Roberto Bergamini: Il filo rosso del lavoro
Dieci anni fa moriva Roberto Bergamini, fisico teorico che ha studiato e fatto ricerca ottenendo risultati di valore internazionale soprattutto nel campo della astrofisica relativistica e della cosmologia, nonchè militante del movimento di liberazione e ribellione contro lo sfruttamento e il dominio capitalistico, partecipe delle occupazioni gli scioperi i picchetti i cortei tanto quanto della produzione di intelligenza critica e rivoluzionaria, ricordiamo in particolare la sua partecipazione alla rivista “Il Cerchio di Gesso” dopo l’omicidio di Francesco Lo Russo da parte di un carabiniere durante il movimento del 77, rivista animata tra gli altri da Boarini, Forconi, Roversi, Scalia.
Il 7 Giugno di quest’anno al Dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna, si è tenuto un simposio in memoria di Roberto, coordinato da Pasquale Londrillo che con Bergamini e Giancarlo Setti elaborò un primo lavoro di ricerca (1967) sulla connessione del fondo cosmico dei raggi x, di cui in quegli anni venivano le prime evidenze osservative, con la radiazione cosmica di corpo nero, residuo del Big Bang, l’esplosione primigenia che dette origine al nostro attuale universo. In questo consesso si sono coniugate insieme le ragioni individuali nel ricordo delle qualità di grande generosità e umanità di un amico con quelle collettive sfogliando l’album di famiglia di un gruppo di giovani che cominciò la sua storia scientifica e politica all’Istituto di Fisica A. Righi nella secondà metà degli anni sessanta. In questo quadro la redazione di Inchiesta pubblica due documenti di Roberto Bergamini, uno scritto nell’occupazione di Fisica del 1967 “Scienza, tecnica e industria”, in seguito stampato su la rivista chefare, diretta da Gianni Scalia, e un secondo inedito trovato Stefano Ottani tra le carte di Roberto, “Il filo rosso del lavoro”. Si tratta a nostro avviso di analisi e proposte molto profonde e interessanti proprio oggi in piena crisi economica, sociale e di civiltà. La redazione ringrazia Bruno Giorgini per aver progettato e coodinato questa iniziativa e Ellis Boscarol per la cura di trascrizione e editing dei due scritti.
1. Roberto Bergamini: Il filo rosso del lavoro
Inedito, data di redazione sconosciuta.
Le grandi trasformazioni che stanno avvenendo nella parte privilegiata del mondo sembrano aver spezzato quel filo rosso che faceva della questione lavoro il perno di ogni possibile riorganizzazione della società, la chiave di volta della storia, dei rapporti tra gli uomini, della vita stessa delle persone. L’agiatezza, in merci e relazioni, l’estendersi e per molti il darsi la prima volta di un tempo libero, la fatica disgiunta dal lavoro, il crescere straordinario delle funzioni terziarie, organizzative e ordinative, il lavoro operaio che appare sempre più secondario, la disoccupazione e l’inoccupazione come stato di marginalità e non di bisogno materiale, tutto questo scuote il binomio lavoro salariato-sfruttamento, rende incerto il concetto di riscatto e di liberazione, fa apparire uno scenario di molteplici conflitti che non si unificano, che non hanno un asse centrale.
Come il progresso dischiudeva all’orizzonte la cornucopia dell’abbondanza, la liberazione dalle maledizioni del genere umano, fame, malattie e ignoranza, compaiono ora le nuove fenici di una prossima liberazione dal lavoro parcellizzato e alienante: una società in cui si lavora senza tute né divise, in cui telematica informatica e intelligenza artificiale rendono flessibile, intelligente e creativo l’esercizio della professionalità.
