Ernesto Galli della Loggia/ Maurizio Matteuzzi: Chiudere alcune decine di università in Italia?

| 1 Luglio 2014 | Comments (0)

 

 

 

 

 

 

 

Pubblichiamo la replica di Maurizio Matteuzzi all’editoriale di Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera del 28 giugno che propone, per innovare il mondo della istruzione, della scuola e della cultura, di chiudere alcune decine di università in Italia

 

1.Ernesto Galli della Loggia: Ciò che Renzi ancora non ha

[Il Corriere della Sera 28 giugno 2014]

 

Non una battaglia contro agguerriti schieramenti politici ma lo scontro con pezzi importanti di società autonomamente in campo: ecco che cosa annuncia l’avvenire a Matteo Renzi. La sua azione di governo, infatti, se appare destinata in caso di successo a conquistare sempre più quote significative di elettorato moderato di tradizione anticomunista e al tempo stesso di elettori della sinistra radicale e di 5 Stelle — e dunque a garantirgli una relativa tranquillità nell’ambito del Parlamento e dei partiti — invece incontrerà presumibilmente un’opposizione sempre più forte a livello della società. Qui, infatti, tutto ciò che si sente minacciato di «rottamazione» — dalla burocrazia alle magistrature, dalle corporazioni professionali e sindacali alle vecchie oligarchie bancario-imprenditoriali, dai vari interessi protetti alle «cricche» che da decenni paralizzano e dissanguano il Paese — tutti questi pezzi di società costituiranno il vero, futuro nemico di Renzi.

La sua sarà più o meno la stessa situazione, sia pure con contenuti diversissimi, in cui venne a trovarsi vent’anni fa Silvio Berlusconi. Non a caso: dal momento che tanto quella di Berlusconi che quella di Renzi sono state nella sostanza due grandi operazioni di ridefinizione profonda della geografia politica del Paese, potenzialmente ostili verso i poteri tradizionali e in vista di una radicale frattura rispetto al passato.

Entrambe capaci di ottenere un immediato consenso elettorale, ma entrambe bisognose, per mettere radici e dare i loro frutti, di tradurre tale consenso — con ciò che di caduco ha sempre il consenso elettorale — in qualcosa di più solido e più ampio: cioè in un consenso ideologico-culturale, in un’idea-forza: la sola cosa capace d’indurre una società a cambiare davvero. Da sola capace di avere ragione degli interessi ostili.

Berlusconi non ha mai neppure intuito una tale necessità. Ha sempre pensato che per governare a lungo un Paese, addirittura per cambiarlo (come forse in qualche suo trasalimento iniziale pure si proponeva), bastasse vincerele elezioni. Si è visto il risultato.

Come invece in questo campo si muoverà il nuovo presidente del Consiglio nessuno può dirlo. Ciò che si può dire è che ancor più di quando dopo il terremoto di Tangentopoli la destra arrivò per la prima volta al potere, oggi l’Italia, proprio l’Italia che si è riconosciuta in Renzi, sente il bisogno di una svolta profonda, di cambiare regole e mentalità. Essa sente soprattutto il bisogno di ritrovarsi. Sfibrata dalla crisi economica e avvilita dai continui scandali, nel suo intimo anela a un soffio potente di aria nuova. Ma per far ciò questa Italia ha bisogno di riacquistare fiducia nel suo genio, di ricostruire un’idea del proprio significato e del proprio ruolo nel mondo, di alimentare la propria volontà e il proprio spirito cominciando con il riacquistare un rapporto con il proprio passato, e con ciò la consapevolezza delle proprie potenzialità. Anche per questo — sia detto incidentalmente — ha bisogno di più scuola, di diventare più istruita.

C’è una relazione profonda, infatti, tra il nostro declino degli ultimi venti anni e la circostanza che sì e no un italiano su due legga nell’arco di dodici mesi almeno un libro (un solo libro!), o che nella Penisola si registri ancora oggi un tasso elevatissimo di abbandono scolastico.

Ma la politica lo capirà? Capirà che perché muti il futuro deve mutare il passato? Che ad esempio ciò che oggi serve per cambiare la coscienza del Paese è innanzitutto una nuova narrazione dell’Italia? E capirà che essa non può sottrarsi al compito di impegnarsi in un’opera di direzione culturale in tal senso?

