di causa qualcosa di interesse per quanto riguarda gli aspetti menzionati.

Comincio da una rimembranza di marcato carattere autobiografico, ma che ha il merito di introdurci  in modo immediato a uno dei temi di interesse. Ricordo che, nel 1954, ci iscrivemmo, a Bologna, al primo anno di Fisica, in otto; che al secondo anno eravamo rimasti in due: e che nell’autunno del 1958 ci laureammo in cinque (si erano aggiunti, o avevamo raggiunto per strada, tre altri). Già nel 55 gli iscritti erano saliti a 16, e questa volta, se ricordo, tutti avrebbero raggiunto la laurea. Almeno per quanto riguarda Bologna, sono gli anni che segnarono un inizio. L’inizio di un processo che avrebbe portato a Bologna, verso la fine del secolo, a quote sui duecento iscritti per anno.

Una prima, del resto ovvia, osservazione: c’è stato nel nostro Paese, in quegli anni, un rapido trapasso a una università di massa. Questo è, ovviamente, un aspetto di carattere generale.  Non ho mai seguito in dettaglio gli studi statistici al proposito. Rimando gli interessati a quelli coordinati, a Bologna, dal professor Andrea Cammelli. E confesso che ho in buona misura dimenticati quelli condotti, per quanto riguarda la fisica, dal collega Maurizio Spurio.

Ma bastano questi rapidi cenni a far cogliere, per quanto riguarda la fisica in particolare, un nodo, e un cambiamento, di marcato carattere sociologico: quello che riguarda le prospettive di lavoro e d’impiego per i laureati nella disciplina specifica. Tornerò abbondantemente su questo punto più avanti.

Un fenomeno parallelo riguarda il corpo docente. Non ci giuro, ma credo comunque di ricordare bene che, in quel fatidico anno accademico 1954-55, nell’allora Istituto di Fisica c’era un solo professore di ruolo, il mai abbastanza compianto Gampietro Puppi[2]. E una piccola schiera di assistenti e collaboratori.

E` appena il caso di ricordare che la fisica italiana aveva compiuto un salto di qualità con la nascita e l’affermazione della scuola di Enrico Fermi a Roma negli anni ‘30. Come pure che, nel dopoguerra, autori come Edoardo Amaldi l’avevano rilanciata. Ma si trattava pur sempre di fenomeni d’élite. Quello che avvenne nei secondi anni Cinquanta e negli anni Sessanta ha una carattere marcatamente diverso: in quelle scuole italiane si erano formati, ed erano maturati, numerosi fisici di valore. Ed ecco che, a Bologna in particolare, ma non solo, i ranghi si infoltirono rapidamente.  Nel giro di una decina d’anni si aggiunsero a Puppi alcuni ordinari. Non solo, perché  erano stati indetti vari concorsi per posti di assistente di ruolo.  Il reclutamento di giovani non si esauriva per questa via, perché l’Istituto, come buona parte degli altri in Italia, ospitava sezioni dell’INFN, che pure, con una trafila su cui tornerò brevemente, reclutava personale ricercatore. C’è un aspetto, riguardo a queste vicende, che merita un attimo d’attenzione: lo stato delle cose allora in Italia, in specifico riguardo al finanziamento delle università, lo permetteva.

Il discorso, peraltro, non finisce qui. Perché, immagino, nasce spontanea la curiosità sulle modalità di svolgimento dei concorsi, in specifico quelli per l’assunzione come assistenti di ruoli. Circa le quali, da sempre, si propone la domanda se si seguisse un rigoroso controllo dei meriti. Per farla breve, azzarderò, in proposito, la risposta che il controllo dei meriti veniva affiancato da forme che chiamerei di paternalismo: il titolare della cattedra che bandiva il concorso faceva chiaramente capire a chi era destinato il posto, per meriti a lui noti e da lui riconosciuti come tali, al punto che altri possibili concorrenti venivano sconsigliati dal partecipare. Paternalismo che peraltro mi azzardo a chiamare illuminato, nonostante la circostanza che non sia mai stato applicato a mio vantaggio. Illuminato non solo perché il cattedratico in questione di norma aveva cura di scegliere comunque giovani di qualità, ma anche perché, nella scelta, di norma perseguiva l’intento di favorire  una linea di sviluppo positiva relativamente al suo campo di ricerca.