Ma è proprio vero che i minuscoli chips di silicio hanno frantumato ben più della violenza della lotta di classe la società tayloristica della catena di montaggio, i tempi moderni di Chaplin? Che tutto quello che resta da acquisire sia una qualche perestroika che dissipi fantasmi del nostro tempo, la guerra e il precipitare del sud del mondo nel baratro della fame, e che cancelli nel trionfo della socialdemocrazia un passato già medio-evo della società industriale? Che bisogni cercare solo un multicolore filo della libertà, abbandonando, perché definitivamente spezzato, quello rosso del lavoro? Che ci siano lavori, vite, tempi, luoghi e persone da intrecciare in un nuovo patto sociale?
Che non c’è più il firmamento della liberazione, ma solo liberazioni: delle donne, degli omosessuali, dei giovani, dei bambini, e via scomponendo? E’ forse vera la tesi che, appagata sul fronte dei bisogni materiali, la società postindustriale persegue naturalmente obiettivi liberatori superiori, ricerca il benessere favorendo l’emergere di bisogni complessi e di desideri prima impensabili? Una società fra edonismo e nuova spiritualità?
La porzione di Storia più ricca di speranze, dolori, sommovimenti, idee, appare condannata, non da alcuni ma da interi processi interpretativi che ci coinvolgono tutti, a scaffali polverosi e a liturgie commemorative. Al massimo sono cose per il terzo mondo, da sottosviluppo. Alimentano miti da lontani e improbabili paesi, Vietnam ieri, Nicaragua oggi, che una società che ha tutto ma ha fame di svaghi, consuma tra una telenovela e un film col rambo di turno.
Certo togliere a chi combatte ‘ancora’ (sic!) con la fame e la miseria alla periferia del mondo avanzato, fa con diritto gridare allo sfruttamento per rivendicare un’equa porzione di benessere; ma dove il conflitto sociale sottende l’aspirazione a una seconda automobile o all’appartamentino per la villeggiatura, lo sfruttamento appare un concetto incerto, una tassa pagata al sistema produttivo, non certo la base di una irrinunciabile rivendicazione dell’uguaglianza sociale.
L’apparentemente indiscutibile estinzione delle basi fenomenologiche del marxismo rende incerto il significato e il contenuto politico dello schema interpretativo che Marx ci ha lasciato, un difficile esercizio per storici sottoponibile a manipolazioni da suggestioni politiche attuali. Perché Marx, di fronte alla violenza della prima società industriale, ha predicato la rivoluzione invece di rivendicare un giusto salario, una socializzazione di una parte dei grandi profitti che l’industria produceva? Estremismo alla cambogiana giustificabile dall’arretratezza dei tempi? Perché allora la liberazione era in primo luogo per lui liberazione dall’alienazione del lavoro capitalistico (concetto difficile da collocare in Cambogia)? Perché introdurre la suggestione che si possano produrre altri beni che le merci, quando la ricchezza che si dischiudeva storicamente era senza dubbio legata alla nuova organizzazione del lavoro e all’uso delle macchine proprio per produrre merci? Non sarebbe stato più giusto cavalcare da sinistra i tempi nuovi invece di porre in discussione il fondamento stesso del progresso e dell’organizzazione produttiva? Perché tanta importanza al nodo del potere, di chi comanda l’organizzazione sociale? Un patto tra produttori per un’economia pluralistica, almeno come quella che vuole Gorbaciov, non sarebbe stata una risposta più saggia e più giusta? Si è forse sbagliato chi ha chiamato padrone l’industriale, e non imprenditore? Sono domande che hanno avuto risposte già ai tempi di Marx stesso e la forza del Manifesto dei Comunisti a confrontarsi storicamente con la società capitalistica mostra se non altro che di vacuo estremismo non si è trattato. Ma il dubbio che ora coglie anche i massimi templi dell’ortodossia non è forse la prova che qualche cosa di profondo è mutato nel mondo? Che siamo transitati ad una società diversa, che una rivoluzione passiva ha mutato la storia?
Certo chi non coglie l’evidenza dei grandi cambiamenti epocali è condannato alla commiserazione. Ma la sommaria liquidazione della storia come severa maestra, della critica scientifica come inutile esercizio cerebrale a fronte di una evidenza tutta artefatta da martellanti messaggi dei media, non è certo un autorevole avallo della tesi di una ritrovata strada al paradiso terrestre.
