Luciano Berselli (a cura di): Scuole dell’infanzia. Il diritto alla scuola pubblica e i diritti dei lavoratori

| 18 Novembre 2013 | Comments (0)

 

 

 

Diffondiamo da “Inchiesta” 181 luglio – settembre 2013 l’inchiesta curata da Luciano Berselli che ha intervistato due gruppi di protagoniste e protagonisti della CGIL scuola  per capire come in Emilia Romagna la Cgil ha reagito ai problemi della scuola dell’infanzia dopo il referendum di Bologna. Il testo delle interviste è integrale mentre su “Inchiesta” cartacea è stata pubblicata una versione ridotta.

 

 

1.  Luciano Berselli : A Bologna non è successo niente. Come cancellare il voto dei cittadini

 

Lunedì 29 luglio 2013, il Consiglio Comunale di Bologna era chiamato a confrontarsi sul risultato del referendum consultivo – svolto a maggio – sul finanziamento pubblico alle scuole dell’infanzia private. La stampa ha raccontato diffusamente questa riunione: dispiace però che l’abbia relegata nella cronaca locale, tranne poche eccezioni. Se la guardiamo con attenzione, la vicenda bolognese, dal referendum fino all’atto che registra un punto di provvisoria conclusione, appare tutt’altro che locale o periferica. Ci fa vedere, in una realtà concreta, il modo in cui si manifestano processi che hanno una dimensione generale, che riguarda la logica del sistema politico, in collegamento con i rapporti che predominano nell’organizzazione sociale. Il Consiglio Comunale di Bologna aveva davanti a sé alcune domande. Come rispondere agli oltre 51.000 cittadini – su 86.000 votanti – che in maniera molto chiara avevano sostenuto l’opzione A del quesito referendario, chiedendo così di non proseguire il finanziamento pubblico in favore dei privati? Come raccogliere il significato più profondo di un voto che rivendica la realizzazione del diritto costituzionale di accedere alla scuola pubblica? Era possibile per la principale istituzione della città di Bologna offrire un segnale di apertura in sintonia con la volontà espressa dai cittadini, sia pure con una consultazione di carattere consultivo? Ciò che è accaduto, come si ricordava, è noto. Si è formata una maggioranza schiacciante, composta da PD, PDL e Lega Nord (diversa da quella che sostiene l’Amministrazione in carica), che ha respinto con 27 voti contro 5 l’ordine del giorno presentato da SEL e Movimento Cinque Stelle che invitava ad iniziare una strada di progressiva riduzione dei fondi comunali elargiti alla scuola privata. Per questa maggioranza non esiste una ragione affermata dal risultato del referendum, non ha importanza politica il richiamo a rispettare l’articolo 33 della Costituzione.

A Bologna non è avvenuto nulla, anzi, è come se fosse prevalsa l’opzione di chi vuole mantenere lo stato delle cose. SEL non ha risolto un problema: sul fatto politico e amministrativo più rilevante dopo le elezioni comunali, si trova davanti una maggioranza diversa da quella a cui pensa di appartenere. La forza delle “larghe intese” arriva dentro il Consiglio Comunale di Bologna, come a dire che non si tratta di una formula politica che deriva da una contingente necessità, in seguito alle elezioni nazionali e agli sviluppo successivi. C’è qualcosa che costituisce una base più solida, un terreno comune di cultura e di visione politica. Il Sindaco, forse preoccupato per questa evidenza, interviene cercando di precisare, di circoscrivere e ottenendo l’effetto, con le sue argomentazioni, di confermarla pienamente. “…Su un argomento particolare ci troviamo d’accordo. In un Paese normale dovrebbe essere così. …Io credo che una sinistra moderna concepisca il pubblico non solo come comunale o statale, credo che la nostra idea di un sistema scolastico integrato sia più adeguata ai tempi”. L’argomento particolare, quello sollevato con il referendum, riguarda l’esercizio concreto di un diritto costituzionale; nella situazione presente che, a Bologna (come negli altri territori dell’Emilia-Romagna e a livello nazionale) non corrisponde al riconoscimento di quel diritto, non viene individuata l’esistenza di alcun problema. Al contrario: viene difesa e rivendicata la sussidiarietà del sistema scolastico per l’infanzia – la privatizzazione del ruolo e dei compiti dello Stato in questo ambito – come uno sviluppo positivo ed avanzato che la sinistra moderna ha fatto proprio.

Il Comitato Articolo 33, che ha raccolto le firme per indire il referendum e si è battuto perché il suo esito fosse rispettato e ricevesse risposta, ha reagito alla conclusione del Consiglio Comunale con due atti. Da una parte, ha proposto di abolire lo strumento del referendum consultivo, previsto dallo Statuto del Comune di Bologna, dato che mantenerlo, quando viene ignorato ciò che emerge dal suo esercizio, costituisce una ipocrisia istituzionale. Dall’altra parte, annunciando la decisione di sciogliersi, ha manifestato l’intenzione di riprendere in una nuova prospettiva e in nuove forme la battaglia per la scuola pubblica. Il Comitato Articolo 33 è uno dei soggetti che durante questi ultimi anni sta partecipando al movimento attraverso cui la Costituzione “scende in strada”. Il riconoscimento che gli ha attribuito il collettivo di scrittori Wu Ming (… gli eroici spartani, che si sono visti negare anche il minimo riconoscimento dei loro sforzi della loro vittoria, ma non stanno a piangersi addosso…) non è solo giusto, ma non sigilla una vicenda già conclusa. Contribuisce invece a comprendere meglio le caratteristiche e il funzionamento del sistema politico, e a riflettere sulle condizioni per costruire una alternativa. E’ un sistema politico che richiede adeguamento necessario ai processi che dentro questa economia capitalistica si sono sviluppati negli ultimi decenni, adeguamento alle strutture di potere e di dominio che si sono formate e che confliggono con l’esercizio della democrazia. Con le parole di un grande critico della letteratura, si potrebbe dire che sono processi in una direzione dove “… le battaglie si combattono soltanto tra gruppi diversi di ceti patrizi; dal basso qui non giunge nulla”. Parlava della rappresentazione delle società arcaiche, ma questa modernità nasconde un cuore arcaico.

Diversi studiosi, in diversi Paesi, partendo da impostazioni politiche e culturali differenti ed anche contrapposte negli obiettivi, parlano apertamente di una tensione fondamentale e crescente tra capitalismo e democrazia. L’assetto costituzionale è il punto che sempre più direttamente viene investito da questa tensione. Ancora molto recentemente, si è sostenuto che le Costituzioni dei Paesi europei, che sono segnate dalla matrice della lotta antifascista, sono incompatibili con la soluzione dei problemi della crisi mondiale e con la necessità della modernizzazione. Con la nascita del Governo delle larghe intese, si è avviato un percorso di cambiamento della Costituzione italiana, che interviene su tutte le sue parti, iniziando da una modifica sulle regole stesse prevista dall’art.138 in materia di revisione costituzionale. Necessariamente si impone un’iniziativa, una mobilitazione su una questione decisiva, che potrà essere favorita da una riflessione aperta, diffusa, su un intreccio di temi e di domande, che a lungo abbiamo sottovalutato. Tengo fermi alcuni punti di cultura politica, che conservano per me un’immutata validità. 1) Esiste una differenza incommensurabile tra una situazione nella quale un documento giuridico fondamentale come la Costituzione riconosce un insieme di diritti politici, sociali, economici, civili e culturali, anche se la loro realizzazione è resa più debole e contrastata dentro l’organizzazione della società, e una situazione in cui i rapporti di sfruttamento e di dominio possono dispiegarsi senza “l’ingombro della Costituzione”. Per dire forse meglio, la differenza si misura sul percorso storico del conflitto sociale, sull’impronta del vincolo che le lotte e le iniziative delle lavoratrici e dei lavoratori hanno determinato nel Novecento rispetto agli sviluppi della società. 2) Il terreno della democrazia è il terreno più favorevole per i soggetti sociali e politici che tendono al cambiamento sociale. La Costituzione italiana delinea un impianto di società che riconosce, non pone fuori dall’ambito costituzionale, il conflitto democratico che intende costruire il cambiamento sociale 3) Sul riferimento alla realizzazione della Costituzione è regolato il rapporto tra parti che si confrontano, anche aspramente, nella battaglia politica. Ricordare oggi questi elementi non esaurisce una riflessione che non può restare nell’ambito della tradizione. Non è avvenuto un semplice passaggio di fase, ma una sconfitta storica del movimento dei lavoratori. E’ stato cancellato il vincolo rappresentato dal lavoro. La crisi della democrazia, la tensione con il modello di capitalismo che si è affermato, è radicale. Per ripensare le condizioni di un’alternativa, la riflessione richiede radicalità, senza ripercorrere strade che sono state consumate nel passato. Concentrarsi in modo esclusivo sull’affermazione di un determinato ceto politico, di gruppi dirigenti o di personalità carismatiche (quello che in altri tempi si sarebbe chiamato soggettivismo volontaristico), e non affrontare il percorso per trasformare i rapporti di potere, la condizione di ricatto dentro cui si trovano i lavoratori, è una di queste strade senza sbocco. Lo testimoniano nei Paesi europei le vicende delle formazioni politiche che si richiamano alla sinistra. La questione della Costituzione, come difesa della democrazia e rilancio delle sue possibilità di innovazione sociale, è un passo significativo in una direzione diversa. Che il sistema dei diritti costituzionali (diritti di carta) non possa essere piegato, messo a disposizione dei rapporti di forza che si determinano, ce lo dice la sentenza della Corte sull’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori, contro il sistema contrattuale imposto dalla Fiat e da Marchionne, e in favore dell’impostazione della Fiom. La libertà sindacale, la rappresentanza democratica dei lavoratori non possono dipendere dal potere prevalente. Nessuno può sottovalutare lo spazio di iniziativa che apre la riaffermazione di un diritto democratico, sul piano sindacale, su quello politico e legislativo. Sempre che si voglia vedere il rapporto tra esercizio di un confitto democratico e diritti definiti universali, non sottoposti al mercato, come la salute, la scuola e l’istruzione. Ritorna così la vicenda di cui abbiamo iniziato, quella di Bologna, il referendum sul diritto alla scuola pubblica. Pubblichiamo interviste che vanno all’interno del sindacato e lo interrogano sul suo ruolo. Le differenze che emergono non sono marginali. Riguardano il significato stesso del referendum, il suo valore come occasione di movimento per collegare all’affermazione di un diritto costituzionale l’avvio di un processo sindacale di unificazione del lavoro delle insegnanti e delle altre lavoratrici, oggi frantumato in diversi contratti con diverse condizioni e diversi diritti. Non può sfuggire il rapporto stretto che unisce queste due dimensioni, che si implicano: la negazione del diritto su un piano è condizione e risultato, al tempo stesso, della negazione dei diritti sull’altro piano.

 

 

 

2. La discussione dentro la CGIL tra adattamento e ricerca di alternative. Interviste a Marina Balestrieri e Michele Vannini

Marina Balestrieri è Segretaria della Funzione Pubblica Cgil Emilia-Romagna, Michele Vannini è Segretario della Funzione Pubblica Cgil Bologna.

 

Luciano Berselli. Parto da referendum di Bologna sul finanziamento pubblico alle scuole dell’infanzia private. Cerchiamo di andare oltre la polemica corrente, per confrontarci sulle questioni di grande importanza che il referendum ha sollevato. Esiste un diritto costituzionale di accedere alla scuola pubblica, che vale anche nel ciclo che va dai 3 ai 6 anni di età. Come si può esercitare concretamente tale diritto? Qual è il contenuto e la direzione delle politiche pubbliche – dallo Stato ai Comuni – per realizzare questo obiettivo? Sono domande che riguardano direttamente il sindacato, la Cgil, in particolare in una Regione che storicamente ha dato un forte contributo all’affermazione di quel diritto costituzionale. Oggi anche in Emilia-Romagna abbiamo una realtà frantumata, con significativi aspetti di differenza tra territorio e territorio, che passano anche all’interno dei singoli territori. Al di là delle valutazioni che ognuno ha espresso sul referendum di Bologna, non ha rappresentato forse un fatto di movimento, un’occasione per riflettere ed affrontare problemi che sono fondamentali per il sindacato? Rivolgo la domanda per primo a Michele, che per motivi di lavoro non potrà rimanere fino al termine del nostro incontro.