E le carriere? Alludo a quelle, per così dire, interne, cioè riguardanti la ricerca e la didattica nell’università. L’assistentato e il reclutamento da parte dell’INFN come personale di ruolo costituivano un elemento di base. Ma c’era qualcosa a lato del primo nonché a a monte e a valle del secondo. Cominciamo da questo, ricorrendo, una volta di più, a una rimembranza di carattere autobiografico.  Tutti e noi cinque laureati in quella sessione autunnale dell’anno accademico 1958-59, senza neppure doverne far richiesta, ricevemmo immediatamente una borsa dell’INFN. E ricordo che, in quello stesso 1959, ci assegnarono un posto di ruolo, di sesto livello (R6), nell’INFN. Tutto a posto, dunque? Non proprio. Perché per cause di cui non serbo ricordo, se pure l’ho mai avuto, l’Ente scoprì che il numero di posti di ruolo sovvenzionabili si stava pericolosamente saturando. Era giusto, naturalmente, selezionare, per concorso, i passaggi via via ai livelli superiori. Ma nella circostanza si aggiunse un codicillo: gli R6 dovevano concorrere, in tempi brevi, a posti da R5, e chi falliva due volte, se ne andava. Quanto alla carriera universitaria propriamente detta, si rendevano via via disponibili posti di assistente, ma questo non risolveva il problema degli insegnamenti, il cui numero andava crescendo in virtù dell’aumento del numero degli esami complementari. Nacque così la figura del professore incaricato: incaricato di un insegnamento.  E l’incarico era annuale. Poi si sarebbe visto.

Possiamo dire che si stava in tal modo dando vita a forme di precariato confrontabili con quelle odierne? Certo si i trattava di numeri piccoli. E gli stessi professori incaricati vennero, qualunque cosa ciò comportasse in prospettiva, stabilizzati nella posizione se non in un ruolo.

Dicevo in partenza che avrei provato a tratteggiare aspetti sociologici, aspetti riguardanti la normativa e il costume, ma anche la didattica e la ricerca. Per quanto riguarda la prima, oltre al cenno che ho fatto riguardo  agli insegnamenti complementari, mi limiterò a ricordare che furono codificate riforme nei piani di studio che li rendevano più razionali. Sulla ricerca c’è qualcosa di più interessante sotto il punto di vista più generale che sto provando a seguire.

Lasciatemi intanto dire che negli anni di cui sto parlando, non soltanto a Bologna, ma in diverse altre sedi italiane, il settore di ricerca privilegiato era quello della fisica delle particelle elementari. Non fosse altro che per la buona ragione che essa costituiva la figliazione diretta della fisica nucleare, importata, e sviuluppata, in Italia, dal gruppo di Fermi prima della guerra. E, in secondo luogo, che, mentre a lungo il più fertile terreno di ricerca in questo campo era a lungo apparso essere il laboratorio naturale fornito dalla radiazione cosmica secondaria, nel primo dopoguerra, soprattutto negli Stati Uniti, esso stava gradualmente venendo sostituito da laboratori effettivi,  in cui i proiettili della radiazione cosmica erano sostituiti da fasci di particelle generati da macchine acceleratrici, e i nuclei dei gas dell’alta atmosfera da bersagli opportunamente preparati. Un fenomeno riguardante il piccolo corpo sociale dei fisici che durante la guerra avevano lavorato alla bomba negli Stati Uniti fu la loro conversione a questo tipo di studi. Lo stesso Fermi, lasciata Los Alamos, passò all’appena fondato Istitute for Nuclear Studies di Chicago per lavorare al sincrociclotrone che vi era ospitato. La storia degli acceleratori era cominciata, in realtà, molto prima, negli anni 1925-30, ma è solo nel dopoguerra che essi trovarono ampia applicazione nella ricerca di punta sulla fisica delle particelle elementari. Un aspetto che è opportuno sottolineare subito è che, per una legge basilare della fisica quantistica, la struttura delle particelle bersaglio è analizzata sempre più finemente con l’aumento dell’energia del fascio incidente prodotto dalla macchina. Di qui la graduale messa in opera nel mondo di acceleratori in grado di fornire fasci di sempre maggiore energia.

E l’Italia? E l’Europa? La prima macchina italiana, il sincrotrone di Frascati, fu costruito, negli anni fra il 1954 e il 1959, sotto la guida del giovanissimo Giorgio Salvini. Per quanto riguarda l’Europa, mi limiterò a ricordare che il 1954 fu  anche l’anno di nascita del grande laboratorio europeo del CERN , e che nel 1957 vi entrò in funzione il primo protosincrotrone. Lasciatemi anticipare qualcosa – più avanti ne dirò il perché – su un’altra macchina che fu pure costruita a Frascati. Bruno Touschek, Un fisico che, austriaco di nascita, diede il meglio di sé in Italia, concepì l’idea di realizzare una macchina (AdA, che sta per “anello di accumulazione”) nella quale far circolare, in senso opposto, e collidere, un fascio di elettroni e uno di positroni (le antiparticelle degli elettroni). AdA diventò operativa nel 1961. Essa, tuttavia, era un prototipo, costruito essenzialmente per verificare una possibilità e produrre l’esperienza necessaria per realizzare una macchina utilizzabile per esperimenti di rilievo. La costruzione di una tale macchina, Adone, fu completata a Frascati nel 1969 sotto la guida di Fernando Amman[3]. Una denominazione appropriata per macchine di questo tipo, più che anello di accumulazione, è quella di collisionatore (collider). Il suo principale vantaggio è che nel centro di massa del sistema, coincidente col punto fisso in cui avviene la collisione, questa mette a disposizione, per le reazioni possibili, la somma delle energia (totali) delle due particelle collidenti. 