Mai in realtà come ora le merci hanno dominato l’immaginario collettivo e individuale. La società dei consumi non è definita soltanto dalla straordinaria ricchezza degli scaffali del grande negozio che ha pervaso l’intero ambito temporale e spaziale della nostra esistenza, ma col poderoso sviluppo delle scienze della psiche e della comunicazione, il desiderio stesso in tutte le sue accezioni viene imprigionato nel suo artefatto corrispondente oggettuale, oggetti che il grande Negozio traduce in merci.
Fino alle società industriali il lavoro, per chi doveva lavorare, era l’attività che permetteva l’appagamento dei bisogni elementari. La vita era quindi altro non solo dal produrre, ma altresì dal prodotto del lavoro. Dono di Dio appunto. L’economia di una società si ricomponeva a livello superiore rispetto all’attività economica individuale, era roba per potenti, non riguardava l’individuo che ne era completamente alienato. I borghesi, classe media che controllava il capitale della nuova economia, hanno fatto una rivoluzione per accedere come classe a questo potere, hanno dovuto modificare profondamente le regole stesse della società. C’è attualmente una nuova forma d’alienazione (la vecchia mantiene tutta la sua valenza anzi assume più inquietanti connotati, come ragioneremo più avanti): il lavoro diventa, tramite la sua remunerazione, il mezzo per concretizzare la vita in buoni acquisto. Di qui la sempre maggiore rilevanza dei soldi, del salario, che rappresenta desideri reificati in merci.
Non è più la condizione lavorativa che determina inequivocamente la collocazione sociale, il contadino che deve far vita da contadino, l’operaio che deve stare al suo posto e non ambire a certi lussi etc. Alla stratificazione per omogeneità di classi e di funzioni economiche del passato, si è sostituita la continua scala del potere di acquisto. Siamo diventati tutti consumatori.
Questo altera enormemente la stessa soggettività del lavoro che perde la base di una rivendicabile equità; la professionalità ed il valore del lavoro sono letti non sul valore dei prodotti, ma sulla traduzione in salario, in merci acquisibili. La reificazione dei desideri e dei valori del vivere in questo salario-merci modifica l’etica del lavoro, perché nulla è più individuale del desiderio: come tale è concepito, consumato e posseduto nel suo corrispondente oggettivo individualmente (come a dire che non c’è grande soddisfazione nel piacere degli altri). C’è quindi una violenza primitiva nel rapporto col lavoro che discende dalla reificazione della nostra vita. Il conflitto non è più la rivendicazione di ciò che ci viene sottratto nell’oggettiva esplicazione del lavoro produttivo, ma lo stabilire il rapporto di forza che permette di ottenere individualmente di più, di appagare più desideri.
La materialità di una economia di merci non rende solo i detentori del meccanismo del profitto “iene assetate”, cinici padroni di vite, ma modifica i comportamenti morali della società, spinge al conflitto individuale, alla concorrenza e all’opportunismo.
Resta il fatto che la condizione di lavoro di Tempi Moderni ora non esiste più, almeno potenzialmente. Nella prima società industriale l’uomo era un’estensione delle macchine, macchina lui stesso. Con il taylorismo e il pieno affermarsi del primato dell’industria, tutta la società veniva condizionata da questo ruolo; il modello produttivistico industriale (fordismo) diventava la base di un engineering sociale che legava attività lavorativa a consumi, imponeva comportamenti morali, finalizzava tutto al massimo dello sviluppo e all’ottimizzazione del profitto. L’umanità intera diventava una macchina ed era sottoposta al vaglio delle prestazioni, al controllo, alle modifiche che questa funzionalità totalizzante richiedevano. Come la scarsezza di manodopera al tempo della corsa dell’oro ha imposto in California la scoperta della meccanizzazione agricola, la carenza di manodopera nella seconda guerra mondiale ha spinto a una profonda modifica della tecnologia degli utensili, realizzando in fasi successive per fini industriali il sogno dei robot. Anche se solo la successiva esplosione delle tecnologie elettroniche, ha pienamente portato al successo tale processo, una fase nuova si era aperta, erano le macchine, e non direttamente gli uomini, che venivano sottoposte alle innovazioni e a loro veniva affidata la realizzazione del fine produttivistico tayloristico. Così, con un processo che è manifestamente in pieno svolgimento, dalle nuove tecnologie è nata una nuova generazione di macchine che hanno sostituito via via non solo il lavoro ripetitivo della catena di montaggio e dei suoi analoghi impiegatizi, ma costituito alternative di organizzazione del lavoro, strutture intelligenti e flessibili a disposizione delle ristrutturazioni produttive.
