Stefano Bartezzaghi: L’amore e l’enigmistica

| 21 Ottobre 2014 | Comments (0)

 

Da www.libreriamo.it del 20 ottobre 2014 riportiamo l’intervento  di Alessandra Pavan sulla relazione che Stefano  Bartezzaghi ha tenuto al festival di Pordenone Scienza arteambiente. A questo intervento segue un brano di Erri De Luca e alcuni rebus con la parola amore: l’amore è un rebus

 

 

1. Stefano Bartezzaghi: L’amore e l’enigmistica

(articolo di Alessandra Pavan su www.libreriamo.it, 20 0ttobre 2014 )

 

Pordenone. Ad addentrarsi nelle Logiche del desiderio nell’ambito di Scienzarteambiente, il festival di Pordenone dedicato alla divulgazione e alla comunicazione scientifica, sabato 18 ottobre è stato Stefano Bartezzaghi, chiamato ad interrogarsi su L’amore e la guerra dei sensi. Giornalista e scrittore e soprattutto esperto di enigmistica, Bartezzaghi parte dalla difficoltà di dare una precisa definizione della parola amore: “Amore  – dice – è una parola che sfugge ad una precisa definizione, come anche creatività o spirito. Sono le parole più difficili ad essere facilmente spiegabili, mentre alcuni termini come amore appunto,  pur di altissima frequenza , risultano invece  a bassa definizione.” L’accezione di amore comunque nel dizionario corrisponde da una parte a  “Sentimento di viva affezione verso una persona che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercarne la”  e dall’altra ad “una forte attrazione anche di carattere sessuale per qualcuno.”

AMORE E AMMORE – Ovvero si chiede Bartezzaghi esiste l’amore e , com’è ora frequente nei social network,  l’ammore? In realtà la seconda grafia, che a uno studioso parrebbe derivare dal ritorno del dialetto si è diffuso – sorride lo studioso di enigmistica – grazie ad un certo tipo di professionismo brasiliano, ma risponde comunque ad un sentimento più forte, più intenso, più connotato da un punto di vista erotico e soprattutto più esibito.

Ad indicare i due tipi di amore sono chiamati in causa due grandi matrimoni: Grace Kelly e il principe Ranieri e Lady Diana e Carlo d’Inghilterra. Il primo è stato la rappresentazione tradizionale dell’amore: l’attrice che sposa il principe e passa dal mondo della rappresentazione alla rappresentanza, mantenendo un profilo pubblico discreto e rassicurante. Anni dopo invece il matrimonio regale è stato un evento televisivo – simbolo infatti secondo Umberto Eco della neo TV cosi come il primo era stato esempio della paleo TV – organizzato e studiato cosi da essere ripreso. E dopo l’evento, la love story tra Carlo e Diana è stata sempre sotto gli occhi di tutti : un ammore appunto.

LE PAROLE DELL’AMORE E L’ENIGMISTICA – Ma l’amore è soprattutto fatto di parole che, come dice André Breton  “fanno l’amore” e “fanno all’amore” cosi Bartezzaghi si dedica, nella seconda parte dell’incontro alla connessione tra amore ed enigmistica. Si parte dal Simposio di Platone laddove il filosofo greco dice da una parte che l’amore parla per enigmi e che  noi siamo enigmi nello specchio nell’altro, dall’altra che nell’amore si vive una sorta di nostalgia e di mancanza come se dovessimo ricongiungerci a qualcosa. “ E questo spiega – dice Bartezzaghi – l’espressione la mia metà”.  Questi due aspetti ritornano più volte nella letteratura da Charles Dickens ne Il nostro comune amico laddove dice “ Io ero rebus incarnato” all’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto  alla vergine Sfinge di Pindaro che parla per enigmi per punire il primo omosessuale del mito Laio, ma d’altra parte vuole che si risolva l’enigma e ricongiungere sapere e non sapere. “ Ma è nel Barocco che si gioca di più con il binomio amore – enigma – spiega lo scrittore – perché  l’ amore è ineffabile ed inesprimibile, ma riesce a congiungere cose impossibili  e diverse , che è poi la definizione di enigma secondo Aristotele . L’enigma, inoltre, dicono gli scrittori barocchi,  si fonde su una lacuna ed anela alla sua risoluzione ovvero  c’è attrazione fra enigma e sua soluzione, cosi come prefigurato nel destino della Sfinge.