Bene, negli istituti di fisica italiani, negli anni di cui ho parlato fin qui, di macchine acceleratrici  ce n’erano poche.  Naturalmente si poteva fare della fisica teorica, avanzando, e formalizzando in linguaggio matematico, ipotesi in grado di spiegare fatti sperimentalmente accertati e di proporre nuovi esperimenti in grado di corroborare quanto ipotizzato. E` un fatto che in Italia, e a Bologna in particolare, con l’occhio rivolto a quanto veniva riscontrato sperimentalmente del mondo, di fisica teorica se ne fece allora parecchia; e  – parere ampiamente condiviso – anche di qualità piuttosto alta. Ma si poteva anche – mettiamola in questi termini – “collaborare” a esperimenti da lontano. 

Ricordo giusto brevemente una vicenda che ha la virtù di gettare qualche piccolo raggio di luce su aspetti della ricerca di quegli anni. A seguito di un soggiorno di Puppi negli Stati Uniti, gruppi di ricerca con i quali era entrato in contatto sottoscrissero la proposta di inviare in Italia, presso alcuni Istituti di Fisica, fra i quali  quello di Bologna, serie di fotogrammi di eventi prodottisi in camera a bolle al cosmotrone di Brookhaven (New York), affinche  vi si conducesse un’analisi quantitativa degli stessi. Essi avevano evidentemente già il loro da fare per produrre macchine e rivelatori e raccogliere i dati. Non c’era allora in Italia una scuola di “bollisti” – chiamiamoli cosi – c’era per una scuola di validissimi “lastristi” – tecnici e ricercatori – eredi della tradizione di ricercatori come Beppo Occhialini; che, come molti altri, lasciata l’Italia fascista, aveva ottenuto, in collaborazione con autori britannici, importanti risultati dallo studio della radiazione cosmica. Bene, una autrice cino-americana, nota come Madame Wu, aveva appena eseguito un esperimento comprovante la non conservazione della parità nel decadimento del cobalto 60. Era diffusa l’idea che la violazione potesse essere dovuta a proprietà intrinseche del neutrino. I dati da analizzarsi in Italia riguardavano la produzione e il decadimento di iperoni. E l’analisi rivelò una violazione della parità anche in questi processi di decadimento, cosa che mostrò che l’effetto doveva essere una caratteristica generale delle interazioni cosiddette deboli.

A prescindere dal risultato, è interessante dare una scorsa alla lista dei firmatari dell’articolo che lo presentava, in numero di venti[4]. Di questi nove erano americani e undici “italiani”, termine da mettere fra virgolette, per il motivo che vi dirò fra breve. Dei primi, tre appartenevano all’Università del Michigan, e si capisce subito il perché quando si legge che fra essi figurava il nome di Glaser, l’inventore della camera a bolle; gli altri venivano da New York, Columbia University, Brookhaven National Laboratory: si tratta di coloro che avevano operato con l’acceleratore e raccolto i dati. Fra i nomi dei firmatari operanti in Italia troviamo in effetti quelli di un giapponesi, Hiroshi Tanaka, e di un argentino, Pedro Waloschek, entrambi attivi a Bologna in quel periodo. Altro piccolo elemento di interesse: la presenza di fisici di Paesi extraeuropei nei nostri laboratori era allora tutt’altro che inconsueta. Più in generale, mi pare che ci troviamo di fronte a un esempio peculiare e inconsueto di divisione internazionale del lavoro, nella quale il committente tratta in modo paritario il collaboratore che opera su un piano per vari aspetti subordinato. Infine una curiosità: ben quattro degli firmatari americani dell’articolo evrebbero ricevuto in seguito il premio Nobel: Donald Glaser nel 1960 per la camera a bolle, Jack Steinberger e Melvin Schwartz nel 1988 per aver sviluppato un metodo per produrre fasci di neutrini d’alta energia che avrebbero reso possibile la scoperta del neutrino muonico, Martin Perl nel 1995 per la scoperta del tau.

Ma è tempo di passare a un momento successivo di una ventina d’anni a quelli sommariamente illustrati in precedenza, quello in cui si attuò quella che si puo chiamare una vera riforma universitaria, che riguardava essenzialmente tre punti: l’istituzione dei dipartimenti; l’istituzione di un livello superiore di laurea (il dottorato di ricerca); una ristrutturazione del corpo docente, che doveva venire inquadrato nelle tre fasce dei professori ordinari, dei professori associati e dei ricercatori. Ciascuno dei punti richiede naturalmente qualche precisazione. Circa i Dipartimenti: ma non c’erano gli Istituti? Certo, ma, a parte la denominazione, un Dipartimento non era giusto un luogo, come un Istituto, ma una comunità e un organismo. Una comunità formata chiamata ad eleggere un Direttore e a dar vita ad un Consiglio, abilitato a deliberare, a maggioranza, per esempio (un esempio non irrilevante), circa quali posti mettere eventualmente a concorso. L’istituzione del dottorato di ricerca poneva fine ad una disomogeneità con altri Paesi, che poneva in difficoltà i nostri laureati che vi si recavano in quanto non potevano rivendicare una pariteticità del loro unico titolo di studio, la laurea, con un PhD o un Master. Anche l’inquadramento in tre fasce del corpo docente portava a una sua configurazione più vicina a quella di altri Paesi.