La concezione stessa del lavoro umano ne viene modificata; la professionalità non è capacità di svolgere mansioni sostituibili ma quelle che vanno oltre le prestazioni delle macchine, che permettono e valorizzano queste prestazioni.
L’innovazione tecnologica non solo ha prodotto, e ne è diventata impropriamente sinonimo, un possente sistema di riorganizzazione produttiva che modifica i rapporti di forza tra le classi e tra sistemi economici, ma altresì è il veicolo di trasformazione qualitativa delle professionalità che vengono dislocate verso l’alto, e nel contempo sottoposte a concorrere con un frenetico processo innovativo che le rende transitorie, che ne impone la ridefinizione.
L’evoluzione delle professionalità richieste nel rapporto di lavoro è in linea di principio e potenzialmente una grande acquisizione storica e una grande e appagante occasione per le persone. Avere un rapporto col proprio lavoro non ingessato e rituale umanizza il rapporto stesso con continue occasioni di nuove esperienze, con una spinta ad allargare il proprio bagaglio culturale, i propri strumenti intellettuali. Se la confindustria dopo aver praticato per anni una scuola addestrativa e specializzata, ora ha scoperto il valore della formazione di base, la necessità di coltivare intelligenze non caduche, non è certo per una conversione ai valori ideali della sinistra, ma per la forza prescrittiva delle modifiche strutturali del lavoro. C’è quindi la possibilità concreta per la prima volta di fare del lavoro un pezzo non alienato della propria vita.
Ma il ritmo dell’innovazione, la motivazione strettamente produttivistica e il comando capitalistico del processo, la finalità del produrre merci e non beni d’uso, cambiano segno al processo stesso, ne degenerano le potenzialità liberatorie, ne fanno un ulteriore veicolo di alienazione.
Sottoposti a una pressione incessante, lusingati dal miraggio di aumentare la propria razione di buoni acquisto o per evitare di scendere nella scala dei consumi, tutti sono in competizione, tra individui e con le nuove prestazioni che l’innovazione impone. Un’innovazione che altri hanno scelto e per altre estranee motivazioni dal miglioramento della qualità della vita e del lavoro. Estraneità, subordinazione, competizione generano ansia e stress, e a corpi risparmiati dalla fatica corrispondono menti colpite da una nuova e generalizzata malattia professionale.
Il lavoro è essenzialmente lavoro tecnico. Dalla notte dei tempi l’uomo non si è accontentato delle prestazioni del suo corpo e ha esteso le capacità naturali con l’uso di strumenti adatti elaborando tecniche per raggiungere i suoi scopi. Ma la tecnica è soprattutto un prodotto caratterizzante l’attuale epoca.
L’insieme delle conoscenze umane è stato ed è sottoposto ad un continuo vaglio di traduzione in tecniche e in prodotti tecnologici, e da questa sua capacità riceve sollecitazioni, indirizzi e prestigio.
