Valerio Romitelli: Che salvare dell’università?
Valerio Romitelli
A margine del libro di Valeria Pinto Valutare e punire, Ed. Cronopio, 2012
Oggi niente sembra più ovvio del credere che tutto è informazione, perché la vita stessa sarebbe al fondo comunicazione di informazioni. É così che si giustifica l’altra credenza attualmente imperante che sia finalmente giunta l’epoca di una “società della conoscenza”. Anche grazie alla diffusione di internet si suppone infatti che tutto il sapere globalmente esistente sia disponibile come molteplicità di informazioni fruibili e scambiabili in “tempo reale”, offrendo opportunità senza precedenti di cambiamento e sviluppo in ogni tipo di relazioni intersoggettive.
I presupposti biologici di questa credenza sono improntati a una visione più neo-darwinista che classicamente darwinista. L'”egoismo” supposto essere motore dell’evoluzione, infatti, non è tanto quello dell’individuo vivente, quanto quello del “gene” (secondo la formula che titola il noto libro di Dawkins). Ciò significa ritenere che i destini del genere umano non dipendono da personaggi eccellenti, ma da comunità di individui dotati di patrimoni genetici vincenti. Ma ciò significa anche ammettere che ogni individuo con tali qualità possa trovarsi in condizioni ambientali avverse, che gli impediscono di valorizzarsi come meriterebbe, con un conseguente danno per tutto il genere umano.
Di qui viene la necessità di una bio-politica volta, non solo a premiare i meritevoli, ma anche ad aiutare quelli che non riescono a farsi valere come tali, in quanto svantaggiati da un contesto avverso. In tal senso, il mezzo più indicato pare essere il mercato in quanto regime di scambio per eccellenza e quindi anche di comunicazione di informazioni tra contesti diversi. Tra gli ultimi rimedi per estendere al massimo le possibilità di inclusione dei meritevoli sfortunati resta poi la filantropia di cui la maggioranza degli individui e delle comunità vincenti si dimostrano particolarmente generosi. Estensione ovunque possibile del mercato, della comunicazione e della filantropia sono in effetti tra le cifre più distintive di tutta quella parte maggioritaria della “Comunità internazionale” che segue il modello della “più grande democrazia del mondo”: ove “grande” è sinonimo di massima qualità, giustificata oggi soprattutto dal fatto di essere anche patria della società della conoscenza.
Ovvio allora risulta anche cosa si debba credere dell’esterno di questa società (dello scambio mercantile funzionale alla comunicazione) della conoscenza (ridotta a informazione). Tutti gli individui e le comunità che, volenti o nolenti, non si lasciano includere in tale società sono infatti necessariamente da ritenersi ritardati, poco o nulla dotati di capacità atte a contribuire allo sviluppo umano. Dunque, sue minacce, reali e/o potenziali. É significativa la scarsa precisione dedicata dagli epigoni della “società della conoscenza” nel definire i loro nemici, contro i quali le informazioni possono anche essere contrastanti o del tutto mutevoli.
Esempio massimo di tale trascuratezza si è dato in occasione dell’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein attaccato inizialmente perché dotato di quelle famigerate armi di distruzioni di massa, poi rivelatesi inesistenti, senza che nessuna conseguenza sia seguita a tale inevitabile costatazione. L’importante è che l’inimicizia sia credibile, tacitando ogni dubbio a riguardo con sovradosaggi di comunicazione. Non a caso, a questo proposito, categoria privilegiata è quella del massimo grado irrazionale della paura: il terrore, a volte più moderatamente sostituito dalle categorie non meno vaghe di dittatura o integralismo.
Oltre alla promozione dei meritevoli più fortunati e all’aiuto di quelli svantaggiati, altro pilastro della società della conoscenza (biologicamente utile) è dunque anche la sua “messa in sicurezza” contro i rischi e le minacce rappresentate anzitutto da individui e comunità chiusi alla comunicazione di informazioni.
I risultati effettivi così raggiunti non hanno niente di ovvio, ma si possono riassumere con tre parole chiave: “superclasse”, “ultimo miliardo” e crisi recessiva perdurante. La prima parola, desunta dall’omonimo titolo di un libro di Rothkopf, indica quella élite globale dotata di tale potere e tale ricchezza da condizionare i destini del mondo pur essendo ristretta (nel 2008) a non più di seimila persone. La seconda parola, desunta di titolo dell’omonimo libro di Collier, indica invece quella crescente popolazione globale, pari all’incirca al suo sesto, che si trova sempre più sospinta sotto i limiti della sopravvivenza. La terza parola infine indica la più grande crisi mai conosciuta dal capitalismo e ancora in corso, dovuta tra l’altro al complessivo contrarsi di tutti i mercati, salvo quello delle informazioni finanziarie.