Un primo commento di carattere generale: sembra dunque che si debba  riconoscere che i tre punti apparivano portare a una razionalizzazione della situazione in atto. A questo vorrei aggiungere qualche commento più specifico. Già l’istituzione dei Dipartimenti appariva, di per sé, qualcosa che avrebbe posto fine ad una gestione paternalistica della cose, dei concorsi in particolare. A questo si aggiunge, particolare non irrilevante, che gli stessi Consigli di Facoltà, gestiti fino ad allora dai soli ordinari, si sarebbero aperti allo stuolo dei professori associati e a una rappresentanza dei ricercatori. Si andava dunque globalmente verso forme di molto maggiore democraticità. Tutto positivo dunque? Si può forse dire, al proposito, che se il paternalismo – in partenza negativo – può vantare forme di efficienza elevata posto che può portare a soluzioni rapide, e non negative se sufficientemente illuminate, la democraticità – in partenza, e di norma,  positiva – può a volte, seguendo – giustamente – delle regole, non lasciare campo libero  a scelte dettate da visioni illuminate sulle prospettive di sviluppo di alcuni specifici settori. Un ulteriore breve commento sull’inquadramento in ruolo di una notevole quantità di precari o quasi tali, come gli incaricati stabilizzati. Si è sentito spesso dire che fu attuata un’ope legis: chiunque, per così dire,  si trovava lì, era automaticamente immesso nell’uno o nell’altro dei due ruoli. Non è così: si era sottoposti a un giudizio di idoneità espresso da opportune commissioni nazionali. Di fatto una larga maggioranza fui immessa nei ruoli. Un errore? Mah … Come fai a dire che non è idoneo all’insegnamento qualcuno che Facoltà e Atenei hanno lasciato insegnare per una ventina d’anni?

E però è un fatto che, per così dire, i ruoli si saturarono. Quello dei ricercatori era inteso come temporaneo, nel senso che doveva costituire un primo passo della carriera di un docente universitario – anche se non per tutti, posto che una qualche forma di selezione deve pure esistere. Ma i ruoli superiori non potevano essere dilatati a dismisura. Ed è così che, negli anni intorno al 2000, si dovette prendere atto del fatto che l’età media dei “giovani” ricercatori si aggirava intorno ai cinquant’anni.  Un po’ tutti i passaggi di ruolo erano d’altra parte contingentati, perche la retribuzione del personale docente e ricercatore era diventata una voce del budget di facoltà, e ogni nuovo ingresso in un ruolo, o il passaggio da un ruolo a uno superiore, necessitava che si fosse liberata una quota del budget destinata allo specifico settore disciplinare sufficiente a coprire la spesa. E, d’altra parte, la saturazione del ruolo dei ricercatori, ha mortificato, e sta mortificando, le sacrosante aspirazioni di molti giovani a entrare a far parte del mondo della ricerca universitaria. Ho ricordato l’esplosione delle iscrizioni a fisica che si ebbe nei lustri che precedettero il duemila. Mi sembra fin troppo ovvio che non si può neppure lontanamente immaginare che un paio di centinaia di laureati all’anno, nella sola Bologna, possa pensare di entrare a far parte del corpo docente e ricercatore del nostro settore disciplinare.

Una parentesi: quali sono, se pure ci sono, le altre prospettive? Due appaiono, a priori, presentarsi come naturali: l’insegnamento nella scuola, in specifico nella media superiore, e l’impiego nell’industria. Per quanto riguarda la prima, credo che siamo tutti al corrente dell’aria che tira, che non è delle più favorevoli. Per quanto riguarda la seconda, a parte informazioni tratte dal libro di Luciano Gallino “La scomparsa dell’Italia industriale”, che ho letto qualche anno fa, nutro una sensazione-convinzione: che all’industria italiana, con poche eccezioni, della ricerca importi poco, anche quando le stesse dimensioni di un’impresa pemetterebbero un impiego di capitali in questa direzione. Se questa è la situazione, che dire oggigiorno a un giovane che abbia voglia di studiare? Non lo so. O forse giusto questo: fai i passi necessari per cercare di arrivare a fare, nella vita, quello che ti piace e ti interessa; ma, nel mentre, attrezzati psicologicamente per reggere alle più che probabili delusioni.