La tecnica riguarda tutti perché è diventata merce; ha modificato il quotidiano, fa parte di ogni scenario antropizzato. La conoscenza della corretta funzionalità dei processi e degli strumenti tecnici definisce la professionalità, molto più della destrezza, dell’acume e di altre personali capacità. Tutti possono imparare ad usare gli strumenti tecnici, perché questi sono progettati a questo scopo; quasi sempre sono ‘a prova di Cretino’, come l’interruttore della luce, necessitano di comandi semplici e schematici che escludono ogni destrezza. E’ la continua evoluzione della tecnologia, l’estendere dell’applicazione a sempre nuovi campi, a nuove merci, che definisce attitudini e livelli formativi superiori, che mette in crisi la formazione professionale tradizionale, addestrativa, che impone preparazione di base e capacità di formazione permanente. In sintesi capacità di adattarsi a mutevoli condizioni, prontezza nel cogliere le nuove funzionalità o, per i livelli più qualificati, percepire la logica che muove l’innovazione per individuare le potenzialità specifiche per il proprio campo di lavoro, per introdurre innovazioni competitive e vincenti.
Quasi mai si deve sapere come funziona, perché funziona, come si è arrivati a scoprirle, quali alternativa si sono scartate, etc. Anche nei livelli elevati della progettazione e della ricerca, il sapere connesso con la tecnologia è solo parzialmente necessario agli individui. Scatole nere e scatole trasparenti compongono schemi di cui è noto il problema funzionale del a che cosa serve.
Perché la tecnica è schiava dell’economia e del potere e condiziona fortemente la condizione del sapere e della scienza. Per questo la personale dotazione di professionalità è un capitale di valore limitato, genera libertà limitate per opzioni in definitiva mediocri. Dalla massaia che “sa” che quel fustino è meglio di due, all’ingegnere che progetta un aeromobile, ognuno sta dentro a una scatola di uno schema socioeconomico multivariato ma definito da un progettista estraneo e lontano, la Storia.
Come abbiamo detto, al crescere dell’agiatezza corrisponde una caduta della percezione dello sfruttamento. Di converso, nelle società agiate, proprio per i processi che hanno costruito e mantengono tale agiatezza, vi è un massimo di alienazione, anzi di alienazioni, la cui coscienza appare incerta, e insieme radicata e generalmente condivisa. D’altra parte, mentre lo sfruttamento ha un immediato soggetto e oggetto, lo sfruttatore e lo sfruttato, l’alienazione è definita come esproprio, atto patito che necessita per individuare un soggetto espropriante di un passaggio politico, come tale opinabile e aleatorio. Al fortissimo senso di ingiustizia connesso con l’alienazione (ciò che viene espropriato è percepito come un diritto civile e non solo come impoverimento individuale) corrisponde un processo debole, vulnerabile dagli strumenti manipolatori delle coscienze, di grande efficacia nel rinnovare la dimensione dell’Utopia, ma fragile nel riempire le pagine della Storia. Lo sfruttamento è invece una categoria forte sia perché distingue tra il compagno e il nemico di classe, sia perché individua un processo strutturale della nostra società. L’accumulazione del capitale, la forza stessa che anima il modello di sviluppo, discende, come Marx ha mostrato e nessuno ha potuto smentire, dallo sfruttamento (tant’è che il pensiero moderato e reazionario afferma lo stato di necessità, l’essere fatto a fin di bene, di bene collettivo). La caduta della percezione soggettiva dello sfruttamento non deriva solo dalla condizione agiata, ma dal crescente impiego del plusvalore non tanto nella ricchezza consumata dalla classe dominante, che pure c’è, ma fa sempre meno scandalo e sempre più invidia, ma in risorse finanziarie, in ricerca, in capitali di controllo, in armamenti che la concorrenza e lo scontro del potere impongono.
Come per l’alienazione il riconoscere l’oggettiva e intenzionale insopportabile ingiustizia della sottrazione a cui si è sottoposti necessita di un ulteriore passaggio politico, non è immediato, e in ogni modo si disloca sull’arengo delle istituzioni, è regolato dalle regole della lotta politica e dai meccanismi della democrazia. Anche l’alienazione in quanto diventa non prodotto del meccanismo dello sfruttamento, ma mezzo per regolare il flusso delle merci e per modificare la qualità del lavoro ai fini dello sviluppo, assume risvolti strutturali, si intreccia con la coscienza dello sfruttamento a evidenziare l’iniquità del sistema, rimanda ad una alternativa di società di cui traccia non solo i connotati liberatori richiesti ma delinea, con sempre maggiore precisione le specifiche attinenti la qualità del lavoro, della vita, della cultura e della scienza. Disegna cioè un’Utopia concreta.