Michele Vannini. Alla domanda rispondo che certamente il referendum ha rappresentato, e ancora può rappresentare, un’occasione per riflettere. In maniera un po’ provocatoria, nel corso di quei mesi, ho sostenuto che per quanto mi riguardava la campagna referendaria poteva tranquillamente concludersi dentro la città di Bologna il giorno dopo in cui si erano raccolte le firme che hanno portato alla validazione della procedura che poi ha costituito l’inizio del percorso referendario.

Perché quella raccolta di firme, pur fatta su un quesito che io considero molto semplificato, ha prodotto una fiammata tale da rappresentare di per sé stessa, la certificazione del fatto che su quel tema dentro la città c’era un’attenzione molto ampia, molto articolata sul tema.Questo è uno dei motivi per i quali la Camera del Lavoro di Bologna e anche la mia categoria, hanno sostenuto che quella fosse un’occasione per riprendere in mano una nostra vecchia proposta.

Era quella di fare gli stati generali dell’infanzia dentro alla città di Bologna, perché pensavamo che quella formula potesse garantire la possibilità di sviluppare una discussione meno ingessata di quella che poi nei fatti si è prodotta.A quella domanda allora rispondo certamente sì. Esiste una situazione di per sé che incontra un nodo molto delicato. E’ vero che la scuola dell’infanzia in questo momento sta dentro al sistema nazionale di istruzione, e in quanto tale viene definita scuola dalla legge Berlinguer. Però è vero che non è scuola dell’obbligo. Quindi siamo in una realtà nella quale il venir meno dello Stato o dell’Ente Locale in surroga dello Stato, o di tutto il sistema più variegato possibile e immaginabile, della garanzia di un’offerta a tutte le famiglie e a tutti i bambini che stanno dentro quella fascia di età di per sé, in punta di forchetta, non lede il diritto costituzionale.

Questo è un punto che non è risolto. Secondo me il referendum costituisce un’occasione per continuare ad analizzarlo, nella prospettiva non solo della Funzione Pubblica, ma anche della Cgil. E’ necessaria poi una riflessione sul fatto se sia giustificato, vero e utile soprattutto sotto il profilo pedagogico, questa specie di sbarramento molto marcato, che viene posto da parte di alcuni alla fascia dei tre anni. Secondo noi non trova giustificazione perché molti docenti potrebbero spiegare a tutti noi, con grandissima efficacia, come in realtà praticamente nessun pedagogista sia in grado di definire il fatto che ai tre anni comincia una fase evolutiva, e che fino ai due anni e 364 giorni di età del bambino siamo dentro ad un’altra fase.

Per precisare la mia opinione sul referendum rispetto alla data nella quale si sono raccolte le firme e quando si è svolto il referendum, c’è un prima e un dopo. Quella campagna elettorale indipendentemente da come uno la pensi, è stata una campagna che ha sprecato davvero molte occasioni, da una parte e dall’altra, e ha lasciato un clima che non è certamente il più favorevole nella prospettiva di poter affrontare i problemi che il referendum voleva sollevare. Adesso siamo qui, c’è una discussione in consiglio comunale che mi pare non pieghi particolarmente bene nel senso che ripropone un po’ pavlovianamente lo schema che si è prodotto.

Io continuo a pensare che la città, e più in generale la nostra Regione, avrebbe bisogno di fare una discussione più fuori dagli schemi, che si incarichi di approfondire effettivamente che si ancori saldamente ma in maniera laica alle esperienze che sono state fatte in questa Regione nel corso di questi anni. Sono anni lunghi, in cui si è fatto di tutto perché le tabelle dei dati dimostrano plasticamente come nella nostra regione che pure è quell’esperienza di punta a cui tu facevi riferimento, ci sia di tutto e di più. Piacenza è un territorio nel quale non c’è una scuola dell’infanzia comunale.

A Bologna il 62% dell’offerta scolastica nell’infanzia è comunale. Il Comune di Bologna surroga lo Stato per il 62%, dato che la scuola dell’infanzia comunale è assolutamente equiparata dalla legge alla scuola dell’infanzia paritaria e privata. Piacenza non ci mette un euro. Continuo a pensare che la nostra idea di fare gli Stati Generali fosse un’idea buona e adesso vediamo come evolverà la discussione in città a partire da quello che succederà nel Consiglio comunale la prossima settimana. Non sono particolarmente ottimista.

 

Berselli. Puoi specificare in modo più esteso l’idea degli Stati Generali dell’infanzia?

Vannini. Due anni fa, poco dopo l’insediamento dell’attuale Giunta Merola, ci fu un convegno nel corso di del quale, come Funzione Pubblica e Cgil di Bologna, avanzammo quella proposta. Ci sembrava già da allora che fosse necessario mettere dentro a un luogo fisico molto ampio tutta una seria di attori che di questa parte così importante della vita della nostra comunità si interessano per i motivi più variegati, perché sono utenti, oppure sono professionisti, sono parti politiche, o sono sindacato. Metterli tutti insieme per provare a fare una discussione che analizzasse anche qual’era lo stato di salute di quel patrimonio, quello che noi abbiamo definito un patrimonio identitario.

Ci sembrava necessario fare una discussione che guardasse qual’era lo stato dell’arte, qual’era lo stato di salute e quali potevano essere eventuali logiche o idee per guardare in avanti, non soltanto per fare quell’esercizio in cui siamo sempre tutti molto bravi, cominciando da me, che parte dal nostro passato o dal nostro presente che si basa su un passato glorioso che forse però non è più così tanto glorioso da tutte le parti. Il punto è che tu spesso ti trovi a confrontarti con persone che, possono essere lavoratori, operatori della politica, di fronte ai problemi tornano sempre a qual passato. Noi non siamo là; siamo qui, ed è molto diverso per tantissimi motivi.

Uno dei motivi per i quali è diverso non è solo e tanto il tema delle risorse, che pure c’è, non è solo il tema dei vincoli che esiste ed è fortissimo, è anche, proprio per provare a guardare in ottica evolutiva, com’è cambiato il mondo che sta attorno a noi, rispetto all’epoca nella quale la stragrande maggioranza di quei servizi sono stati creati.

Parlo di Bologna, così non invado il terreno di altri. Faccio sempre l’esempio della cassiera dell’Esselunga, madre single di un figlio che sta dentro la fascia zero-sei anni. Magari all’Esselunga fa il turno fisso per cui inizia a mezzogiorno e finisce alle sei del pomeriggio; oppure comincia alle due e finisce alle otto di sera perché fa il turno di chiusura. Domando: per quella donna e per il suo bambino che opportunità dà il Comune, di carattere educativo, non di baby parking? La risposta è: pochissime.

Perché? Perché questa esigenza è un’esigenza che si è venuta a creare nel tempo, perché quando quei servizi sono stati creati non c’era. E’ un esempio, possono essercene tanti altri.Senza pensare di fare cose clamorose, coinvolgere tutti gli attori dentro a una discussione che fosse un po’ libera, nel limite del possibile, istituzioni, Organizzazioni Sindacali, lavoratici e lavoratori, famiglie, anche il privato sociale, ci sembrava potesse essere una buona occasione.

Era l’idea della Funzione Pubblica e della Camera di lavoro di Bologna, l’abbiamo pensata insieme, richiesta insieme. L’abbiamo ripresa quando abbiamo fatto le piattaforme sul bilancio per il comune di Bologna, l’abbiamo anche fatta divenire richiesta unitaria. L’amministrazione l’anno scorso più o meno in concomitanza con l’avvio del referendum, ha cominciato questo percorso partecipato sul sistema zero- sei anni, che però ha una natura completamente diversa. Punta cioè ad ascoltare la città per definire dei criteri per arrivare alla carta dei servizi. Una cosa molto più limitata.

 

Berselli. Hai detto che quando ci troviamo di fronte al diritto costituzionale emerge una questione. La scuola dell’infanzia è parte del sistema di istruzione, ma non è scuola dell’obbligo. Ma questo cosa significa? Che il genitore non è obbligato a inviare il proprio figlio nella scuola dell’infanzia, ma che ha il diritto di farlo e lo Stato è tenuto a dare una risposta con la scuola pubblica?

Vannini. Guarda, secondo noi il pubblico, nelle sue più varie articolazioni, è tenuto a dare risposta a quei genitori, esattamente come a quelli che fanno richiesta per andare nei nidi che sono nella fascia precedente e che hanno, in alcuni casi, liste di attesa ancora più grandi. Questo mi serve per dire che affrontiamo una vicenda che incrocia dei passaggi che dal punto di vista normativo sono ambigui, non sono lineari. Per noi il bambino e la famiglia che a quel bambino è legata, ha il diritto di entrare nella scuola. – Noi abbiamo detto di più: ha diritto ad andare in quella scuola e ha diritto di accedere ad una scuola pubblica, ed eventualmente di scegliere se preferisce mandare il bambino ad una scuola che è paritaria convenzionata perché risponde meglio ad altre cose che possono essere di natura confessionale o organizzativa. Deve essere però lasciato il diritto si scelta. Lo stato dell’arte è che però dal punto di vista seccamente normativo, diciamo così, se un genitore che ha il bambino in quella fascia di età promuove un ricorso perché il bambino è stato lasciato fuori dalla scuola dell’infanzia e non ha un posto, dubito che troverebbe soddisfazione da parte di un giudice. Siamo in una specie di limbo che, secondo me, dovrebbe essere utilmente risolto, perché altrimenti rischia davvero di rimanere un diritto monco.

Marina Balestrieri. Quello di cui stiamo parlando è senz’altro un diritto costituzione, sul quale però lo Stato non ha dato una risposta necessaria. Non ci troveremmo, ad esempio nella Regione Emilia-Romagna, con il livello di scuola tre-sei anni e di scuola statale con una diversificazione così elevata nei vari territori. A livello regionale, i Comuni, dopo la legge di parità, hanno da quel punto di vista sopperito ad una carenza delle funzioni Stato.

Il tema vero, che ci ha visto discutere in questi mesi, partendo anche dal referendum, è stata una legittima richiesta dei cittadini, che però dal mio punto di vista molto personale, per cui non c’entra il sindacato, non ha tenuto in debito conto il sistema di offerta che nella nostra Regione veniva dato alle famiglie. In questa Regione abbiamo sul sistema zero-sei anni provato a dare una risposta mettendo al centro il bambino; prima vengono i diritti dei bambini, delle famiglie e contemporaneamente i diritti del lavoro. Abbiamo provato tramite risposta integrata a dare una riposta ai bisogni delle famiglie mettendo al centro il bambino.

Quel referendum, così congegnato (sei d’accordo o non sei d’accordo sul finanziamento pubblico alle scuole private) era dal mio punto di vista limitativo. Il tema è questo: le scuole private sono paritarie, per una legge dello Stato. La discussione che c’è in questo momento in Consiglio comunale a Bologna non risolve il tema, perché stiamo parlando di famiglie che hanno bambini che hanno il diritto di andare a scuola e di frequentare la scuola dell’infanzia, come i bimbi, le lavoratrici e le famiglie hanno diritto ad avere un servizio zero-tre anni che possa permettere di fare socializzazione ed educazione. Su dove comincia la scuola, dove si pone l’inizio dell’istruzione, dal punto di vista della pedagogia, c’è un vasto arco di opinioni e di discussioni. Abbiamo provato in questa Regione a realizzare una risposta integrata ai bisogni delle famiglie e del cittadino, anche dentro un diritto costituzionale. Per questo io penso che quel referendum così impostato fosse limitativo, un attimo dopo la sua conclusione la risposta non veniva data. Poi c’è stata una discussione molto ampia anche dentro al sindacato, che non riguarda il rispetto o meno di un diritto costituzionale.