Ma, riprendendo il filo del discorso: se non si può pensare che un paio di centinaia di laureati all’anno, a Bologna, possa pensare di entrare a far parte del corpo docente e ricercatore del nostro settore disciplinare, si può, anzi si deve, pensare, che, come succedeva nei tardi anni cinquanta, alcuni di loro, poche unità, possano farlo. Ma questo, per l’avvenuta  saturazione dei ruoli, non sta succedendo da tempo. Ed è infatti da tempo che quelli che hanno la vocazione allo studio e alla ricerca cercano prospettive all’estero: chi ha conseguito una laurea magistrale una borsa di dottorato; che ha conseguito un dottorato una borsa post-doc. E siamo in diversi ad aver passato giorni, negli ultimi anni, a redigere per nostri allievi decine di quelle lettere di presentazione che sono di norma richieste dagli atenei interpellati. E la mia impressione  è che anche questa via stia risultando più difficile di quanto non lo fosse qualche lustro fa.

Per tutto questo, ed altri motivi, come credo sappiano un po’ tutti,  l’Università – le Università italiane – stanno vivendo un periodo difficile. E, con le Università, le Facoltà di Scienze e i Dipartimenti di Fisica.

Ma, per quanto riguarda questi ultimi, e le sezioni dell’INFN ad essi associate, alla crisi riguardante il personale, che peraltro non mi pare coinvolga la didattica, non si affianca una crisi per quanto concerne la ricerca. Discorso che vale, in particolare, per Bologna, presso il cui Dipartimento di Fisica si conducono ricerche avanzate in vari settori. Ho fatto la scelta in partenza di riferirmi, allo scopo di illustrare qualche aspetto di interesse in questa sede, alla fisica delle particelle elementari. E farò la stessa scelta qui, in maniera da poter illustrare, ovviamente secondo una visione personale e quindi ridotta, qualche modalità di evoluzione rispetto ai tempi inizialmente sommariamente illustrati.

Non so in che misura possa essere stato percepito, dai non addetti ai lavori, il passo sostanziale compiuto da questo campo di ricerca, tipicamente in un quarto di secolo, per fissare in qualche modo le idee, quello che va da quel 1959, che ho preso come data d’inizio per la storia che sto provando a raccontare, al 1984, anno del conferimento del premio Nobel a Carlo Rubbia. Direi, con una frase fatta: di tutto, di più. Sottolineo, in modo particolare, un aspetto: che la fauna delle particelle elementari si andò, nel corso di lunghi anni, allargando a dismisura, e così la pletora dei fenomeni riguardanti le interazioni fra di esse, facendo crescere in molti la sensazione che sarebbe stato ben difficile riuscire a cogliere in questo apparente disordine una ratio sottostante. E invece,  ad opera di un consistente numero di fisici teorici e di esperimenti di controllo, si arrivò a una conclusione del cammino, il cui passo finale  può essere preso come quello in cui un esperimento condotto al CERN sotto la guida di Rubbia diede una decisiva conferma della teoria elettrodebole impostata da Sheldon Glashow e rifinita da Steven Weinberg e Abdus Salam.

Aggiungere che la determinazione delle masse dei bosoni vettori mediatori dell’interazione in gioco si conseguì come risultato di un esperimento condotto al LEP del CERN risulta in sé poco rilevante dati gli aspetti soltanto molto generali della ricerca che sono qui presi in considerazione. Ma la cosa fornisce l’occasione per sottolineare due cose che invece rilevanti lo sono in relazione con quanto si vuol sottolineare circa aspetti della divisione internazionale del lavoro di ricerca e le sue linee di tendenza. Il LEP  è un erede naturale di Adone, la macchina messa a punto a Frascati, come ricordavo, nel 1959: l’acronimo sta infatti per Large Electron-Positron Collider; e, come Adone, il LEP era basicamente costituito da un anello circolare in cui, in un vuoto spinto, si facevano circolare, in versi opposti, per poi farli collidere in luoghi opportuni, fasci di elettroni e positroni. C’è però una non piccola differenza: Adone era un anello lungo 105 metri, e le particelle dei due fasci erano accelerate fini a un’energia di 1,5 GeV; il LEP era un anello lungo 27 chilometri, per vari motivi costruito in un tunnel a una profondità media di un centinaio di metri, e le particelle dei due fasci vi erano accelerate fino a un’energia di 105 GeV. Prima cosa, a questo punto piuttosto ovvia, da sottolineare: una volta di più constatiamo come una basilare linea di tendenza in questo campo di studi sia, come portato necessario della richiesta di aumentare l’energia disponibile nelle collisioni fra particelle, l’aumento delle dimensioni delle macchine, e, come vedremo, degli apparati di misurazione, con conseguente necessario aumento della spesa. Seconda cosa: nel mondo della ricerca, in questo come in altri campi, anche in virtù del problema della spesa, c’è stata sempre di norma, nell’insieme dei Paesi dove, per tradizione, si conducevano ricerche di punta, una gerarchia fra quelli che, anche e forse soprattutto per capacità di spesa, potevano di più e quelli che potevano di meno; o fra enti sovranazionali e singoli Paesi. Ma, per quanto riguarda l’innovazione, il seme per lo sviluppo di strumenti di alta levatura può germogliare,  come in questo caso, in un Paese dalle possibilità limitate[5].