La materialità delle società attuali non è solo nel rapporto con la soggettività, nell’aver occupato con le merci l’immaginario, il quotidiano, il desiderio, il lavoro e la vita. Al grande espandersi del terziario, del flusso delle informazioni, delle comunicazioni non corrisponde una modifica delle finalità della organizzazione sociale, un primato delle funzioni sociali, organizzative, relazionali.
E’ vero che i relais dei satelliti che sempre più connettono i flussi delle decisioni, dei comandi della grande macchina delle società avanzate, sono, con prepotente evidenza, il meccanismo centrale che regola la pace, le guerre e le ricchezze. Che regola le condizioni di vita di tutti ben più di ogni Alfa di Arese o di tutte le Alfa di Arese del mondo. (Che segno della caduta della centralità operaia è più evidente dello sconvolgimento provocato dai COBAS dei macchinisti?) Ma pur sempre quei relais in ultima analisi dislocano merci prodotte, progetti ed invenzioni certo frutto di intelligenze ma a queste merci dedicate, prodotti dei campi, attività materiali di modifica del territorio. Se l’energia consumata è direttamente rapportabile all’inquinamento, al cemento che viene colato sulla superficie del pianeta, ai boschi abbattuti, ai veleni dell’aria, anche i megabits di informazioni che passano per i circuiti comandati da quei relais sono direttamente rapportabili a questi effetti materiali. Vale a dire che informatica e telematica non cambiano di per sé il modello di sviluppo, non modificano la logica, il comando politico che vi sottintende. In altre parole la materialità delle società industriali, del prodotto storico del capitalismo, ha altre unità di misura, ma non è in alcun modo mutata. E’ in questo materialità , più pervasiva e sempre più priva dei suoi templi di ciminiere, che si consumano i destini degli uomini, l’esproprio dei futuri, delle coscienze, delle intelligenze e dei sentimenti. Non c’è contraddizione reale tra la società degli individui e il sistema macro-economico. I conflitti e le scomposizioni dei soggetti sono prodotti (e in definitiva ad esso funzionali) dal sempre più rapido processo innovativo che investe l’intero sistema, più che dall’instaurarsi di uno stato altamente entropizzato, statico nella massima differenziazione, quale descritto da Luhmann e dai teorici del post-industrialismo. La società delle comunicazioni connette non solo funzionalmente, attraverso uno smisurato terziario gli individui all’evoluzione e allo stesso svolgersi quotidiano del sistema complessivo, ma anche informativamente rendendolo, pur passivo e impotente, ad esso partecipe. E’ questa caratteristica inedita che fa di questa società la realizzazione potenzialmente più prossima ad un modello ideale di democrazia e del pratico esproprio di questo ideale, una contraddizione che alimenta politica e movimenti di grandi contenuti innovativi.
In una società in cui è difficile nascondere alcunché, nuove oppressioni rinnovano le funzioni del padrone delle ferriere e la cinica versione del potere. Un immane processo di concentrazione del potere e del capitale, di cui è simbolo evidente, ma non unico, la multinazionale, investe con continuità il mondo dal dopoguerra. I conflitti si esplicano su scale sempre più vaste, su dimensioni totali, da cui lo spettro di una terza guerra mondiale.