AMORE COME DIVERTISSMENT ANAGRAMMATICO – L’amore inoltre è argomento di enigmi e giochi letterari a partire appunto dal Barocco e da Luigi Groto, che compone due sonetti sull’amor sacro e l’amor profano , nei quali il contrario in senso direzionale crea il contrario nel significato.  Ma i giochi con i nomi dell’amata cominciano già con Beatrice, Laura ( l’aura) e Eleonora  di Tasso ( E …le onora)  fino ad arrivare ad Italo Calvino, il cui interesse per l’anagramma risale al momento in cui si firmò come Tonio Cavillo in un ‘edizione per le scuole de Il barone rampante.  A fine anni ‘ 50 Calvino si innamorò di un amore impossibile per Elsa de Giorgi, un attrice dell’epoca sposatissima e pubblicò le Fiabe Italiane dedicandole a Raggio di Sole, un anagramma imperfetto del nome dell’amata. Fu l’Espresso nel 1957 ad interrogarsi per primo sull’identità di Raggio di Sole e ad arrivare a questa congettura, poco plausibile – un anagramma imperfetto – per un autore perfezionista quale fu Calvino. E allora ? “Fu il caso che svelò la cosa e ne derivò un caos?”, così Bartezzaghi sigilla la sua lectio dedicata alle lettere che si intrecciano con i cuori.


 

2. Erri De Luca : Amor e Roma

(da Il contrario di uno, Feltrinlli 2003)

 

Amor e Roma, in enigmistica si chiamano palindrome le parole e le frasi leggibili anche al contrario. Mi accaddero entrambe con forza di primizia lontano dal mio luogo. Diciotto anni, dal primo all’ultimo ho vissuto nella città di nascita, Napoli, da sterile, senza amare nessuna ragazza nei quartieri dell’adolescenza. Solo nell’isola di fronte, un’estate, mi spuntò amore per una ragazza di Roma. E quando a diciotto anni evasi dal mio luogo di fondamento e sud, andai in quella città, perché mi era restato amore, poco, però buono a far girare da quella parte uno che si scioglieva dal suo centro ed era equidistante da ogni stazione di arrivo.

Lei era già grande, studiava architettura, fumava. lo mai capace di tabacco, derivati e affini, mi ero scrollato di dosso studi, case, famiglia, città. Ero spaesato e spiritato. Ci sono decisioni prese in età aspra che non cedono più, conficcate in chissà quale osso.

Come molti arrivati senza invito, Roma fu all’inizio ferrovia. Nei suoi paraggi trovai brande in camere mobiliate, insieme a sconosciuti. Non sono mai stato così solo, una buona condizione per innamorarsi o perdersi. Non fui disperso perché intorno c’era una strana collera di gioventù, politica, ma niente da mischiare con partiti. Spartita, irregolare, senza congressi, affiliazioni, tessere, aveva per campo la strada e per parlamento le assemblee. Sbatteva contro polizie, tribunali, prigioni. Fui dei loro perciò non mi sono disperso. Mi sono innamorato, non della prima, dell’isola, ma della sorella, sedici anni, spaventosa di volontà e bellezza. Aveva mani spellate da un malanno, il solo che ho amato. Veneravo quelle dita screpolate, rosse, indolenzite, non l’ha creduto mai. Fosse stata lebbra gliel’avrei leccata per appiccicarmela alla lingua, fosse stata morte l’avrei voluta io. Meno di questo, l’amore non è niente.