Riguarda quale strumento viene usato per rispondere a un diritto costituzionale. Qui stiamo parlando del tre-sei anni e in questo caso il diritto costituzionale è quello alla scuola. La discussione dentro all’organizzazione si è fatta sulle forme di gestione, non tanto dal punto di vista del diritto costituzionale in sé, ma se uno strumento di gestione viene considerato una lesione di un diritto costituzionale. La vedo così.

Questa è stata una discussione che ha visto le categorie della Cgil, come la Flc e la Fp, avere sul tema aspre controversie. In fondo, la discussione che c’è stata tra di noi è stata questa: si ritiene che questo strumento di gestione, per poter rispondere al bisogno delle famiglie, vada a ledere il diritto costituzionale che è quello della scuola, perché la scuola fa lo Stato? In questo caso lo Stato la fa dentro un vincolo, e purtroppo in questi anni lo Stato ha dismesso le proprie funzioni, nel senso che ha delegato. Se andiamo a vedere le risorse che lo Stato spende per le risorse dell’infanzia statale, e quelle che un Comune spende per la scuola comunale o per le scuole paritarie, i dati sono eloquenti. Tranne il territorio di Piacenza, dove la scuola statale e al 60%, da tutte le altre parti vi sono differenze sostanziali rispetto a quanto lo Stato contribuisce per l’esercizio del diritto costituzioale.

Poi c’è un altro tema: quello della fascia di età fino ai 3 anni. Io voglio ricordare che in questa Regione vengono dati i finanziamenti regionali agli asili nido convenzionati. Anche da parte dei Comuni, anche a Reggio Emilia.

Ci sono le sezioni primavera che sono quelle dei bambini dai due ai tre anni. L’anticipo da questo punto di vista è previsto dalla legge nazionale. Per la maggior parte se ne occupa la Fism. A questo proposito voglio ricordare che in questa Regione ci sono circa 1200 scuole dell’infanzia e di queste 580 non sono né comunali, né statali. Sono complessivamente 1680 sezioni, che hanno permesso di accedere alla scuola, anche se non gestita dallo Stato o dai Comuni, ad un numero corrispondente di bambini, per l’esercizio di un diritto costituzionale, che è quello di avere un’istruzione.

Voglio ricordare ancora che la Funzione Pubblica tanti anni fa, tu te lo ricorderai, raccolse molte di firme per un’iniziativa popolare, per far sì che anche gli asili nido non fossero un servizio assistenziale, e quindi a domanda individuale ma rientrassero a pieno titolo nel sistema educativo scolastico che è quello di cui stiamo parlando in questa Regione.Non ce l’abbiamo fatta perché il sistema zero-tre c’è solo in poche regioni d’Italia, al Nord, e anche il tre-sei c’è solamente in alcune Regioni perché ci sono intere regioni dove non c’è’ neanche la scuola statale, non c’è il presidio dell’educazione e dell’istruzione.

 

Berselli. Prima di sviluppare alcune considerazioni sulle cose dette da Marina, mi rivolgo di nuovo a Michele, che è quasi in partenza. C’è una situazione di estrema frammentazione. Abbiamo almeno una decina di contratti nazionali che intervengono sul lavoro che si svolge nelle scuole dell’infanzia e negli asili nido. Questo accade anche in tutti i territori dell’Emilia, accade a Bologna con caratteristiche che possono essere diverse, ma il tratto di fondo è che c’è una frantumazione del lavoro che non è l’ultima delle condizioni che ha permesso che si sviluppassero forme di gestione come quelle che abbiamo visto nel corso di questi anni. C’è un problema per il sindacato. Come pensiamo di affrontarlo?

Vannini. giri un coltello arroventato nella piaga perché quello è un problema che riguarda la Funzione Pubblica certamente in molti suoi aspetti ma più in generale riguarda la Cgil. Se tu prendi tre contratti che non sono di pertinenza della Funzione Pubblica, il contratto dello Stato, il contratto che applica la Fism e il contratto che applica l’Aninsei, che è il contratto di Confindustria, sono tre contratti che hanno dei livelli non solo e non tanto retributivi, ma soprattutto in termini di diritti che sono drammaticamente diversi fra di loro. Da quello che ho potuto osservare la vera differenza è quella.


Berselli. nelle scuole dell’infanzia, non succede che le insegnanti hanno il contratto dello stato, solo a Bologna, mentre chi lavora in una funzione che non è quella dell’insegnante ha il contratto degli Enti Locali?

Vannini. Hai ragione, però è Bologna che è un’anomalia rispetto a tutta Italia, dove gli unici due comuni che applicano il contratto della scuola statale al personale delle scuole comunali sono quelli di Firenze e Bologna. Verona lo ha tolto. Al di là di questo, che appunto è una particolarità, il tema della frammentazione rimane comunque. Anche a parità di sistema tu sei in presenza di una frammentazione. Mi spiego: se prendiamo lo zero-sei, siamo di fronte a soggetti che gestiscono lo stesso servizio, che molte volte, per l’utente, il cittadino che si presenta dentro a quella struttura, sono confondibili. Non si capisce la differenza. Tu entri dentro un plesso, vai da una parte e incontri lavoratori che hanno il contratto degli Enti Locali, vai di là e incontri lavoratori che hanno contratti delle cooperative sociali. In quel caso c’è anche una pesantissima differenza retributiva.

Questo per noi determina un problema che per la mia personale opinione è un problema che è epocale, nel senso che o la Cgil trova la forza per cominciare un percorso che sia di progressivo riallineamento delle condizioni contrattuali del settore che gestiscono ed organizzano lavoratrici e lavoratori che hanno il medesimo livello di professionalità e che operano negli stessi servizi, oppure quello a cui “rischiamo di finire in bocca” è esattamente quello che abbiamo visto negli ultimi anni. Negli ultimi anni noi abbiamo avuto una esclusione, complice anche la balcanizzazione nei rapporti di rappresentanza non soltanto tra le parti sindacali ma anche nelle parti imprenditoriali. Marchionne da questo punto di vista ha tirato via il tappo di una pulsione che c’era nelle nostre controparti per cui ognuno quando non si metteva d’accordo con le parti sindacali che aveva di fronte, si faceva il suo contrattino nazionale di lavoro ad hoc.

Se la Cgil non coglie questa fase che può determinare un cambio di prospettiva anche nella rappresentanza, che dovrebbe produrre anche la ricomposizione della rappresentanza e non prova a riunificare quelle condizioni di lavoro, se non fa questa operazione, noi siamo destinati davvero ad un altro periodo di difficoltà molto consistente. Fai veramente tanta fatica ad arginare una dinamica che alla fine, complice tutto il tema dei costi e quindi delle risorse che le amministrazioni pubbliche in particolare hanno a disposizione, ti porta sempre più giù per una scala che l’unico elemento che si comprime alla fine il lavoro.

 

Berselli. Collegato al fatto che ci sia un diritto o meno c’è la questione dell’eguaglianza e dell’equità. Conosco nell’Università di Modena e Reggio un ricercatore precario che manda i suoi figli nelle scuole dell’infanzia comunali e per ciascuno di loro paga più di 200,00 euro al mese. C’è nella stessa Università un altro docente in una posizione un po’ più stabile che manda il proprio figlio in una scuola dell’infanzia a Bologna e paga 80,00 euro, il costo della refezione. Perché uno che tra l’altro ha una condizione di precarietà ne paga 220,00 per ogni figlio e l’altro ne paga 80,00?

Vannini. Posso rendere ancora più evidente il paradosso. Quello stesso lavoratore precario, fai finta che anziché a Reggio Emilia portasse il bambino a Bologna, quello che lo porta a Bologna si trova nella straordinaria, e un pò surreale condizione, di avere da pagare se ha il bambino al nido la retta del nido ed è una retta anche abbastanza salata, mentre quando arriva alla scuola dell’infanzia non paga più niente. Ma è la stessa famiglia di un docente precario o no che sia. Torniamo alla cassiera dell’Esselunga o alla famiglia di operai magari meno precari ma hanno poche risorse. Quella è una famiglia che si svena per mandare il bambino al nido e non spende un euro se non per la refezione scolastica per mandare il bambino alla scuola dell’infanzia. Su Bologna c’è, secondo la mia opinione, un’anomalia nel senso che tu dovresti determinare una situazione per cui dovresti per lo meno riequilibrare i carichi, nel senso che se c’è un costo da sostenere non si capisce perché tu che sei la stessa persona lo sostieni solo fino a un certo punto e da un certo punto in poi, no.

C’è un tema che riguarda anche necessariamente la possibilità o la necessità di ragionare sempre di più dentro a un sistema che è integrato a livello regionale perché è evidente che se parliamo di un diritto costituzionale o non costituzionale ma se è un diritto quel diritto deve essere esigibile in maniera sufficientemente simile sul territorio di tutta la regione altrimenti si determina una situazione difficile da gestire, ma noi siamo dentro alla situazione che è completamente eterogenea quindi anche quello è un campo di lavoro sul quale operare, con la contrattazione sociale stiamo provando, perché naturalmente stiamo provando ad andare in quella direzione, veniamo da situazioni talmente tanto diverse che è difficile. Quella è una realtà che ha del paradossale.

 

Berselli: Voglio riprendere adesso con te la questione del diritto, io personalmente ritengo di dover fare autocritica per avere per un lunghissimo periodo sottovalutato il senso e le implicazioni di questa questione anche quando ho fatto l’esperienza del sindacato della funzione pubblica alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ‘90. Ritengo che questa auto critica sarebbe salutare anche per la Cgil perché c’è una serie di nodi che a lungo tempo sono stati sottovalutati e confusi. Chiedo a te perché non ho capito bene quando tu dici che c’è sicuramente un diritto, la gestione di questo diritto può avvenire anche con forme che prevedono l’interevento dei privati o di scuole private o confessionali nel garantire all’interno di un sistema integrato l’esercizio di questo diritto. Ho capito male?

Marina: Parliamo del diritto all’istruzione che è il diritto alla scuola, questo è un diritto costituzionale e l’articolo 32 della costituzione è molto chiaro, questo è un diritto costituzionale e l’articolo 32 dice che enti o istituzioni anche private possono concorre a forme di istruzione senza oneri a carico dello stato. Questo è un diritto costituzionale. Io non voglio passare per la categoria o colei, la segretaria del generale che sostiene da questo punto di vista le scuole confessionali, abbiamo lottato per anni perché la scuola fosse una scuola pubblica gestita dal pubblico dentro un quadro naturalmente di normative e in questo caso parlo di scuole comunali d’infanzia perché come categoria da questo punto di vista seguo queste e la Cgil sancisce, fa l’intervento delle due categorie e c’è un pezzo che segue la fascia dei tre-sei, scuole statali o comunali. Io però ritengo che appunto perché è scuola io parto anche dal diritto del bambino.

Rispetto al diritto del bambino ad accedere ad un sistema scolastico di istruzione perché la scuola non è scuola dell’obbligo ma è scuola tre-sei, diritto costituzionale e lo rivendico anche per lo zero-tre perché altrimenti in questa regione se si fa questo dibattito, per me, il dibattito è monco, per la storia che in questa regione abbiamo.

 

Berselli: Si è una storia che anche da parte di illustri pedagogisti aveva opinioni differenti.

Marina: Certo ma io rivendico, poi tu vieni da un territorio nel quale assolutamente ci sono illustri pedagogisti e quindi tu li hai vissuti.

 

Berselli: li ho vissuti ancora prima di essere nella funzione pubblica, li ho vissuti alla fine degli anni ’60 alla metà degli anni ’70 in quella che si potrebbe chiamare la fase propulsiva.

Marina: benissimo, allora io rivendico anche questo diritto dello zero-tre, non perché sono la segretaria di questa categoria o perché vengo da quell’esperienza, perché ritegno che sia un diritto davvero rispetto al futuro cioè della società del paese che vi sia un sistema che possa permettere ai bambini…

 

Berselli: Anche Tiziano ha vissuto tutta quella fase anche più di me.