In questa società il mito del progresso si coniuga con quello della catastrofe. Dopo aver pervaso l’universo delle esistenze le merci hanno assunto una materialità più fisica: sono entrate nella storia naturale. Inquinati dagli oggetti del benessere, colpiti profondamente nei meccanismi biologici da nuove e terribili malattie, posti di fronte allo spettro che i più sofisticati strumenti della produzione di beni e le splendide armi di cui si è dotato possano portare all’estinzione della storia, gli uomini hanno scoperto limiti fisici al loro operare. L’esaurimento delle risorse, la vulnerabilità dei cicli ecologici, le stesse caratteristiche fisiche della superficie del pianeta che ne determinano l’abitabilità violentemente aggredite dall’insaziabile cupidigia del modello di sviluppo. L’uomo che non ha potuto ancora realizzarsi in termini di civiltà si scopre specie, una specie in pericolo.
La società della scienza ha ucciso antichi mostri, ma ne ha anche generato dei nuovi che mettono in questioni l’esistenza stessa di un futuro per l’umanità, le condizioni stesse del pianeta su cui si è sviluppata.
C’è una profonda differenza tra le società contemporanee e quelle primitive: un tempo la violenza e la morte dell’oppressore e del prepotente nasceva tutta esterna al lavoro alla quotidiana lotta per l’esistenza dell’umile. Ora l’oppressione, l’iniquità e la morte stessa delle persone e delle civiltà si alimentano dalla più elementare e quotidiana attività economica, dal lavoro, dai suoi prodotti, dall’organizzazione che lo sovrintende. Dall’economia appunto, come diceva Marx.
2. Roberto Bergamini, Bruno Giorgini, Achille Cristallini: Scienza, tecnica e industria
Scritto durante l’occupazione dell’Istituto di Fisica di Bologna, 15 dicembre 1967 e pubblicato in seguito sulla rivista chefare diretta da Gianni Scalia
Nell’attuale periodo di sviluppo della società capitalistica, o meglio del capitale, esiste una catena integrata e continua a livello di utilizzo, della fase produttiva e della divisione del lavoro tra la scienza, la tecnica e l’industria. Esaminando questo tipo di problema emerge come fatto sostanziale appunto la divisione del lavoro.
Infatti alla scienza viene chiesto di scoprire nuove realtà fattuali, intendendo qui come realtà fattuali sia la possibile estensione dell’universo tecnologico attraverso nuove selezioni fra le componenti dell’universo tecnologico preesistente (ad esempio i transistors) sia il “successivo” utilizzo di nuove realtà fisiche (ad esempio le onde hertziane, la radioattività, ecc.). Il ruolo che gioca questo ampliamento dell’universo tecnologico è, nell’attuale momento di sviluppo della fase produttiva, evidente: si tratta di creare nuovi gangli di consumo e nuove tecnologie, al fine di rimandare o addirittura evitare le crisi altrimenti implicite nel sistema.
Alla tecnica viene invece demandato un compito diverso. Si tratta di agire su questo ampliamento della realtà fattuale specificando concretamente dalla larga generalità dei fatti fisici le utilizzazioni congruenti e/o necessarie alla preesistente struttura economico-produttiva. E’ opportuno a questo proposito notare l’uso del termine “utilizzazione congruente”: non è infatti meccanico il passaggio dalla fase della scoperta di nuove realtà fattuali alla fase più propriamente tecnologia (ad esempio i problemi dei monopoli). Inoltre la tecnica deve occuparsi di fissare le procedure o i “protocolli” con cui costruire concretamente l’oggetto tecnologico.
Infine all’industria, in realtà la classe operaia, viene chiesto di utilizzare concretamente questi protocolli per costruire gli oggetti. Le diverse funzioni e professionalità si distinguono quindi per salti qualitativi all’interno della stessa catena. Mentre infatti l’operaio agisce sulla realtà fattuale solo attraverso protocolli fissati di comportamento, il tecnico agisce nel senso invece di dare una specificazione alla realtà fattuale; il ricercatore deve infine ampliare questa realtà fattuale.