Succedeva l’anno millenovecentosessantanove, più duro e lungo dell’annata di assaggio sessantotto. Dei giovani cominciavano a pensare a se stessi secondo biografie di rivoluzionari del primo Novecento. In molti imparavamo il pianto artificiale dei lacrimogeni, le zuffe delle cariche, i colpi e il buffo trasporto in gabbie da polli, i cellulari. Chi ero, cosa potevo dire di me: niente. Non ero di niente e di nessun luogo. Ero uno dei molti, che a volte erano pochi a contarli in un cortile di questura, in mezzo a un’indurita rappresaglia di uomini in divisa. Ero uno, anche meno di uno. Però amavo. Amavo la ragazza dai capelli lisci, messa di profilo in una fotografia di primavera ai fori romani, una nostra passeggiata. Amavo la ragazza che mi aveva accolto nelle spalle larghe, come fa, con una barca, una tempesta.

Mi contavo i muscoli, le ossa, com’ero poco, mi contavo gli anni, le monete: come potevo tenerla? Lei cresceva, era un’estate di fichi d’India e una catena di baci esauditi. Non avevo altro da desiderare oltre l’uscio dei baci. Più della libertà ho aspettato il minuto bollente in cui quattro labbra sospendono il respiro e si mischiano per gustare se stesse attraverso altre due e si confondono per appartenersi.

Lei stava in casa, io in stanze, ci s’incontrava raramente soli. I baci non sono anticipo d’altre tenerezze, sono il punto più alto. Dalla loro sommità si può scendere nelle braccia, nelle spinte dei fianchi, ma è trascinamento. Solo i baci sono buoni come le guance del pesce. Noi due avevamo l’esca sulle labbra, abboccavamo insieme.

Era inverno e stavo in una stanzetta, la prima in affitto, vicino a Villa Ada. Avevo inchiodato al muro una camicia. Si aprivano i bottoni e dentro c’erano due fotografie, sue. Mi venne a trovare di nascosto, ero ammalato. Sbolliva addosso a me una qualche febbre spessa, prepotente. Aprendo la porta mi sono tenuto forte alla maniglia. Mi ha preso stretto, come abbracciare inverno, brividi battenti, marmo dentro i piedi. Non c’era riscaldamento, ma me ne sono accorto in quel momento. Il corpo era duro di freddo, mentre avrei voluto nelle vene più cioccolata che sangue. Mi tenne nel suo cappotto di pelle di montone foderato a lana. Chiuse la porta col tacco e mi spinse all’indietro verso il letto senza allentare l’abbraccio.

Mi stese, poi si tolse i panni lasciandosi una veste bianca, lieve. Entrò nel buio delle coperte e mi coprì tutto il corpo col suo. Stavo sotto di lei a tremare di felicità e di freddo. Le nostre parti combinavano una coincidenza, mano su mano, piede su piede, capelli su capelli, ombelico su ombelico, naso a fianco di naso a respirare solo con quello a bocche unite. Non erano baci, ma combaciamento di due pezzi. Se esiste una tecnica di resurrezione lei la stava applicando. Assorbiva il mio freddo e la mia febbre, materie grezze che impastate nel suo corpo tornavano a me sotto peso di amore. Il suo teneva sotto il mio e il mio reggeva il suo, come fa una terra con la neve. Se esiste un’ alleanza tra femmina e maschio, io l’ho provata allora.

Durò un’ora, di più di ogni per sempre. Prima di andare rise della camicia al muro. È la mia crocifissione abbottonata. Non glielo dissi che dentro c’era lei. Non venne più. L’inverno ci staccava. Era venuta per lasciarmi e invece s’era stesa a guarirmi. Le cose migliori dell’amore accadono per caso, si capiscono dopo. Credevo che quella visita era inizio per noi di più vasta vita insieme, era termine invece. Credevo al dopo ed era il prima. Mi sbattevano in testa a colpi di campana le sillabe del poeta spagnolo:

“Per andare al nord, andò al sud. / Pensò che il grano era acqua / si sbagliava. / Pensò che il mare era cielo / e la notte la mattina. / Si sbagliava. / Che le stelle erano rugiada / e il caldo una nevicata / si sbagliava”. Un cantante da noi aveva messo sotto musica questi versi. La musica, come il sale, conserva meglio. Mi sbagliavo e intanto guarivo dall’amore, dai suoi attacchi di felicità. Mi abituavo alla città, una conduttura che perdeva amore da tutte le fontane. La attraversavo con gli occhi che avrò di nuovo da vecchio: Villa Ada era piena di bambini e di madri che non mi riguardavano.