Marina: Stavo dicendo che non voglio apparire per colei che da questo punto di vista sostiene le scuole da cattoliche essendo anche atea, dico però che in questo sistema anche le scuole comunali sono scuole paritarie perché sono sancite da una legge ordinaria. In questo paese dal 2000 con la legge 62 per le scuole paritarie rispetto a questo c’è un sistema nel quale ci sono diversi soggetti che concorrono a garantire questo diritto costituzionale.

 

Berselli: secondo te, Marina, non varrebbe la pena di avviare una riflessione rispetto anche alla legge 62 sul sistema paritario sia da un punto di vista generale sia dal punto di vista anche sindacale? Io credo di ricordare che il comma 6 dell’articolo 4 che parla dei criteri per cui una scuola può essere considerata paritaria, l’ultimo dice :”contratti individuali che rispettino i contratti nazionali di lavoro”. Quindi, in un certo senso, sancisce il fatto che la medesima condizione di lavoro può essere spezzettata in diversi contratti. Quella è la formulazione letterale, non varrebbe la pena di avviare anche una riflessione critica sulla stessa legge 62?

Marina: Secondo me la riflessione critica sulla legge 62 può essere assolutamente avviata se poi questo vuol dire che, rispetto al sistema del tre-sei cioè l’unica possibilità di gestione della scuola sia quella statale io penso di no ma lo dico seriamente, ma lo dico per l’esperienza che ho nella mia regione, non sono solo le scuole dell’infanzia statali.

 

Berselli: Io parlo di quelle pubbliche e considero anche le scuole comunali come scuole pubbliche, per esplicitarti il mio punto di vista, io non riesco ad accettare il criterio del paritario.

Marina: Attenzione perché nel momento in cui si mette in discussione appunto l’ultimo articolo che tu hai individuato che è quello del rispetto dei contratti nazionali di lavoro, parli al plurale, anche qui stiamo parlando di contratti nazionali di lavoro che in questo caso sono almeno due che è quello della scuola statale…

 

Berselli: a me pare di individuare che quella formulazione apra a tutto

Marina: ha aperto anche al contratto di Confindustria con Aninsei che viene applicato a Modena. Lo stesso soggetto comune applica un contratto sottoscritto dalla FLC, come noi abbiamo sottoscritto il contratto della cooperazione sociale anche il contratto della Fism. Sto parlando di contratto nazionale sottoscritto dalla categoria della Cgil come ha sottoscritto il contratto che si applica in Fism, quello delle scuole cattoliche. Sono tutti contratti nazionali firmati dalle categorie. Siamo sempre lì, torniamo alla domanda precedente che tu hai fatto a Michele di come noi possiamo provare a ricomporre il mondo del lavoro passando anche tramite il contratto e garantendo un diritto costituzionale, in questo momento stiamo parlando della scuola.

Prima stavamo parlando che i diritti costituzionali che sono tanti dentro alla nostra costituzione, anche il diritto alla salute è un diritto costituzionale ma per me non ci sono diritti costituzionali di serie A o di serie B, sono diritti che vanno garantiti a tutti i cittadini da zero anni fino a tutto l’arco della vita. In questo caso rispetto al tema dell’istruzione, noi come categoria a livello nazionale, stiamo provando, abbiamo provato a costruire un’idea di ricomporre, ridurre i nostri contratti nazionali di lavoro, perché noi stiamo parlando di scuola e quindi abbiamo anche nel tre-sei della nostra regione, ma non solo nella nostra regione, ma in tutta Italia, non solo l’applicazione del contratto della scuola comunale dell’infanzia come il contratto degli enti locali o il contratto della scuola o l’Aninsei, il contratto della cooperazione o altri tipi di contratto ancora.

Noi stiamo provando a fare un ragionamento per come provare ad unificare i contratti nazionali per filiera, per settore, perché non è giusto che lavoratori e lavoratrici che lavorano nella stessa filiera abbiano contratti nazionali di lavoro applicati diversi che hanno la retribuzione diversa, alcuni più al ribasso e diritti a volte profondamente diversi. Ti potrei fare lo stesso ragionamento che noi abbiamo nel sociale di questa regione, dove abbiamo dipendenti con contratti negli enti locali che lavorano nelle Asp sul sociale e abbiamo dipendenti sulla cooperazione sociale che lavorano sulle stesse Asp con il contratto della cooperativa sociale.

 

Berselli: Ecco un’informazione che mi manca, ma le Asp dove sono?

Marina: Le Asp sono aziende pubbliche di servizi in ogni distretto della nostra realtà regionale, ci sono Asp o più Asp all’interno di uno stesso distretto che gestiscono, sono le ex case protette diciamo così che riguardano il sociale, poi la legge sulle Asp dice, non quella approvata ieri che rimodifica e ripuntualizza la legge da questo punto di vista sulle Asp, la legge sulle Asp è di quasi dieci anni fa.

 

Berselli: No ma in questo caso io sto facendo corto circuito rispetto al ragionamento delle Asp che si occupano anche dei servizi scolastici.

Marina: Adesso abbiamo un’Asp a Castelnuovo Sotto che fa lo zero-seri, è piccolina. C’era quest’idea, vedremo se il comune di Bologna la riconferma per poter permettere di assumere dentro l’Asp Iride le precarie che lavorano nel comune e abbiamo a Cesena un’Asp che in via transitoria, ha assunto personale dentro l’Asp per gestire i servizi educativi perché poi c’è tutto l’altro tema che anche dentro al diritto costituzionale dobbiamo provare a fare un ragionamento nel quadro nel quale siamo. La dico così, nella quale ci sono appunto norme nazionali che impediscono agli enti di locali per effetto della Spending Review e per effetto di privatizzare i servizi, perché è questa l’idea del governo nazionale, di tagliare le risorse agli enti locali e mettere anche dei blocchi alle assunzioni con il patto di stabilità e con i blocchi assunzionali i comuni non possono sempre per effetto del lavoro stabilizzare personale o assumere personale.

Sui servizi per ora abbiamo Asp zero-tre, a Rimini per esempio abbiamo l’Asp Valloni che gestisce lo zero-tre ma questo nasce dieci anni fa, non adesso e dava la possibilità alle Asp di poter gestire la loro funzione multi settoriale, multi servizi, altri servizi oltre al sociale, in questa realtà regionale le Asp per ora gestiscono la maggior parte del sociale della nostra realtà regionale, poi c’è la legge approvata ieri che parla di educativo nonché altra attività che gli enti vogliano loro conferire se previsti dagli statuti delle Asp rispetto a tutto il sistema educativo zero-sei, questa è la differenza tra noi e la scuola, questa è una possibilità, un’opportunità non è un obbligo, dato che l’effetto di questi blocchi data agli enti locali se vogliono.

Per noi come categoria naturalmente è la seconda istanza, per noi la priorità è la gestione pubblica tramite i servizi del comune, nidi, materne, zero-tre, tre-sei devono essere gestiti dagli enti locali e quindi dai comuni, nel caso in cui i comuni da questo punto di vista non riescano per effetto del patto di stabilità, del blocco delle assunzioni che è un problema che purtroppo non possiamo risolvere in Emilia Romagna, anzi è un problema, una battaglia nazionale che anche la Cgil ha fatto, l’Asp diventa un’opportunità pubblica perché è un’azienda pubblica di servizi anche per gestire lo zero-sei.

Perché noi abbiamo assistito, perché noi che gestiamo, a differenza della scuola, ci troviamo tutti i giorni a confrontarci con i comuni, i comuni anche di centro sinistra di questa realtà regionale, all’interno di un territorio nel quale insomma, io che vivo a Parma mi sono trovata a gestire scelte politiche o scelte di comodo delle amministrazioni che si nascondevano dietro alle normative nazionali, diciamocela così, non avendo un contenitore che fosse pubblico, hanno privatizzato i servizi, Parma zero-sei o Parma infanzia Spa del comune di Parma ne è un esempio e se i compagni di Parma, la Cgil di Parma, la funzione pubblica di Parma, la scuola di Parma, la Cgil di Parma avesse avuto la possibilità di avere una normativa che permettesse, naturalmente ci voleva la volontà politica della conferenza programmatoria provinciale ci mancherebbe. L’azienda pubblica dei servizi alla quale applicare un contratto pubblico perché se il contratto degli enti locali si può applicare nel comune, nell’Asp si applica il contratto degli enti locali, non si applica il contratto della cooperazione sociale.

 

Berselli: Adesso il contratto di Parma Infanzia è il contratto della cooperativa sociale.

Marina: certo, perché quella è una Spa. La gestione delle scuole di Parma mi risulta essere per la maggioranza privata, il Proges ha il 51% della maggioranza, nacque 10 anni fa ed è composta anche dal comune di Parma e da due piccoli giovanotti di sinistra. Che cosa mise di valore aggiunto Proges per avere il valore aggiunto del 51%? Proges allora fece degli investimenti e quindi ha costruito delle scuole con il progetti di finanza perché il comune di Parma, dello stato in questo caso i finanziamenti, non riusciva a costruire scuole, né nidi né materne. Ha costruito un tot di scuole.

 

Berselli: Non è successo che la nuova giunta gli ha dato un’altra scuola costruita dal comune? Non era così?

Marina: No, doveva costruire Proges una nuova scuola ma adesso è tutto fermo, con seicento e rotti milioni di debiti è tutto fermo. Lì allora però si rispose a quale bisogno? C’erano liste di attesa altissime dei bambini al nido e liste di attesa alte dei bambini alla scuola dell’infanzia. Tieni conto che, come in altre realtà, il coordinamento pedagogico è unico, sia per i nidi che per le scuole dell’infanzia, la formazione del personale è unica, le domande quando vengono fatte, i genitori fanno la domanda e possono scegliere varie tipologie di scuola ma fanno la domanda al comune non vanno a fare la domanda a Proges.

Se noi avessimo avuto lì la possibilità di avere un’azienda pubblica avremmo avuto anche la possibilità oltre alle battaglie che abbiamo fatto, scioperi e battaglie sindacali, eccetera, di avere qualcosa che impedisse da questo punto di vista la frammentazione e quindi anche l’applicazione di un contratto nazionale più basso, meno diritti eccetera.

 

Berselli: quando ero nella funzione pubblica, rispetto ai nidi e alle scuole dell’infanzia c’era una struttura sindacale e un coordinamento che era composto da circa 100-120 persone che si riuniva periodicamente quasi con cadenza mensile. E’ cambiata la situazione con la struttura delle Rsu eccetera. Tu sai che c’è assolutamente bisogno che ci sia un momento nel quale ci si ritrova e si può scambiare un punto di vista costruire relazioni che vanno al di là di quelle istituzionali che per altro cura anche il comune. Mi risulta che attualmente in quasi tutti i capoluoghi di provincia chi rappresenta la realtà dei nidi e delle scuole siano due o tre dentro alle Rsu e che i momenti in cui è possibile seguire e avere una struttura di rappresentanza forte anche rispetto all’esperienza di lavoro si sia un po’ logorata, risulta anche a te? Per quello che riguarda Reggio è così!

Marina: No perché, diciamo così che le Rsu sono un luogo e uno strumento di democrazia sindacale molto forte e molto importante e noi lo abbiamo rivendicato, noi della categoria siamo stati i primi con la legge quadro, adesso c’è l’accordo del 31 marzo con Confindustria, ci auguriamo da questo punto di vista che venga esteso anche a tutti gli altri. Nell’esperienza così che ho io dentro le varie Rsu dei comuni capoluogo, Parma comune e capoluogo, rispetto ai numeri che ci sono dei delegati rispetto a questo servizio, il numero pressoché è quello identico da quando sono nate se non in alcune realtà presenti, ad esempio a Parma, nella quale non hanno più assunto ma sono stati mantenuti quei servizi ma anche lì se ti faccio l’esempio, nelle Rsu del comune di Parma, su 18, 4 provengono dalle scuole dell’infanzia e dai nidi che è sempre più o meno lo stesso numero che c’è stato. Su di Reggio non ho cognizione rispetto alla storia delle Rsu del comune di Reggio, io la vivo così. Però non ci vedo un nesso, se tu vuoi dire che c’è un nesso rispetto al fatto che prima c’era un’attenzione più alta, del sindacato attraverso altre forme di coordinamento su questi servizi, per quanto riguarda l’Rsu, no.