Che ne è dunque dell’università in un simile contesto?
Tale è la questione di fondo su cui si cimenta il libro di Valeria Pinto, che insegna Filosofia teoretica alla “Federico II” di Napoli. L’angolatura scelta è quella della valutazione dei prodotti scientifici e delle sua applicazione agli atenei italiani, ma lo sguardo dell’autrice non si limita a questo tema domestico, inquadrandolo invece all’interno di tutte quelle condizioni globali, storiche, epistemologiche e sociali che lo rendono quanto mai attuale e significativo. Offrendo una vera e propria lezione di stile, a un tempo elegante e profonda, minuziosamente documentata e ardita, Valeria Pinto propone una decostruzione critica della genealogia, della logica e della pratica della valutazione, su scala nazionale e globale. Il tutto tenendo come riferimento privilegiato l’opera di Foucault – come lo stesso titolo del libro, parafrasi di Sorvegliare e punire, suggerisce. Ne esce un quadro del nostro tempo contrario a ogni ovvietà e che converge con molte delle osservazioni che ho appena introdotto. Senza ripercorrere il filo delle sue argomentazioni, vi colgo alcuni spunti di riflessione. Il modo migliore, mi è sembrato, per respingere le accuse che questo libro si è attirato di non contemplare una pars construens.
“Importanza crescente” a fronte di un “prestigio decrescente”
Questo è uno dei paradossi delle attuali università che Valeria Pinto illustra (p.112).
L'”importanza crescente” viene dal fatto che la supposta società della conoscenza non può certo non esaltare la rilevanza di tali istituzioni alle quali gli Stati nazione di tradizione occidentale hanno affidato la missione di produrre e trasmettere il sapere. Il loro “prestigio decrescente” deriva invece dal fatto che tale genere di sapere ha qualcosa di assolutamente incompatibile con ciò che risulta funzionale alla cosiddetta società della conoscenza. Così le università appaiono oggi funzionare troppo e troppo poco: in un modo allo stesso tempo troppo inefficiente e troppo poco utile. Demotivare gli eccessi e compensare le mancanze che così risultano è dunque il compito precipuo della valutazione, che (come attestato in Valutare e punire) le sue agenzie non presentano mai come logica inoppugnabile, ma come rimedio tanto approssimativo, quanto unico.
Valerio Pinto descrive e analizza in modo molto ampio come viene applicata questa logica, mostrandone presupposti e conseguenze a vari livelli. Ma uno degli aspetti più salienti di tutta la questione risiede in un fatto assai singolare. Si tratta, in estrema sintesi, della pretesa attualmente imperante di revocare quella è che stata una delle poche certezze della tradizione universitaria, almeno a livello di principio: che la trasmissione del sapere debba essere subordinata alla sua produzione intellettuale, dunque da essa condizionata. In effetti, gli epigoni della “società della conoscenza” puntano proprio a invertire questa priorità. Supponendo che tutto dipenda dalla comunicazione, considerano che ogni conoscenza sia inutile se non è credibile a questo livello, cioè come informazione. E poiché si suppone che sia il mercato un banco di prova privilegiato di tale credibilità, si richiede alle università non solo di convertirsi a dispensatrici di informazioni (da cui consegue per esempio la penetrazione anche nelle aule accademiche di quella che Valeria Pinto chiama opportunamente chiama “la dittatura delle slides”), ma di farlo in funzione delle necessità del mercato, imprese e manager. Ma siamo molto oltre quel fenomeno della “mercificazione del sapere” già variamente denunciato nel secolo scorso. Ciò che sta divenendo obbligatorio per i cosiddetti “lavoratori della conoscenza” non è solo, come si sente dire, uscire dalla loro “torre d’avorio” per impegnarsi direttamente nella vendita dei loro prodotti. L’imperativo è che essi diventino commercianti “dentro”: che interiorizzino, fin anche nel concepimento, oltre che nel corso del loro stesso lavoro di ricerca, l’obiettivo del produrre per il mercato. O più precisamente per il mercato quale esso è oggi, al tempo della “società della conoscenza”: mosso anzitutto, non dagli scambi di merci comunque “reali”, ma dai flussi delle informazioni finanziarie non di rado gonfiate tanto da far scoppiare le famigerate “bolle”.
Ecco dunque che queste istituzioni millenarie, da tempo immemore egemoni in fatto di conoscenza, si trovano a dovere interiorizzare valori del tutto esogeni e spesso ad alto rischio di improbabilità. La valutazione che si esercita in queste istituzioni, come ormai ovunque (nel privato come nel pubblico), funziona allora, più che altrove, come “cavallo di Troia” di tali valori d'”impatto” comunicativo e di mercato.