Chiusa questa parentesi, ritorniamo a quella conclusione di un lungo cammino che ricordavo sopra. Si era pervenuti a quello che è noto come il modello standard: una visione del mondo dei costituenti elementari della materia che riduce questi a famiglie di pochi membri ed è pervenuta a formulare eleganti teorie basilari delle loro interazioni.

Da allora – non so quanto la mia sensazione sia condivisa – mi sembra che la ricerca in questo settore specifico stia passando per una fase di stallo. All’enorme messe di risultati, e soprattutto, di sistemazioni, ottenuti nel quarto di secolo precedente non si è aggiunto molto nel quarto di secolo successivo. Allo schema mancavano ancora un paio di tessere, il quark bottom e il neutrino del tau, che sono stati puntualmente entrambi trovati al Tevatron del Fermilab National Laboratory di Batavia, Illinois, rispettivamente nel 1995[6] e nel 2000. E si è trovato  qualcosa di importante, che aggiunge qualcosa al quadro, con la conferma delle cosiddette oscillazioni dei neutrini[7], un fenomeno, questo, che va oltre il modello standard. Ma, direi, nulla di confrontabile, quantitativamente, con quanto ottenuto in precedenza.

E – altra mia sensazione – mi sembra che si sia prodotta una divaricazione fra il percorso delle riflessioni ed elaborazioni teoriche e quello della messa a punto di nuovi esperimenti. Il primo conosce, come filone per qualche aspetto dominante, quello delle teorie di stringa, più in generale di quella che si è cominciato a chiamare una teoria del tutto, alla quale c’è chi rimprovera di non aver individuato, nel corso ormai di decenni di elaborazione, qualche predizione che sia suscettibile di un controllo osservativo. E, di fatto, risulta trovare scarsi punti di contatto con il secondo.

Il cui ritardo, se un ritardo c’è, ha essenzialmente a che fare, riducendo il dicorso all’osso, con quel punto centrale che ricordavo: che l’indagine sempre più sottile e raffinata da condursi sui costituenti elementari della materia e le loro interazioni richiede l’uso di macchine capaci di portare fasci di particelle a energie sempre più alte.

Come tutti sanno, la macchina più potente del mondo, l’LHC del CERN, è entrata in funzione. E, se appena uno dà anche solo un’occhiata alla sua struttura, e a quello che si è richiesto per gli esperimenti progettati, si rende conto del perché, per la sua messa a punto, siano stati necessari diversi anni. Cercherò, per quel non molto che mi è concesso di capire, di dirvi qualcosa su quanto ci si propone di indagare. E sulla partecipazione italiana.

Ma lasciatemi spendere prima qualche parola per ritornare su un tema già largamente affrontato: quello riguardante la divisione internazionale del lavoro nel mondo della ricerca in questo campo. Nel quale gli Stati Uniti sono stati a lungo il Paese leader, il CERN costituendone il piu prossimo concorrente.  Qualcosa sta cambiando, e non solo per l’avvento di LHC. C’è stato, per cominciare, un primo evento significativo.  Ho avuto la ventura, durante un breve soggiorno al CERN nel 1993, di sentire una conferenza tenuta presso il suo uditorio principale da Victor Weisskopf, un fisico teorico di origine austriaca emigrato, negli anni difficili, negli Stati Uniti, conferenza nel corso della quale egli disse che la grande macchina americana in progetto, il cosiddetto Superconducting Supercollider (SPS), concepita per surclassare il CERN, con ogni probabilità non sarebbe stata realizzata perché il governo americano non intendeva finanziarla.   E così fu. Un’altra macchina americana, il Tevatron, cui ho già fatto cenno, ha anticipato, per certi versi, il CERN nel corso degli ultimi anni. Ma, nelle ultime settimane, e circolata la notizia che il Tevatron chiuderà a fine anno per il mancato rinnovo dei fondi pubblici. Un articolo apparso sulla Repubblica il 27 aprile scorso, nel diffondere la notizia, preconizzava come conseguenza, fin dal titolo dell’articolo, una fuga di cervelli in senso opposto a quello che aveva in qualche misura coinvolto ricercatori europei, italiani in particolare. Non credo che le cose siano da porre proprio in questi termini. E` vero che il CERN è retto da 20 stati europei, che, accanto al fatto che sono chiamati a contribuire  ai costi della ricerca che vi si conduce, hanno il privilegio di essere rappresentati nel Consiglio responsabile delle decisioni su organizzazione e programmi. Ma, a parte il fatto che fisici di stati non membri possono partecipare agli esperimenti che vi si conducono, e che gli enti che finanziano la ricerca in questi stati sono chiamati a finanziare e rendere operativi gli esperimenti a cui collaborano (il CERN di per sé spende buona parte dei suoi fondi per la costruzione delle macchine, e contribuisce solo parzialmente alla conduzione degli esperimenti), alcuni stati membri, fra i quali Israele, Russia, India, Giappone e Stati Uniti, hanno uno status particolare, quello  Observers (Osservatori), che, come tali, hanno il privilegio di poter presenziare alla riunioni del Consiglio e riceverne i documenti. Non solo quindi il CERN non è, per così dire, l’Ente europeo che si contrappone a enti corrispondenti situati in altri continenti, ma, compatibilmente col suo statuto, è per molti aspetti sovranazionale e intercontinentale, al punto – tanto per dare qualche cifra – che hanno accesso alla strumentazione del CERN migliaia di fisici provenienti da 608 Istituzioni e Universita di tutto il mondo. Non sembra quindi di dover precionizzare una fuga di cervelli dagli Stati Uniti a Ginevra nei prossimi anni; né da altri stati: in effetti, per dire, anche i fisici del Dipartimento di Bologna e della sede bolognese dell’INFN conservano la loro retribuzione istituzionale e passano al CERN i periodi richiesti dalle fasi attive della sperimentazione. C’è qualcosa, in tutto questo, che appare avallare qualcosa che Weisskopf disse nell’occasione che rievocavo: che eventi come la mancata realizzazione dell’SPS avrebbero comportato che negli anni a venire la competizione fra i laboratori sulle due sponde dell’Atlantico avrebbe lasciato il passo alla collaborazione e a progetti comuni.