Non si deve tuttavia concludere che questi tre momenti, ben distinti a livello teorico, lo siano altrettanto nella prassi, ovvero che alla divisione logica corrisponda una rigida divisione dei compiti produttivi. E’ questa per esempio la problematica dei tecnici intermedi, della ricerca applicata, ecc. Inoltre tende a scomparire anche la divisione logica tra i diversi momenti, poiché ormai la specificazione della realtà fattuale, cioè il momento tecnico, viene effettuata mutuando metodi e protocolli dal momento produttivo, mentre a sua volta la ricerca assume ed utilizza gli strumenti e le procedure fino ad allora utilizzati nella tecnica. Avviene pertanto la nascita del lavoro di gruppo con correlata divisione del lavoro ed utilizzazione dei metodi di produzione industriali applicati alla ricerca, anche a quella cosiddetta “pura”, e la scomparsa del libero professionista, ecc.
Per esprimere in breve questo processo basta dire che si sta assistendo alla proletarizzazione del lavoro intellettuale che, come abbiamo visto, avviene su due piani: uno in cui si distrugge la distinzione logica e metodologica tra i vari momenti, e l’altro, anche più concreto, in cui l’appropriazione del risultato del lavoro dei diversi momenti viene ad essere effettuata nella stessa maniera.
Ora questo tipo di esame è evidentemente viziato dal fatto che è ad un puro livello descrittivo, fenomenologico, quindi limitato. Esso va integrato con l’analisi di classe, cioè bisogna esprimere su questa tendenza anche un giudizio ed una scelta politica. Occorre vedere qual è a livello di lotta di classe il riflesso del precedente esame.
I punti principali sono due:
a) Avviene e si svolge una solidarietà reale tra coloro che sono impegnati nei vari momenti produttivi;
b) Viene creata, allo scopo di evitare questa solidarietà, una falsa coscienza di classe.
Quindi proprio nel momento in cui dallo sviluppo delle forze produttive si verifica, a livello sociale, la divisione del lavoro, si tende a creare una falsa coscienza di massa, per eliminare il pericolo che il nuovo proletariato prenda coscienza di sé.
Risulta ovvia quale sia la prospettiva di intervento politico: dare coscienza reale al nuovo proletariato. Naturalmente si suppone che esista già, nel vecchio proletariato, una coscienza di classe con cui confrontarsi, e una lotta politica condotta dal proletariato stesso, a cui unirsi. Qualora questa coscienza e questa lotta manchino, non è che il processo di gestione di un nuovo proletariato non provochi tensioni e difficoltà, come le agitazioni studentesche negli U.S.A.; ma queste vengono riunite a livello di falsa coscienza e quindi non possono sfuggire al destino di una rigida integrazione al sistema.
Ora, per quello che riguarda il problema universitario, si deve notare che una lotta a tale livello si manifesta, per quanto concerne il tipo di intervento precedentemente accennato, come singolarmente attiva e critica. E’ infatti anche e soprattutto nell’Università che si dà una falsa coscienza: è qui proprio che si costituisce il nuovo tecnico. Ciò avviene sia attraverso l’insieme dei mezzi operativi di cui il futuro tecnico viene fornito, sia con i limiti culturali e sociali di cui questa formazione viene avvolta.
Occorre quindi:
1) Demistificare fino in fondo il mito della divisione culturale e della chiusa aristocrazia delle culture specifiche e proporre una cultura critica e rivoluzionaria, nel senso di potere essere in grado di meditare su se stessa e sull’utilizzo che ne viene fatto; è necessario cioè un momento totalizzante di costruzione ed uso di questa cultura (è in questo senso che prendono ragione i controcorsi e le altre iniziative analoghe);
2) Lottare contro la produzione di tecnici immediatamente omogenei al processo produttivo, perché questa lotta tende a garantire il futuro tecnico dallo sfruttamento, con una generale forma di difesa ed offesa del proletariato.
Il punto essenziale è il collegamento con le forze proletarie; esso, a livello universitario, può avvenire qualora le lotte stesse si intendano come un modo per cominciare a dare alla nuova classe coscienza di sé, con l’appoggio esplicito del proletariato, e, a volte, con subordinazione alle lotte più generalmente condotte dal movimento operaio.
Category: Ricerca e Innovazione, Scuola e Università