Si assiste per tanto a una tendenza (cui Valutare e punire fa cenno) simile a quella oramai imperante in campo economico. Così come la produzione delle merci non è più considerata il cuore dell’economia, allo stesso modo la produzione intellettuale non è più considerata il cuore della conoscenza. Così come le imprese valgono non tanto per le loro capacità produttive, quanto per la loro credibilità in termini di informazioni finanziarie, lo stesso si può dire che avvenga per le università, le quali sono supposte valere non tanto come sedi di produzione e trasmissione di conoscenze, quanto come importanti fonti d’erogazione di informazioni utili alla comunicazione di mercato. Come nel primo caso si parla di de-industrializzazione, nel secondo caso si dovrebbe parlare di de-intellettualizzazione. Ma mentre la de-industrializzazione tocca per lo più solo i paesi più ricchi, la de-intellettualizzazione imperversa ovunque, visto che in ogni università del mondo, anche in quelle dei paesi “emergenti”, imperversa la valutazione. Così quel che resta della tradizione accademica sembra assomigliare a quell’economia detta “reale” oramai del tutto sottomessa a quella detta “fittizia”, incline alle speculazioni finanziarie. I danni di quest’ultima sono oramai evidenti, come la perdurante crisi dimostra. Meno noti sono quelli similmente subiti dalle università. Ma basta leggere questo libro per capire quanto vi siano cresciute perversioni, falsi e corruzione da quando la valutazione è operante.
Contrastare la “dittatura” di quest’ultima (come la chiama l’a.) sarebbe dunque imperativo politico simile a quello da più parti rivendicato di contrastare la “dittatura” dei mercati finanziari in economia. Ma il condizionale è d’obbligo perché niente può apparire oggi più scandaloso del volere preservare l’università dalla valutazione. Come ogni dittatura, anche quest’ultima si è formata in mancanza di alternative, le quali risultano oggi tanto meno probabili quanto più tale regime si sta sedimentando, anche se con conseguenze disastrose. Oggi praticamente ogni cosa al mondo viene valutata sul metro delle informazioni che sta al cuore del modello trionfante (e in realtà letteralmente catastrofico) della “società della conoscenza”. Nulla di strano dunque che ciò capiti anche all’università. E a maggior ragione ciò capita proprio dal momento che si pretende pragmaticamente che il sapere sia fondamentalmente “saper fare”(comunicazione); dunque, ubiquo: ovunque, cioè in nessun luogo privilegiato. La valutazione serve proprio a tacitare ogni rivendicazione dell’università di essere tale luogo, lasciando che si legittimi solo dimostrandosi eccellente nell’offrire informazioni utili. Il risentimento dell’ignoranza contro il sapere trova così un suo grande momento di riscatto, mentre quella parte della popolazione accademica che da sempre ha operato nell’università come sede più di potere che di sapere trova opportunità mai viste in precedenza.
Di tutto questo, detto qui in poche parole, Valeria Pinto tratta con argomentazioni ben più articolate e illuminanti, tornando spesso, anche se indirettamente, sulla questione su cosa resti da salvare di questa istituzione. In effetti, politiche alternative a quella della valutazione non se ne vedono. Critiche puntuali ne circolano, come Valutare e punire documenta. Ma questo libro offre anche ulteriori stimoli per chiedersi se davvero non resterà nulla dell’università al di fuori della sua riconversione cognitiva.
Quello che l’a. ritiene da salvare è reperibile più in particolare in alcuni passaggi in cui tornano termini come “senso”, “pensiero”, “non univocità”, “non direttamente comunicabile” riferiti al lavoro di ricerca. Condividendo in pieno questa prospettiva la sintetizzo così: che ogni ricerca produttiva di conoscenza implica un’attività intellettuale, un pensare, che non coincidono mai con quelli necessari alla trasmissione di quella stessa conoscenza, cosicché ogni risultato scientifico è frutto di una scelta singolare che resta inevitabilmente implicita, essenzialmente incomunicabile. Col che si spiega che tutte le opere scientifiche per essere apprezzate come meritano sono sempre da ripensare più e più volte: quelle più rilevanti addirittura all’infinito. Sono queste evidentemente solo poche parole per segnalare un problema epistemologico vastissimo, ma spero che siano sufficienti a chiarire due cose qui decisive. Da un lato, che il contenuto di ogni prodotto scientifico è più racchiuso che manifestato dalla forma nella quale viene comunicato. Dall’altro, che vincolare tale forma ad attenersi a parametri valutabili può solo lederne il contenuto scientifico.