Ma è tempo di dire qualcosa della macchina, degli esperimenti che vi si stanno conducendo o che vi si condurranno in un prossimo futuro e – aggiornando il discorso su aspetti tratteggiati a proposito di vicende precedenti – circa alcune caratteristiche, forse le fondamentali, delle linee di tendenza della ricerca in questo campo, e delle forme di collaborazione che esse contemplano. Sulla macchina, per cominciare. Che è ospitata nel tunnel sotterraneo che ospitava il LEP; o, se preferiamo, che e lì che e stata costruita, con un lavoro pluriennale. Si tratta, ancora una volta, di un collider, ma in questo caso non si fa collidere un fascio di particelle con un fascio delle antiparticelle delle stesse, ma due fasci di protoni, che, naturalmente, girano in sensi opposti, ciascuno in un opportuno tubo a vuoto. Le collisioni avvengono in quattro punti lungo l’orbita, in corrispondenza di caverne nelle quali il tunnel si allarga per lasciare spazio a grandi sale sperimentali sotterranee, che albergano gli apparati necessari per la rilevazioni delle collisioni e delle proprietà delle particelle prodotte. Curiosamente, i nomi (ATLAS, CMS, LHCb, ALICE) – in realtà degli acronimi – di questi apparati danno il nome agli esperimenti che vi si effettuano. Curiosamente ma non poi tanto, visto che si tratta di oggetti di dimensioni lineari dell’ordine delle decine di metri e di masse dell’ordine di qualche migliaio di tonnellate, la stazza di un incrociatore pesante dell’ultima guerra mondiale; e un diverso esperimento comporterebbe la sostituzione dell’apparato. Mi vien fatto di paragonare le “sorgenti” di particelle, da usare come stimolatori, e i rivelatori degli eventi di collisione in opera in questi esperimenti ai loro corrispondenti utilizzati, nel 1934 e negli anni immediatamente successivi, dal gruppo di Fermi a Roma. “Sorgenti”, dicevo: nel caso di LHC i fasci di particelle prodotti e accelerati nella macchina, nel caso degli studi condotti in via Panisperna un tubo di vetro della lunghezza dell’ordine di un metro contenente radon, un gas nobile radiattivo che emette particelle alfa, e berillio, che, stimolato dalle alfa, emette neutroni, di cui si studiava l’azione sui nuclei dei diversi elementi della tavola periodica. E i rivelatori? Ho un’immagine, che, come quella del tubo di cui sopra, non posso mostrare, di un contatore Geiger di quelli usati dal gruppo romano: un oggettino lungo una decina di centimetri e del peso di un mezz’etto.

Ma è il caso di domandarsi che cosa si cerca con questi esperimenti. Segue una breve lista che ciascuno può ritrovare sul web:

-Il cosiddetto bosone di Higgs, ipotizzato nel 1964 dal fisico scozzese Peter Higgs nel quadro di un complesso meccanismo attraverso il quale la sua esistenza, finora non confermata, poteva rendere conto delle masse dei bosoni vettori cardini della teoria eletrodebole di Glashow, Weinberg e Salam;

-Esistono le particelle previste dalle teorie di supersimmetria (SUSY)?

-Che cosa sono la materia oscura e l’energia oscura che appaiono necessarie per rendere conto della dinamica dell’universo e che non sono rivelate dalla strumentazione astrofisica?