Noi come categoria regionale abbiamo anche fatto da questo punto di vista e poi lo abbiamo anche a livello nazionale il coordinamento dell’infanzia che fa zero-sei, con una coordinatrice nazionale e su questo periodicamente ci troviamo rispetto alle politiche dell’infanzia specifiche su questi argomenti. Probabilmente quando nacque la tua esperienza era all’inizio magari.

 

Berselli: ti assicuro che erano riunioni molto impegnative.

Marina: anch’io ho vissuto riunioni molto impegnative, nei momenti di trasformazione, il consolidamento di certe esperienze porta non dico ad una minore attenzione da parte del sindacato ma forse a una minor presenza.


Berselli: Per avviarmi verso il punto, se tu dovessi pensare alla costruzione di una linea della Cgil sull’insieme delle questione che abbiamo affrontato fino adesso, i punti che dovrebbero dare un senso e qualificare una risposta e una linea che riesca ad intervenire e a unificare sull’insieme di questi progetti. Come la vedi la costruzione di una linea, non ti dico proprio una linea già compiuta, ma il percorso per costruire.

Marina: Non è semplice perché mi permetto di dire che su queste politiche rispetto al sistema dell’infanzia e dell’istruzione, perché io parto da qui, la Cgil come confederazione non ha mai impegnato molto la propria attività e la propria testa, ha sempre lasciato alle categorie in modo separato la costruzione di politiche sull’infanzia e sulla scuola. Ne è un esempio il fatto che la FLC nei suoi dieci punti parte dal tre-diciotto, e la nostra categoria invece fa un ragionamento sullo zero-sei. Questo ti dà già il segnale che purtroppo ci sarebbe bisogno di un maggior coordinamento della confederazione rispetto a politiche sull’educazione e sulla infanzia e sulla scuola che vanno dallo zero al diciotto, la mia prima idea sarebbe uno zero-diciotto, non un tre-sei nel senso che io parlo per esperienza, perché se davvero vogliamo provare a costruire il futuro dei bambini di questo paese, dobbiamo partire dall’inizio.

Il futuro dei bambini di questo paese non parte dal tre-sei ma dallo zero-diciotto e su questo dobbiamo provare a costruire e impegnarci perché si costruiscano servizi, perché ci sia la possibilità di risposta all’intera società per la costituzione di vari posti di lavoro sappiamo bene che quando furono costruiti negli anni ’70 i nidi erano una risposta anche a tutte le famiglie, le donne che potevano lavorare, potevano costruire la propria libertà.

E’ un ragionamento molto ampio in una situazione italiana che è la più diversificabile possibile, per me il primo punto è il zero-diciotto, non tre-diciotto. Poi c’è un tema di applicazione di un sistema, io penso, perché ragiono con la realtà dentro ai principi costituzionale e lo rivendico anche in un sistema integrato, pubblico con anche altre possibilità di gestione perché non penso realisticamente, non lo penso io ma non lo pensa neanche la mia categoria a livello nazionale che si possa operare in assoluto rispetto a una reinternalizzazione di tutti i servizi che vuol dire portare dentro nei comuni tutti i servizi che adesso sono fuori. Credo che non sia realisticamente possibile. Rivendico un servizio pubblico integrato partendo anche dall’esperienza di questa regione.

L’altro punto è il tema della ricomposizione del mondo del lavoro anche nel settore zero-diciotto che necessita di un forte coordinamento da parte della Cgil. Il provare non riguarda solo la politica ma anche come siamo organizzati noi come organizzazione sindacale. La riflessione è che prima o poi noi come Cgil dovremmo fare, nel senso che avremo tante categorie, tanti contratti nazionali di lavoro, dovremmo provare anche su questo settore, provare a costruire, poi lì inizino ad integrarsi anche con accorpamenti di categorie perché altrimenti la nostra organizzazione non credo che ce la possa fare.si parla di quanti contratti di lavoro…contratto dell’industria, contratto dei servizi, è un ragionamento molto ampio, ci avviamo alla fase congressuale con questo ragionamento che immagino faremo ma è molto lungo, ampio, non semplice.

In Emilia Romagna si è già provato anche a costruire una proposta rispetto al modello contrattuale ma occorre anche l’attenzione della Cgil nazionale che poi sta dentro al contratto nazionale lavoro pesante o leggero, contratto di secondo livello leggero o pesante in una discussione non leggera che riguarda anche il pubblico, perché se guardo non l’istruzione quindi non lo zero-sei ma altri pezzi, penso alla sanità, noi abbiamo la sanità pubblica e privata, tieni conto per farmi capire, la sanità privata Aiop che in questa regione fa circa sei mila dipendenti, è dal 2007 che non rinnova più il contratto nazionale di lavoro.

Quello che diceva Michele è vero, cioè noi assistiamo da noi ad una frantumazione della rappresentanza e quindi agiscono sulla deroga, la diminuzione dei campi di applicazione, meno applicazione del contratto rispetto ai punti ma aumento dell’orario di lavoro, diminuzione delle giornate di ferie solo per farti un esempio. Quindi noi avremmo davvero bisogna di una riunificazione dei contratti, con questa frantumazione oggettivamente noi facciamo fatica anche a tamponare e anche a mantenere diritti e tutele. Zero-diciotto, riunificazione dei contratti, discussione rispetto a una riunificazione delle categorie e maggiore coordinamento della confederazione rispetto alle politiche. Cosa che abbiamo rivendicato anche a livello nazionale, a dimostrazione che c’è il tre-diciotto e noi parliamo di zero-sei

 

 

3. La discussione dentro la CGIL tra adattamento e ricerca di alternative: Interviste a Stefania Ghedini, Raffaella Morsia, Francesca Ruocco

Stefania Ghedini è un’insegnante che fa parte del Comitato Articolo 33, Raffaella Morsia è Segretaria della FLC Cgil Emilia-Romagna, Francesca Ruocco è Segretaria della FLC-Cgil Bologna.

 

Luciano Berselli. Inizio con una riflessione sul percorso storico attraverso cui la costruzione del sistema delle scuole dell’infanzia pubbliche (con un particolare contributo che venne dai territori dell’Emilia-Romagna) ha affermato un diritto costituzionale. Questo percorso è avvenuto in un rapporto stretto con una fase alta di iniziative, di lotte delle lavoratrici e dei lavoratori. L’affermazione di un diritto di cittadinanza si legava con le esigenze e le rivendicazioni delle lavoratrici in particolare, a partire dalla loro esperienza nel lavoro e dall’obiettivo di favorire non solo l’occupazione, ma la qualità e i diritti nel lavoro. E’ stata la fase ascendente, non priva di tensioni e di contraddizioni. Penso, ad esempio, al rapporto tra il funzionamento e gli orari delle scuole dell’infanzia e gli orari di lavoro. E’ un tema che ritorna anche oggi. Non stiamo quindi parlando di un’età dell’oro, sottratta ai conflitti, anche tra chi partecipava a questa costruzione, che tuttavia ha affermato un diritto costituzionale…

Raffaella Morsia. Credo che sia interessante fare una riflessione sul fatto che la formazione nel suo insieme è stata sempre uno dei terreni di scontro, fra diverse idee politiche, anche in questa Regione. Uno scontro che è nato sull’interpretazione, sulla concreta applicazione della Costituzione, dell’articolo 3, dell’articolo 33. Credo che la precisazione da cui partire è che la scuola, il sistema scolastico, è un diritto universale. Lo vediamo analizzando brevemente la stessa terminologia con cui è stata chiamata negli anni, a partire dal 1923, la scuola dell’infanzia. Nel 1923 era il giardino dell’infanzia, l’asilo infantile, quindi con una connotazione fortemente sanitaria e assistenziale, l’emanazione di privati, religiosi, Comuni, con la caratteristica di essere l’asilo. Successivamente nel 1968, guarda caso, diventa la scuola materna. Assume una valenza educativa, ma è ancora la scuola che, come dice la parola stessa, sostituisce la madre, la famiglia ed è solo nel 1991 che diventa scuola, con la legge che sancisce il fatto che è il primo segmento dell’istruzione.

 

Berselli. In questa Regione anche la dizione “scuola materna” è sempre stata contestata, fin da allora.

Morsia. E’ vero ed è interessante vedere questa cosa. L’obiettivo qual’era? Trasformare una scuola che era un luogo selettivo, riservato alla formazione delle classi dirigenti, in un luogo che fosse promozione del diritto di cittadinanza anche rispetto alla mobilità sociale. Questi elementi sono stati estremamente interessanti, con tutte le contraddizioni che ricordavi tu. Non è stato scontato, però sicuramente c’è stata un’espansione in termini quantitativi ma anche qualitativi, soprattutto grazie alla pedagogia che ha fatto aumentare a livello quantitativo e anche qualitativo la scuola dell’infanzia nella nostra Regione.

Per questo oggi noi diamo un giudizio severo sulle tendenze recenti, e le scelte fatte dalle istituzioni anche nel nostro territorio. Sicuramente la responsabilità primaria è dei Governi, che dal 1999 in poi, dopo la legge che sanciva che la scuola dell’infanzia era scuola a tutti gli effetti e ne sanciva la generalizzazione, hanno invece interrotto la generalizzazione. Lo Stato non ha più autorizzato nuove sezioni, se non con il contagocce, con stratagemmi strani, come le sezioni part-time. Il progetto pedagogico della giornata intera diventava una cosa povera dal punto di vista pedagogico e culturale. Nel contempo quegli Enti Locali che avevano investito fortissimamente sui gioielli di famiglia (perché erano considerate un gioiello di famiglia a Reggio Emilia, a Bologna, a Modena) non hanno puntato sulla statalizzazione. I tagli dei finanziamenti hanno fatto sì che la reazione non è stata: “come facciamo a difendere la gestione diretta di quelle scuole?” ma spesso si è trovato lo strumento per dismettere quel servizio, per privatizzare.

E’ quello che noi dobbiamo registrare in termini di sostanziale fallimento. Io non voglio neanche discutere della qualità, perché per le scuole private specialmente non ci sono sistemi di verifiche e di controllo, non ci sono, ad esempio, e non vengono garantiti quegli elementi che sono previsti dalla costituzione. Allora la scuola pubblica laica è un diritto di scelta. Oggi, in questa Regione, i genitori non sono in grado di scegliere la scuola per i loro figli, che è un loro diritto. Quindi se per un certo numero di anni quel sistema, che io non chiamerei integrato, ma piuttosto di convenzioni, perché le integrazioni si fanno tra sistemi simili, può quel sistema di convenzione può avere funzionato, ma oggi non è più così. Abbiamo posti liberi nelle scuole paritarie convenzionate, nelle scuole private finanziate anche con i contributi dello Stato, della Regione, delle Province e dei Comuni e liste di attesa nelle scuole statali o comunali, gratuite.

 

Berselli. Provo a fare una sintesi di quello che hai detto. Abbiamo affermato un diritto, il diritto ad una scuola pubblica…

Morsia. Quando dico pubblica dico quella della Costituzione, della Repubblica…

 

Berselli. Poi le cose cominciano a complicarsi nel senso che per un lungo periodo c’è stata una certa oscurità e una certa ambiguità tra l’esperienza che si veniva facendo nei territori, che puntavano sulle scuole dei Comuni e che venivano viste come qualche cosa di più avanzato e di qualitativamente più significativo della scuola statale. E’ sembrato ad un certo punto che la frontiera fosse: difendiamo le scuole dei Comuni che sono più belle e più avanzate perché portano il segno di un’innovazione culturale pedagogica che c’è stata, mentre quelle dello Stato, pur essendo scuola pubblica, non hanno gli stessi criteri di qualità delle scuole comunali. Veniva visto già con un certo sospetto quel sindaco del Comune che, non avendo più le risorse per finanziare la scuola comunale, chiedeva la statalizzazione. Poi ci sono state soluzioni, anche dal punto di vista sindacale che hanno differenziato le condizioni contrattuali e le condizioni di lavoro. L’esperienza di Bologna da questo punto di vista è diversa da quasi tutto il resto dell’Emilia.