Riflessioni simili vengono fatte da Valeria Pinto a proposito della filosofia per sottolineare l’evidente impossibilità di sottoporla valutazioni esterne a ogni sua formulazione singolare. Ciò significa, per esempio, che non è possibile “valutare” la “monade” di Leibniz o la “sostanza” di Spinoza se non si comprende il “valore” che queste categorie hanno all’interno dei modi di pensare del tutto sui generis di ciascuno di queste due filosofi. Proprio per questo suo essere “regola di cui si conoscono solo eccezioni” (p. 182) la filosofia si è già da sempre trovata scomoda nella stessa università: difficile pensare che ne sarà in un regime di dittatura valutativa. Questa la conclusione dell’a. che non risparmia sarcasmi ameni: “Per dirlo in modo più diretto, un dipartimento di filosofia ‘orientato alla verità’ è destinato a sparire; ma i suoi membri devono essere sufficientemente duttili e ‘smart’ da sapersi riciclare per esempio in dipartimento di medicina come utili fornitori di etica medica” (p.109).
Così pare che grazie alla valutazione si stia consumando un definitivo divorzio di quel matrimonio di convenienza, comunque durato qualche secolo, tra università e filosofia. Ma ci sono anche altre specie di ricerca, tanto preziose quanto bistrattate dall’ambiente universitario, che sono attualmente minacciate di estinzione.
Solo qualche cenno in proposito. Tanto schematico da essere, per così dire, a prova di slide.
In effetti, un’università come quella di Bologna che rivendica un primato in fatto di longevità pare nata otto secoli prima di quando Carducci nel 1888 ne volle celebrare l’VIII centenario. Teologia e giurisprudenza erano le materie insegnate in quel 1088, oggi quasi inimmaginabile. Fatto sta che tali dottrine bastavano in un mondo esperito e studiato secondo la visione tolemaica. Unità e misura di ogni conoscenza allora erano dati certi. Convergevano verso l’Ente di tutti gli enti, passando per la mediazione di Chiesa, Impero, clero e nobiltà varie. L’Uno dell’Università non faceva problema. Esso ha cominciato a porsi invece con quel passaggio che Alexander Koyré ha magistralmente insegnato a conoscere come “dal mondo chiuso all’universo infinito”. Col diffondersi del galileismo e l’esplodere della modernità, l’unità del sapere è divenuta questione sempre più ostica. Il proliferare delle più diverse scienze sperimentali, ognuna con propri modi di pensare, calcoli e banchi di prova, non poteva infatti non mettere in crisi il presupposto, in fondo religiosom secondo il quale la conoscenza potesse avere un’unica misura. Di conseguenza anche per le università non è stato affatto pacifico l’accoglimento di queste scienze moderne, così radicalmente diverse da quelle teologica e giuridica. A mediare questo dissidio ha infine provveduto l’idea di nazione come espressone della sovranità del popolo. Grazie al modello prussiano di Humboldt e specie dopo il congresso di Vienna, le università sono allora state incaricate dai rispettivi Stati del governo della produzione e della trasmissione di ogni sapere, compreso quello delle scienze sperimentali, nel presupposto che anch’esse dovessero servire a quel progresso del mondo garantito dal concerto delle potenze europee. Da allora, in fatto di idee uni(versi)tarie della conoscenza, non ci sono state molte alternative. Una è stata quella tentata dai paesi socialisti e dai loro regimi particolarmente universitari, dal momento che puntavano a pianificare scientificamente la transizione al comunismo. Attenta anche alla dimensione geopolitica, Valerio Pinto nota giustamente che il vento della valutazione delle conoscenze ha cominciato a spirare non tanto per l’avvento delle “università di massa”, quanto a seguito del disgregarsi del blocco comunista. In effetti, è nello spazio del mercato globale che l’informazione si è potuta imporre a colpi di valutazione come “nuovo linguaggio della scienza” (dal titolo dell’omonimo libro di H. C. Von Baeyern), ossia come nuova unità di misura di ogni sapere.
Il tutto per dire che se questa novità minaccia d’estinzione la filosofia, parimenti minaccia anche la diversità disomogenea dello sperimentalismo scientifico moderno. Ma per dire anche che per salvare queste specie di ricerca poco giova fare appello alla tradizione dell’università, dato che il suo ambiente non le ha mai veramente valorizzate a dovere.
Ammettere che il sapere è una molteplicità senza unità (di misura comune) non significa per altro rivendicare una sorta di anarchismo epistemologico. Può volere dire più semplicemente che ogni unificazione del sapere, in ogni epoca storica, è sempre dipesa dalle strategie politiche adottate a riguardo. Quella della valutazione oggi imperversante ne è una, che mira a svuotare l’università delle sue risorse cognitive più profonde e per questo meno evidenti, meno d’impatto comunicativo. Il problema sarebbe dunque di organizzare altre strategie politiche, a partire proprio da tali risorse e da chi le coltiva.
Valerio Romitelli
Category: Scuola e Università
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