– Quali sono le caratteristiche della violazione di CP che possono spiegare l’asimmetria tra materia e antimateria, cioè la quasi assenza di antimateria nell’universo?

Finisco col menzionare che tre rivelatori, cioè ALICE, ATLAS e CMS hanno già gettato qualche luce su quello che doveva essere lo stato fisico della materia nei primissimi istanti di vita dell’Universo.

Ma ho chiuso anche col discorso generale che ho provato a fare? No. Ci sono un paio di cose che voglio ancora dire.

Scrivevo, qualche pagina sopra, che alla crisi riguardante status e carriere del personale non si affianca oggi una crisi per quanto concerne la ricerca, in particolare per Bologna: per tutti i settori, in particolare per quello cui ho dedicato qui un po’ di attenzione, visto che gruppi di ricercatori e tecnici del Dipartimento e della Sezione INFN partecipano a tutti e quattro gli esperimenti menzionati.

E auspichiamo tutti che nei prossimi anni  la ricerca in questo campo, quella condotta all’LHC e quella condotta negli studi dei fisici teorici, possa portarci a salti in avanti confrontabili con quelli che caratterizzarono il primo quarto del secolo scorso.

BIBLIOGRAFIA

S. Bergia, Fisica moderna – Relatività e fisica delle particelle elementari, Carocci, 2009.

S. Bergia, “Giampietro Puppi e le prime ricerche italiane in camera a bolle”, in: In memoria di Giampietro Puppi, Il Nuovo Saggiatore, 23, no. 5-6, 2007.

C. Bernardini, Fisica Vissuta, Codice, 2006.

E. Iarocci, “AdA, il successo di un’idea”, Il Nuovo Saggiatore, Vol. 27, no. 1-2, 2011.

S. Braibant, G.Giacomelli, M. Spurio, Particelle e interazioni fondamentali, Springer, 2009.

[Questo articolo è stato pubblicato in Inchiesta 172, 2011. In tutti i numeri della rivista c’è una sezione dedicata al tema “Scienza e democrazia”]


[1]           Rimanderei il lettore al libro che ho scritto recentemente (S. Bergia, 2009), se non fosse difficilmente reperibile in quanto stampato in un numero limitato di esemplari.

[2]           A Puppi è stato dedicato un numero del Nuovo Saggiatore. Dettagli sull’esperimento cui accenno nel seguito sono contenuti nel mio contributo (S. Bergia. 2007).

[3]           Per queste vicende, v. Carlo Bernardini (che vi partecipò attivamente), 2006.

[4]           Venti firmatari di un articolo: non sono pochi; d’altra parte, visto di che si trattava, la cosa appare giustificata. Anche a questo proposito le cose hanno seguito una linea piuttosto definita di sviluppo storico. Ricordo qui, per cominciare, un articolo a firma del solo Ernest Rutherford, uno dei fondatori della fisica nucleare, che si concludeva con la frase: “Desidero esprimere i miei ringraziamenti al Sig. William Key per la sua inestimabile assistenza nel contare scintillazioni”.

[5]           Sulla vicenda del collisionatori, da AdA al LEP e a LHC si veda Enzo Iarocci, 2011.

[6]           A proposito dell’aumento del numero medio di firme, in particolare per lavori di carattere sperimentale (cfr. la nota 4), fornisco alcuni dati riguardo all’articolo che notificava la scoperta. Numero dei firmatari: 398; istituzioni coinvolte: 38, fra le quali le sezioni INFN di Bologna e di Padova, i Laboratori Nazionali dell’INFN di Frascati, la sezione INFN e la Scuola Normale Superiore di Pisa, con un numero complessivo piuttosto elevato di partecipanti. Una nota semi-folcloristica: quattro autori, al 98% coreani, almeno di origine, di cognome Kim.  

[7]           Mi è particolarmente gradito ricordare, al proposito, l’opera di Giorgio Giacomelli, del nostro Dipartimento. Si veda al proposito, in particolare, Sylvie Braibant, Giorgio Giacomelli, Maurizio Spurio, 2009.

Category: Storia della scienza e filosofia

About Silvio Bergia: Silvio Bergia ha tenuto corsi di Metodi Matematici della Fisica, Relatività e Filosofia della Fisica per il corso di laurea in Fisica dell'Università di Bologna, presso il cui Dipartimento di Fisica ha svolto gran parte della sua attività di studio e ricerca in fisica. In particolare si è occupato delle particelle elementari, fondamenti della meccanica quantistica e della relatività generale, cosmologia e storia della fisica, attività che continua a svolgere, pur essendo in pensione dal novembre del 2007, soprattutto seguendo laureandi e dottorandi. È autore dei libri: Dal cosmo immutabile all'universo in evoluzione (Bollati Boringhieri, 1995), Dialogo sul sistema dell'Universo (McGraw Hill, 2002), Fisica Moderna. Relatività e Fisica delle Particelle (Carocci, 2009).

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