Francesca Ruocco. L’esperienza di Bologna dal punto di vista della scuola dell’infanzia di cui parlo in questo caso, e non dei nidi, è assolutamente diversa rispetto alle altre in Regione. E’ rimasta quella più avanzata, cioè a Bologna c’è una parte minoritaria di scuole statali e la parte maggioritaria, circa il 62%, di scuole dell’infanzia comunali. Per il resto sono paritarie e private, solo il 2% sono private tout court. E’ diversa anche per il riconoscimento della professionalità, vedendola dal punto di vista strettamente sindacale. Bologna, insieme solo a Firenze (perché prima c’era anche Verona, ma a Verona Tosi ha cambiato la situazione) è rimasta l’unica realtà in cui le insegnanti di scuola dell’infanzia hanno il contratto scuola, quindi hanno lo stesso contratto collettivo nazionale delle insegnanti che fanno lo stesso lavoro nello Stato e quindi sono riconosciute all’interno dello stesso comparto di appartenenza.

 

Berselli. Quindi la gestione di queste scuole è in capo al comune, il contratto che si applica per le insegnanti è quello della scuola pubblica. Anche per le altre lavoratici?

Ruocco. Per le collaboratrici scolastiche (parlo al femminile perché sono quasi tutte donne, ma c’è anche qualche uomo) in realtà no. Il contratto è quello degli Enti Locali. Le insegnanti sono rimaste con la strutturazione precedente dal punto di vista contrattuale, dunque hanno un contratto pubblico che è il contratto scuola, che però non è il contratto di comparto del Comune, perché il contratto di comparto del Comune è quello degli Enti Locali e Regioni.

Ciò detto, per tornare ai temi affrontati prima, in Emilia Romagna e in particolare a Bologna, in quegli anni che possiamo chiamare anni d’oro, sia pure con dei limiti, sono state fatte delle anticipazioni, anche rispetto alla legislazione nazionale, com’è successo anche nelle politiche urbanistiche e in altri ambiti. La principale anticipazione era proprio quella che veniva ricordata, cioè il riconoscere al segmento 3-6 anni il fatto di non essere un servizio alla persona, ma di essere scuola, quindi parte integrante del sistema dell’istruzione. Quindi non servizio, ma diritto all’istruzione tout court. Poi viene recepita questa cosa nella legislazione nazionale appunto nel marzo 1968. Noi abbiamo sempre sostenuto che anche nel segmento 0-3 anni bisognasse fare un ragionamento di questo tipo, riconoscendo cioè che non è solo servizio alla persona, ma parte importante quanto meno del sistema educativo se non formativo vero e proprio.

Quello che sta succedendo adesso è esattamente il contrario, come se la discussione stesse facendo un balzo indietro di trent’anni. Avviene che non lo 0-3 anni viene portato sul piano del diritto, ma è lo 0-6 anni che invece viene trascinato a diventare un servizio individuale a domanda. Non a caso anche a livello regionale il fatto che l’assessorato di riferimento sia ancora l’assessorato al welfare (non ricordo la dicitura esatta) e non quello all’istruzione è emblematico, in una regione come l’Emilia-Romagna. Secondo me, i due passaggi di fondo che sono stati fatti, cioè i due elementi critici che sono tutti politici a partire per l’appunto dagli anni ’90, sono in primo luogo un’idea sbagliata della sussidiarietà che è incarnata dalla legge nazionale di parità e da come viene interpretata. E’ lì che si inserisce un vulnus nell’articolo 33 della Costituzione, che giustamente dice “enti e privati possono istituire scuole” poi dice anche “senza oneri per lo Stato”. I privati possono istituire scuole, però l’art.33 dice che innanzitutto la Repubblica deve istituire scuole di ogni ordine e grado, non facendo nemmeno distinzione tra scuola dell’obbligo e non obbligo. Prima la Repubblica deve garantire il diritto alla scuola pubblica. Nella stessa legge di parità c’è scritto chiaramente che se una scuola è parificata e però ha un progetto formativo specifico, tu devi accettarlo nel momento in cui tu iscrivi il figlio in quella scuola. Vi faccio un esempio solo perché è il più semplice, quello della scuola confessionale dove tu accetti comunque quel progetto educativo che le è proprio. Qui c’è il primo grosso vulnus, parliamo di sussidiarietà, parliamo addirittura di sistema integrato, ma il problema è che prima occorre garantire che tutti quelli che vogliono la scuola pubblica e scelgono la scuola pubblica, abbiano la scuola pubblica. Poi dopo arriva il resto. Non puoi pensare che il resto supplisca alla domanda di scuola e di scuola pubblica, perché tu non ce la fai, perché offri un servizio, ma non è scuola pubblica. Qui parliamo appunto della formazione dei futuri cittadini, cioè di una cosa che in Francia, tanto per capirci, non verrebbe mai accettata. Forse i francesi esagerano sul fatto che lo Stato deve controllare al 100% la formazione, da zero anni in poi, dei propri cittadini e dare una formazione repubblicana. Ma qui veramente siamo alla follia dal lato opposto, alla rinuncia del soggetto pubblico ad essere titolare della formazione dei propri cittadini, in un settore così strategico, non rispettando la volontà di chi sceglie la scuola pubblica. La crisi aggrava questa situazione, nel senso che adesso si dice: non ci sono soldi e si rischia di assumere il punto di vista di una cultura che non è la nostra (e non è quella che è stata maggioritaria in passato in questa Regione): dato che il pubblico non ha più soldi, è vero che la scuola pubblica è un diritto però mi dispiace, solo il privato ci può salvare. Certo un privato parificato, quindi, certo deve accettare una serie di standard, ah però comunque come contropartita devi accettare il suo progetto educativo, che sia confessionale, che sia steineriano, che sia quello che ti pare, non importa, però lo devi accettare se vuoi mandare il figlio a scuola, oppure puoi tenerlo a casa, pagare la baby sitter, affidarlo ai nonni. E’ proprio un abdicare alla formazione dei propri cittadini oltre che ledere un diritto fondamentale di una famiglia, che è il diritto di un’istruzione pubblica, che è quindi il diritto di mandare il figlio alla scuola pubblica ed è questo l’elemento fondamentale.

Un’altra differenza: a Bologna (dove fortunatamente le scuole dell’infanzia sono gratuite, in quanto scuola, quindi parte del diritto all’istruzione), non a caso noi abbiamo una situazione per cui i bambini nei nidi diminuiscono, per forza, perché ci sono rette di seicento euro al mese. Se poi si considera quanto un bambino si ammala al nido e alla scuola dell’infanzia, e quindi il fatto che la baby sitter devi pagarla comunque, a quel punto conviene, soprattutto quando è molto piccolo, affidarlo direttamente alla baby sitter.

Invece, le scuole dell’infanzia gratuite seguono il trend demografico che è in crescita, e questa è un’altra differenza rispetto al resto della Regione, dove invece non solo non c’è il contratto scuola, ma ci sono le soluzioni più varie, la Fondazione, le Cooperative, e per di più la scuola si paga.

Andrebbe ripreso un ragionamento e un’iniziativa per rispettare i tempi di lavoro delle donne. Leggo sul giornale che alle Poste di sarebbe una soluzione avanzata, perché al CMP viene realizzato un asilo nido che è aperto fino a mezzanotte. Non solo lo considero un parcheggio per i bambini, ma chiedo se questo significa rispettare il lavoro delle donne.

Irrigimentare anche i bambini di un anno all’interno di una disciplina di orario che è in tutto e per tutto una fabbrica, una situazione veramente operaia? No, venire incontro alle esigenze delle donne, trovare soluzioni avanzate di stampo nord europeo sarebbe, per esempio, una contrattazione che dice: le donne, fino ad una certa età del bambino hanno regimi orari adeguati alla loro condizione. Quindi se sono nella condizione famigliare per cui non hanno soluzioni diverse, non è che parcheggi il bambino fino a mezzanotte, all’una, ma la donna viene esentata per quel periodo di tempo, da situazioni sfavorevoli nei turni e nei regimi orari.

E’ una cosa che mi pare che si stia dimenticando, invece è bene ricordarlo, perché è questo che il sindacato innanzitutto dovrebbe contrattare. E’ innanzitutto il lavoro che dovrebbe riplasmarsi sulle esigenze della donna, per consentirle il diritto alla maternità. Si può ragionare anche di una rimodulazione degli orari della scuola, ma occorre un’implementazione dell’organico, per non ledere i diritti delle insegnanti e delle altre lavoratrici. A quel punto noi siamo i primi che vogliono riparlare di compresenza, allungamento del tempo scuola. Ma appunto occorre il personale per farlo e all’interno di un progetto educativo formativo, non come un parcheggio, con le lavoratici pagate con il contratto delle cooperative sociali perché così le paghi poco e orari che si allungano addirittura fino a mezzanotte. Continuando così si torna ad un parcheggio per i bambini arrivando ad orari assurdi, e basandosi su che cosa per rendere il tutto compatibile economicamente? Sempre sullo sfruttamento del lavoro delle donne!

 

Berselli. A questo proposito, chiedo sia a te che a Stefania: applicando il contratto delle scuole dello Stato che prevede orari più bassi e retribuzione più alta rispetto al contratto degli Enti Locali, come si articola per le insegnanti di scuola dell’infanzia il modello organizzativo

Stefania Ghedini. Io sono un’insegnante di scuola primaria statale e sono dentro a un circolo didattico dove abbiamo una scuola dell’infanzia statale, non comunale perché le comunali non sono sotto le nostre direzioni. Al di là del cortile abbiamo le scuole comunali, effettivamente l’orario di apertura si discosta comunque perché le statali chiudono mezz’ora prima rispetto alle comunali. I bambini della statale escono mezz’ora prima, i bambini della comunale mezz’ora dopo; è chiaro che il genitore queste osservazioni le fa, per quanto riguarda le compresenze effettivamente le insegnanti lamentano il fatto che ci sarebbe bisogno di più ore di compresenza, noi per esempio nella contrattazione abbiamo sempre rimediato prendendo una quota integrativa che andasse a pagare loro una maggiore possibilità di fare ore di compresenza, nonché pagavamo loro la programmazione perché nell’orario del loro monte ore non c’è. Effettivamente sono sicura che la realtà è a macchia di leopardo per quanto riguarda le scuole statali nel territorio perché ognuno nel proprio rispetto della propria autonomia cerca le soluzioni.

 

Berselli. e nelle scuole comunali di Bologna?

Ruocco. E’ vero che la principale differenza dal punto di vista dell’orario a Bologna è la mezz’ora di chiusura perché le scuole comunali chiudono mezz’ora dopo e le scuole statali mezz’ora prima. E’ vero che nelle scuole comunali ci sono più compresenze e c’è anche una maggiore attività di formazione. Il Comune di Bologna non ha chiesto per tempo negli anni passati le statalizzazioni, non lo ha fatto perché le scuole comunali erano il fiore all’occhiello ed è anche vero che i genitori, tra la scuola dell’infanzia comunale e quella statale, prediligevano la scuola dell’infanzia comunale, perché c’erano più progetti formativi, facevano più uscite, c’erano più compresenze. Soprattutto in questi ultimi anni abbiamo un livello di precariato sempre più alto. Nella scuola comunale noi abbiamo 297 insegnanti di ruolo, tra tempo pieno e part time, e 156 precarie tra tempo pieno e part time. Così ci rendiamo conto della percentuale di precariato. Le precarie sono anche nelle graduatorie dello Stato, la maggior parte lavora sia di qua che di là, quindi anche nelle scuole statali vorrebbero più compresenza, più formazione, mentre ci sono meno risorse anche economiche e di organico per poter fare queste cose.