A quel tempo gli operai della mensa universitaria e gli studenti avevano deciso che chiunque poteva andare e mangiare, anche senza tesserino. Con trecento lire ero al riparo. La febbre e il digiuno erano finiti, mi nutrivo a via De Lollis insieme ai molti che inventavano diritti nuovi, togliendoli ai poteri. La città era messa in discesa per noi che scendevamo in piazze di centro e di periferie, circondati da truppe che non temevamo più.

A qualche manifestazione, dentro mucchi di noi, l’ho rivista qualche volta. Si era sposata presto. Diventava una donna, una, e ne aveva contenute molte e io le avevo conosciute. Avevo amato le sue molte ragazze che si provavano i vestiti da donna nell’anno dei baci. Più tardi ho amato qualche altra con lo sbaglio che fosse ancora lei. Pretendevo quello sbaglio per potermi innamorare.

Me ne andai di corsa dalla stanza in affitto qualche anno dopo senza portarmi dietro neanche una mutanda. La camicia inchiodata ai polsi restò lì, di nessuno. E forse è giusto andarsene così, svelti, inseguiti. Ma questo fu dopo, quando s’induriva l’odio civile e i sangui nostri e altrui non facevano in tempo a seccarsi.

Nella furia dei lutti dimenticai la ragazza che mi aveva tenuto dritto nel suo cappotto e si era staccata da me per diventare una donna. Roma era piena di guerra. Chi dice ch’era inventata, l’ha invece disertata. Non era obbligatorio battersi, ma c’era di che. Quella generazione dei molti non bandiva arruolamenti, si bastava. Non aspirava a maggioranze, spostava il carico con strappi di minoranza. Non mi manca perché non si è mai tolta dai pensieri. Né mi manca quell’ora di resurrezione sotto il corpo della ragazza amata. lo l’ho avuta quell’ora sconfinata. lo l’ho avuta.

 

3. L’amore è un rebus

Frase 1-5-2-2-10 : L’amore mi fa sollazzare

 

 

Category: Fumetti, racconti ecc.., Sport e giochi

About Stefano Bartezzaghi: Stefano Bartezzaghi (Milano 1962). Si è laureato al DAMS dell'Università di Bologna) con Umberto Eco. È figlio di Piero Bartezzaghi, famoso enigmista, e fratello di Alessandro Bartezzaghi, condirettore della Settimana Enigmistica, e di Paolo, redattore della Gazzetta dello Sport. Dal 1987 ha tenuto rubriche sui giochi, sui libri, sul linguaggio; collabora con il quotidiano La Repubblica, per il quale pubblica le rubriche "Lessico e Nuvole", "Lapsus", "Fuori di Testo", e con il settimanale l'Espresso, con la rubrica di critica linguistica "Come dire". Dal 2010 è docente a contratto presso lo IULM - Libera Università di Lingue e Comunicazione di Milano, dove insegna "Teorie della creatività" e "Semiotica". Al tema della creatività ha dedicato il libro Il falò delle novità, nel quale prende in esame il rapporto tra creatività, linguaggio e nuovi media. Tra i suoi ultimi libri: Non se ne può più. Il libro dei tormentoni (Mondadori, 2010); Sedia a sdraio (Salani, 2011); Come dire. Galateo della comunicazione (Mondadori, 2011); Una telefonata con Primo Levi (Einaudi, 2012); Dando buca a Godot (Einaudi - Stile Libero, 2012);Il teatro della Sfinge e altri mitodrammi. Variazioni sul mito, scritture per la scena (con Monica Centanni e Daniela Sacco, Libreria Editrice Cafoscarina, 2013); Il falo delle novità. La creatività al tempo dei cellulari intelligenti (Utet, 2013).

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