Morsia. Questo però interroga sulla responsabilità delle istituzioni, e interroga anche noi come sindacato che non abbiamo mai spinto.

Ruocco. Una cosa importante sul contratto: le educatrici di nido hanno il contratto degli Enti Locali, che prevede un integrativo consistente. Il problema importante non è dunque di carattere economico, ma la questione decisiva riguarda l’orario, l’organizzazione del lavoro. In prima istanza, il Comune non risparmierebbe applicando alle insegnanti il contratto degli Enti Locali, perché per l’integrativo esistente le insegnanti non ci perderebbero dal punto di vista economico. Tosi a Verona, per esempio, ha cambiato il contatto alle insegnanti comunali passando dal contratto scuola al contratto Enti Locali. Tra l’altro, l’ha cambiato senza accordo sindacale, tanto che anche la Cgil e la Flc gli hanno fatto causa, utilizzando l’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori, e hanno vinto. Infatti lui, in prima istanza, ha dovuto ritornare al contratto scuola, però poi quando sono scaduti gli accordi è tornato a quello degli Enti Locali. Lo ha fatto per due motivi: il primo economico, di risparmio, il secondo perché avendo un orario più alto il contratto Enti Locali, in questo modo, facendo ruotare le insegnanti, per un certo numero di sezioni, riusciva a mettere in ciascuna un’insegnante in meno. Quindi ha lasciato a casa un 20% di precari e ha ridotto il personale e così ha avuto un bel risparmio. Per tornare all’asilo nido delle Poste aperto fino a mezzanotte, giustamente il Sindacato Lavoratori della Comunicazione della Cgil ha preso una posizione pubblica, dicendo che il nido aziendale con quelle caratteristiche non si doveva fare.

Morsia. E’ coerente anche con quello che dicevano prima, perché se torniamo al fatto che la scuola dell’infanzia non è scuola ma un servizio assistenziale e quindi il punto di riferimento non è il bambino che è il soggetto di diritti, lo puoi far andare alla scuola materna o al nido anche la notte.

 

Berselli. Facciamo un attimo il punto: si è creata una situazione in cui si è affermato in linea di principio un diritto costituzionale. La realtà che è andata avanti non porta più verso la sua realizzazione.

Morsia. Questo è avvenuto anche perché lo Stato ha detto che non era obbligatoria.

 

Berselli. Questo è un motivo che ha una certa importanza. Vorrei tuttavia portare l’attenzione sull’iniziativa sindacale. Abbiamo già accennato ai gravi limiti che hanno ostacolato la realizzazione del diritto costituzionale, fino a confondere e mettere in dubbio il significato stesso di questo obiettivo. E’ una riflessione che riguarda in primo luogo chi, come me, da più tempo ha vissuto questi problemi, quando le condizioni erano più favorevoli per avanzamenti significativi. Penso anche al problema dell’unificazione delle condizioni di lavoro e contrattuali, che sono oggi frantumate. E’ più difficile, anche se ineludibile, individuare e praticare un percorso sindacale verso l’unificazione.

Ruocco. Ci sono tre contratti della scuola privata: Fism, Agidae e Aninsei. Poi abbiamo il contratto degli Enti Locali, il contratto della scuola statale e il contratto delle cooperative sociali, che ha al suo interno il profilo dell’educatore. Dove si usa il contratto cooperative sociali, come a Ferrara (qui le cooperative fanno la parte del leone), non c’è nemmeno bisogno dell’abilitazione, esiste anche questa differenza: per la scuola dell’infanzia occorre avere l’abilitazione all’insegnamento. E’ necessaria la laurea abilitante che è Scienze dell’educazione e vale sia per la primaria che per la scuola dell’infanzia, tutte le insegnanti di scuola dell’infanzia possono insegnare anche nelle scuole elementari. Laddove si usa il contratto delle cooperative, a Ferrara per esempio, addirittura non c’è bisogno dell’abilitazione, quindi un’educatrice senza abilitazione tramite la cooperativa fa anche l’insegnante di scuola dell’infanzia.

 

Berselli. Come si discute di questa situazione dentro il sindacato?

Morsia. E’ una situazione che intanto ci interroga sulle responsabilità anche da parte sindacale, sicuramente. Probabilmente non abbiamo mai cercato con sufficiente determinazione il fatto che, docenti abilitati a parità di condizioni di lavoro, occupandosi di scuola debbano avere lo stesso contratto. Ci interroga anche perché siamo titolari a gestire contratti per le scuole private, che gridano vendetta. Parlo dell’Flc, così non parlo di altri. Da tempo, come Flc, cosa chiediamo? Che la Cgil, in Emilia Romagna, perché cominciamo da qui, sia titolare di una forte azione, di una vertenza con la Regione e con gli Enti Locali?

Ci vuole un luogo di governo di questo sistema, che veda un intervento delle due categorie interessate, Flc ed FP, ed un confronto con la Regione e gli Enti Locali. Abbiamo ormai assunto anche nel pubblico tutti i “difetti” che investono il lavoro nel privato. Si usano contratti al ribasso per fare dumping, per schiacciare i lavoratori su quello che costa meno. Questo, inevitabilmente, ha anche dei riflessi sulla qualità del sistema. Perché non cominciamo a costruire esperienze tra le scuole comunali e le scuole statali, già a partire da Bologna, visto che hanno lo stesso contratto? Esperienze, connessioni di tipo verticale ed orizzontale: ci vuole tuttavia un luogo di governo. Se non lo fa lo Stato, in questo momento, devono farlo la Regione e gli Enti Locali.

Proviamoci, sapendo che probabilmente è difficilissimo. Però noi non abbiamo alternativa, perché il sistema si frammenta, gli Enti Locali dismettono, perché questo è un sistema che permette solo di dismettere, con tutte le responsabilità che chiamano in causa la politica e il Governo a livello nazionale. Non si può fare una legge in cui si dice che è un obbligo della Repubblica, e quindi di tutte le sue articolazioni, Stato, Regioni e Comuni, di istituire la scuola dell’infanzia, e poi far finta che la stessa cosa non esista, pensare che sia a carico di qualcun altro. Credo che sia un tema da affrontare anche per il prossimo Congresso della Cgil.

 

Berselli. Parli di un ruolo della Confederazione. Questo significa una discussione e un intervento da parte di tutte le categorie, non solo di quelle tradizionalmente interessate…

Morsia. Assolutamente sì, tanto è vero che ne abbiamo discusso nell’ultimo Direttivo regionale. Sono convinta che vada assunta un responsabilità collettiva di tutte le categorie della Confederazione sul fatto che quello è un luogo strategico, non solo per lo sviluppo del diritto di cittadinanza, ma per lo sviluppo anche economico e sociale in un territorio. Non c’è sufficiente consapevolezza su questo, neanche in casa nostra, ma quando mi riferivo alle due categorie mettevo l’accento sulla necessità di unificare i contratti, il modello organizzativo e le condizioni di lavoro.

Tutto il resto deve essere un tema assunto in primo luogo dalla Cgil per tutte le categorie. Nel piano del lavoro sta scritto chiaramente che chiediamo l’elevamento dell’obbligo scolastico a 18 anni. E’ chiaro che non possiamo lasciar perdere il tema dell’educazione per la fascia 0-3 anni, con la consapevolezza che per noi come Flc anche i nidi devono essere tolti dai servizi individuali a domanda, e devono avere un diritto di accesso aperto a tutti i bambini. Non mi soffermo sulle difficoltà che abbiamo incontrato all’interno della Cgil. Pesano anche su di noi le distorsioni e le contraddizioni che esistono nei territori da parte degli Enti Locali, che in molti luoghi hanno attribuito agli assessorati del welfare la competenza del settore scolastico ed educativo. Con fatica, abbiamo ottenuto nell’ultima riunione del Direttivo regionale della Cgil che si affermasse in maniera chiara che la scuola e l’istruzione non sono welfare, ma un diritto universale riconosciuto dalla Costituzione.

 

Berselli. Abbiamo a lungo accompagnato tutti questi processi di frammentazione. Il referendum bolognese ha rappresentato una realtà che aiutava ad iniziare una nuova strada, rispetto ai problemi di cui abbiamo appena parlato, oltre che ritornare sulle questioni che riguardano il diritto. Vorrei chiedere a Stefania proprio di parlare dell’esperienza del referendum bolognese. L’Flc ha avuto il merito di non considerarlo un fastidio, di non allontanarlo, perché disturbava, quindi qualcosa che rompe l’idea che si accompagnano processi, invece di cercare una strada con tutto il realismo necessario, per intervenire e cambiarli e trasformarli, che è l’atteggiamento che tende a prevalere.Le realtà di movimento, fastidiose o che fuoriescono da schemi consolidati, che vanno un po’ messe da parte perché bisogna creare continuità…

Ghedini. Voglio partire dalla data di inizio delle convenzioni. Quando il Comune di Bologna decise, nel 1995 di far partire le convenzioni, l’offerta copriva il cento per cento della domanda, anzi era maggiore del cento per cento, tanto è vero che frequentavano le scuole dell’infanzia di Bologna bambini che venivano anche dai Comuni limitrofi. Quindi non era assolutamente un’esigenza dare un’offerta a una domanda in esubero. Erano i tempi del calo demografico, quindi, non era questo. C’era un progetto politico: sicuramente la scuola è diventata un oggetto di scambio sul piatto della bilancia, in un certo senso l’agnello sacrificale. Si è deciso in quella fase di intraprendere quella strada e quindi sgomberare il campo. Dopo è venuto il discorso secondo cui il Comune non investe più chiaramente nella scuola comunale, non apre più nuove sezioni, non chiede la statalizzazione di quelle esistenti. Ci si chiede quali sono le ragioni.

In parte per ciò che tu dicevi prima, c’era all’inizio la fase dell’orgoglio. Nei dibattiti noi abbiamo incontrato una ex amministratrice alla quale, quando parlava delle sue scuole, veramente brillavano gli occhi. C’ero già dentro alla scuola in quel tempo. Se tu sentivi le colleghe della scuola dell’infanzia comunale, parlavano con orgoglio, perché si sentivano parte di un progetto. La comunità, il Comune, investiva su questo suo patrimonio perché sapeva dove voleva andare. Dentro le scuole si creavano i piccoli cittadini. C’era, posso dire, amore, per usare un po’ una parola da maestrina. Ma era amore verso questa istituzione, un grande interesse. Tra l’altro era la prima palestra di cittadinanza anche per tanti genitori, veramente nei collettivi, nelle riunioni con i genitori, la comunità si ritrovava, ragionava, cresceva, si dava in un certo senso un futuro che era migliore di quello attuale. Si andava verso un qualche cosa, c’era una grande progettualità, c’era entusiasmo!

Nel momento in cui tutto questo comincia ad essere dismesso, prima ancora che praticamente, nella testa degli amministratori, non ci sono più febbrai pedagogici, anche l’Università stessa, in un certo senso, smette di produrre quelle idee. Quelle che erano sperimentazioni, erano diventate generalizzazione. Le buone pratiche erano comunque diventate la base anche della scuola statale, che sicuramente ha fatto più fatica e forse non ha mai raggiunto lo stesso livello di qualità, non ha avuto risorse. Però la prima dismissione, prima ancora che dal punto di vista economico, è stata proprio nella testa degli amministratori. Ad un certo punto subentra: “non credo più in questo, non vedo più nella scuola il primo nucleo di cittadinanza non solo dei bambini ma anche dei genitori” e questo dopo la metà degli anni 90 è andato perdendosi. Non a caso, quando nei dibattiti ci dicevano: “ma come? Venite a fare il referendum proprio qui a Bologna che siamo il Comune con il 60% di scuole comunali? Perché non andate a rompere le scatole altrove?

Proprio perché è Bologna, proprio perché qui la scuola dell’infanzia ha voluto dire non solo il venire incontro alle esigenze lavorative, ai problemi di orario, ma ad una pretesa di qualità. Attraverso la scuola, voglio che a mio figlio sia data la garanzia di chiudere la forbice in cui lo stringe la sorte, facendolo nascere in una famiglia meno fortunata. Voglio che davvero lui possa partire potendo arrivare, alla fine di questo percorso di scuola dell’infanzia di qualità, fatta bene, alla pari con gli altri. Per forza a Bologna doveva succedere il referendum, per forza doveva succedere qui. Noi, tra i dibattiti, i volantini, le occasioni di incontro con i cittadini, abbiamo percepito una consapevolezza che forse in altre città si è persa.

 

Berselli. Ti sei accorta che ha avuto più rilievo sul piano nazionale di quanto non ne abbia avuto sul piano regionale? Te lo posso testimoniare io dal punto di vista di Reggio Emilia. All’interno del sindacato non se n’è parlato. Addirittura c’era il “non vedo neppure perché la cosa mi disturba”.

Ghedini. Sì, sì, veramente. Ne ha parlato un po’ la Flc ma a fatica, negli altri territori, diciamo la verità, c’era paura. E’ un germe pericoloso quello di non voler vedere perché mette in discussione tutto quello che abbiamo creato in questi anni…

 

Berselli. Mi interesserebbe anche sapere se voi avevate cominciato una discussione sul modo di proseguire l’esperienza di Bologna.

Ghedini. Non tanto noi del Comitato. Lo scopo era: a Bologna, qui, ora, su questa convenzione. Poi vedremo, intanto rilanciamo questo grande problema della scuola dell’infanzia e il grande problema pubblico. Noi siamo vetusti, per cui pubblico è ancora la scuola della Repubblica e non privato/ convenzionato/paritario. Noi volevamo rilanciare e cercare di attirare l’attenzione su questo, sono vent’anni che ci battiamo per questo. Sembra che siamo rimasti quelli col cerino acceso in mano, però come dicevi tu, si è visto che intanto anche a livello cittadino che siamo in tanti – e non era per nulla scontato. Non dimentichiamolo: è stata la prima volta che Bologna ha disobbedito al Grande Padre, che ha detto andate e votate B, e i bolognesi che sono andati a votare hanno votato A.

 

Ruocco. Il Grande Padre è ancora il Partito che in questa città, alle primarie, porta a votare più che in tutto il resto d’Italia e che continua a prendere delle percentuali generose.

Ghedini. Sicuramente la percezione che l’attaccamento alla scuola pubblica fosse qualche cosa che nell’animo dei bolognesi era ancora radicato, radicatissimo, è un tasto che ha comunque coinvolto anche persone che non hanno figli e nipoti a scuola.

 

Berselli. Lunedì prossimo il Consiglio Comunale prende una deliberazione…

Ghedini. Diranno così: è successo, sapete, che ha vinto l’opzione A e noi continuiamo a fare quello che chiedeva la B. Durante il presidio dei tre giorni in piazza, sapessi quanti sono venuti dicendo: “io ho votato B ma non mi va bene però che il Sindaco dica che se ne frega…”

 

Berselli. questo sarebbe sano pragmatismo, espressione che piace tanto a qualcuno. Se una cosa è avvenuta, pragmatismo vuol dire attinenza ai fatti, ti attieni ai fatti, mi dici cosa pensi di quel fatto che c’è stato.

Ghedini. Prodi ha detto: “io ho votato l’opzione B ma ha vinto l’opzione A, occorre prenderne atto …”. Sinceramente non credo che da qui a lunedì noi metteremo in atto altre iniziative. Ci troveremo domani per decidere, ma non credo che cambierà molto, tra l’altro anche dal punto di vista formale hanno fatto pasticci, però le cose non cambieranno. Se davvero andranno avanti così la pagheranno in modo terribile. La pagheranno in termini di disaffezione ancora maggiore perché tante persone ci dicevano, quando davamo i volantini: “tanto a cosa serve? Non serve a niente, guardate quello dell’acqua, non servirà a niente”. Molti già avevano quel pensiero e quelli che invece si sono spesi, quelli che hanno detto: “vado a votare su una cosa così importante” e si sentono dire che non interessa a nessuno, tutto come prima, ti cambierò i parametri di valutazione. Ma il referendum non parlava dei parametri di valutazione, parlava del finanziamento pubblico al privato, quindi la pagheranno.

 

Berselli. Di questo sono convinto anch’io, forse non si vedrà nell’immediato ma niente resta senza lasciare un segno e una conseguenza. Vi chiedo una valutazione sull’ASP. Mi sembra sia chiaro che, nel momento in cui fai un’azienda dei servizi alla persona sei già su tutta un’altra strada rispetto al ragionamento del diritto universale di cui abbiamo parlato. Che contratto pensano di applicare all’ASP?

Ruocco. La proposta del Comune è quella di applicare il contratto Enti Locali alle nuove che dovrebbero essere assunte mentre quelle di ruolo manterrebbero sempre il contratto Scuola perché sarebbero in distacco funzionale quindi resterebbero formalmente dipendenti dal Comune di Bologna però distaccate per l’appunto all’ASP La nostra proposta qualora ASP dovesse essere, è quella di mantenere il contratto Scuola.

 

Berselli. Cercano di dividere il fronte tra chi arriva da percorsi di precarietà e che eventualmente può vedere nell’ASP un punto di stabilizzazione?

Ruocco. Infatti. Volevo poi riprendere alcune delle cose dette prima da Raffaella: innanzitutto c’è una responsabilità nazionale, per non essere intervenuti, e per non intervenire ancora adesso, anche con forme di mobilitazione decise sul Governo nazionale, sugli Enti Locali. Da parte del sindacato, a tutti i livelli, è una responsabilità grossa. Non basta dire: deroghiamo dal patto di stabilità. C’è una sentenza a Napoli, che riapre questa questione, dicendo che i servizi infungibili non possono essere sottoposti al patto di stabilità. Non basta dire che si dovrebbe derogare. Bisogna anche mettere in campo un’iniziativa che vada in questa direzione. Bisogna produrre un’inversione di tendenza, perché il diritto alla scuola pubblica dell’infanzia significa innanzitutto la gestione diretta da parte del soggetto pubblico. Alcuni diritti fondamentali non possono sottostare alla compatibilità finanziaria su cui è improntato il patto di stabilità. Questa linea devi provare a praticarla, poi magari perdi, ma perlomeno ci provi.

E’ chiaro che, qualora la situazione restasse immutata con il Comune che va avanti sulla strada dell’ASP, per quello che so io oggi, unitariamente come Confederazione, Funzione Pubblica ed Flc chiederemo il mantenimento del contratto della scuola. Questa del contratto per noi è una battaglia fondamentale in questa vicenda. Qualora nulla si muovesse e il Comune andasse avanti in maniera unilaterale sull’ASP, è chiaro che sulla questione delle 156 lavoratrici precarie che devono essere assunte, noi chiediamo di farle assumere tutte, e farle assumere tutte con il contratto scuola, all’interno anche di una garanzia per il futuro.

 

Berselli. Avrò un’intervista anche con la Funzione Pubblica. Chiederò anche a loro come considerano il referendum, se lo considerano un elemento che comunque aiuta, al di là delle diverse opinioni

Morsia: Io mi sarei aspettata – l’ho dichiarato anche ai giornali pubblicamente, su questa questione del patto di stabilità e della deroga per i servizi infungibili ed essenziali quali quelli della scuola – di vedere i Sindaci in piazza con la fascia tricolore. Me lo sarei aspettato perché credo che un’Istituzione debba difendere la propria comunità. Se non altro con la fascia tricolore me li sarei aspettati. Noi abbiamo preso una posizione molto chiara sulla questione della legge regionale che doveva regolare le ASP, perché in una prima stesura avevano inserito furbescamente il termine “servizi scolastici”. Scrivevano servizi scolastici e forse intendevano scuola, e invece i servizi scolastici in tutti i siti degli Enti Locali d’Italia sono: mensa, pre-scuola, trasporto ecc. quindi, sì, servizi a domanda individuale. Abbiamo mandato il nostro ordine del giorno, la nostra posizione ribadendo il fatto che la scuola non è un servizio individuale a domanda e quindi non può essere normato dalla Regione, perché gli ordinamenti e la gestione delle scuole la fa lo Stato, mentre la Regione norma la programmazione della rete scolastica. Questo per ristabilire anche in uno stato di diritto quali sono le competenze e i ruoli. Questo ci sembra sia stato accolto, questo vorrei valorizzarlo perché non era scontato. Occorre fare chiarezza, se scrivevano Scuola era chiaramente anticostituzionale. Hanno scritto Servizi scolastici e noi abbiamo chiesto di declinarli.

 

Berselli. C’è un terreno di ricomposizione e di avanzamento della discussione all’interno della CGIL?

Morsia. io credo ci debba essere per forza, non ci sono alternative. Sui problemi dei cittadini, dei lavoratori, non penso ci siano divergenze incolmabili, questa è una mia interpretazione personale. Non credo che in CGIL abbiamo dei valori differenti, sono gli stessi, abbiamo votato, abbiamo lavorato sul Piano del Lavoro tutti. Il rispetto delle regole delle leggi di questo paese ci accomuna, che la scuola dell’infanzia sia scuola credo che ormai sia condiviso da tutti, non solo dalla Funzione Pubblica o dalla Confederazione ma dal Paese, è incontestabile. Credo che quello che può averci differenziato, debba essere risolto. Credo che le differenze stiano nell’approccio rispetto all’esistente. Secondo me bisogna avere coraggio ad immaginare anche soluzioni diverse da quelle che non sono pronte ed esistenti, immaginare qualcosa che non c’è e aprire una azione forte, una vertenza verso le istituzioni e verso il Governo su quel pezzo di scuola.

Ruocco. Sottoscrivo quello che ha detto Raffaella e aggiungo che sulla contrattazione, nei casi specifici come Bologna, alla fine si trovano delle sintesi, con più o meno facilità, proprio perché ci sono principi di base comuni compresi quelli che dicevo prima, come la stabilità del lavoro e quindi l’importanza di assumere i precari. Aggiungo che la scuola dell’infanzia è scuola e quindi deve restare pubblica, ci sono comunque dei principi di base che ci accomunano. E’ chiaro che l’Flc questa cosa l’ha sottolineata di più, dicendo con chiarezza che la scuola dell’infanzia in quanto scuola non poteva avere come prospettiva le aziende dei servizi alla persona. Abbiamo fatto una battaglia, anche per quanto riguarda la legge regionale, evidenziando in occasione dell’ultimo Direttivo regionale che quell’ordine del giorno era carente proprio sulla parte in cui non proponeva una mobilitazione concreta per la deroga al patto di stabilità e per aprire un tavolo con la Regione su questi temi. Da questo punto di vista c’è quello che dice Raffaella, occorre cercare di cambiare, di trasformare la situazione attuale, non solo di gestire l’esistente. Se poi nel prossimo gennaio il Comune vorrà comunque dar vita alla ASP dovremo ribadire che trattandosi giuridicamente di un soggetto pubblico (da questo punto di vista è meglio della fondazione, è meglio delle cooperative) dovrà assumere tutti i lavoratori con il contratto scuola. E’ sicuramente necessario un rapporto tra Flc e Funzione Pubblica, per affrontare questa fase. Vedremo nel concreto di continuare il confronto sull’impostazione delle nostre iniziative, che per la Flc – l’abbiamo ben chiaro – si basano sul principio fondamentale che la scuola non è un servizio.

Morsia. Questo non è un riferimento astratto, un ostacolo per la contrattazione che svolge il sindacato. Tante volte abbiamo trattato nella convinzione di realizzare soluzioni che, nella contingenza, rappresentavano il meno peggio. Non ci siamo resi conto dei pericoli enormi che si stavano creando, seguendo questa logica, non abbiamo visto tutte le magagne che si sarebbero generate…


Berselli. Vuoi dire che spesso la cosiddetta riduzione del danno ha aperto la strada al danno peggiore?

Morsia. Sì, al dannissimo, per usare una parola che cerca di esprimere ciò che è avvenuto.

 

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Category: Scuola e Università

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