Certo, non bisogna scherzare con le parole; ma neppure averne paura. E dunque sì: una direzione culturale che veda la politica protagonista. Per carità: non si tratta di auspicare che questa detti la linea alla cultura stabilendo i contenuti delle sue produzioni, bensì che si muova con decisione lungo due direttrici. Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi in cui il maggior numero di cittadini possa fare esperienza delle immagini, delle idee, delle emozioni utili a far loro conoscere qualità e peculiarità del nostro passato come del nostro presente. Dall’altro lato chi governa non deve aver paura di manifestare gli obiettivi ideali e culturali, i valori — sì, i valori — cui legare direttamente il proprio impegno politico — oggi penso specialmente al merito, all’eguaglianza delle opportunità, all’identità nazionale, all’amore per la conoscenza — e impegnarsi a perseguirli adoperando in modo incisivo tutti i mezzi di governo che ha lecitamente nelle mani.

L’esecutivo dispone — direttamente o indirettamente, attraverso il finanziamento — di un imponente apparato di strumenti nel campo dell’azione culturale: dall’istruzione alla comunicazione, dall’editoria allo spettacolo. Strumenti che languono ingabbiati da leggi paralizzanti, oppressi da pratiche consociative e spartitorie ad uso di chi ci lavora o li usa per il proprio tornaconto, in mano spesso a cricche sindacali o a reti di veri e propri manutengoli. Gestiti il più delle volte da personale demotivato, affidati alla guida di esponenti politici o personalità intellettuali e professionali di serie B.

Da anni il ministro dell’Istruzione non s’interessa affatto di che cosa s’insegni ma al massimo di come. Si occupa in pratica di due cose sole: di come immettere nei ruoli decine di migliaia di precari, e d’introdurre lavagne luminose e aggeggi simili nelle scuole. In placida contemplazione della rovina del sistema dell’istruzione superiore, provocata dall’autonomia degli atenei e dalla mancanza di soldi, non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove.

Il ministero dei Beni culturali, dal canto suo, è stato fino ad oggi gestito burocraticamente (per la verità da un solo alto burocrate in veste di mammasantissima permanente); bene che vada riesce a mantenere in piedi alla meglio il nostro patrimonio, ma nulla di più. Da decenni in Italia non viene inaugurato un grande museo, una grande biblioteca, una grande istituzione di cultura di respiro nazionale, e a Roma, per esempio, si sono aperti ben due ridicoli musei di arte contemporanea (il Maxxi e il Macro) mentre con minore spesa poteva essere messo in sicurezza per sempre un tesoro inestimabile come la Domus Aurea. La Rai, dal canto suo, è da tempo immemorabile l’ombra di ciò che fu; mentre il cinema italiano, escluso qualche raro bagliore, è sempre più una commediaccia senz’anima che non sa più raccontare il Paese profondo. E mi fermo qui per non farla ancora più lunga.

Questo insieme d’organismi, tutti all’incirca alimentati in un modo o nell’altro dalla sfera pubblica e ad essa collegati, oggi vive solo per sopravvivere. Esso opera in maniera totalmente scoordinata, non obbedisce ad alcuna idea ispiratrice, non ha alcun progetto, non trasmette alcuna visione generale. Politicamente non serve a nulla. Si badi: politicamente non significa il governo in carica, significa la polis , la comunità dei cittadini. Significa che tutto questo insieme di organismi non serve al Paese, non lo aiuta a riprendere in mano il filo della propria storia, a ritrovarne il senso, e tanto meno a tracciarne le possibili proiezioni nell’oggi e nel domani. Le cose stanno così perché la democrazia è convinta che intervenire nel campo della cultura non possa che equivalere a un intervento comunque condizionante se non coercitivo. Pensa che se s’inoltra sul sentiero della cultura essa è condannata a seguire le orme dei totalitarismi. Ma ha dimenticato che nella sua stessa storia, nella storia della democrazia — per non dire di quanto fu capace l’Italia liberale nei primi decenni dopo l’Unità — c’è anche l’America di Roosevelt, con il suo straordinario fervore d’iniziative culturali pensate e volute da Washington, che furono tra i segni più significativi della rinascita degli Stati Uniti.

Pure in politica nulla si costruisce e nulla dura senza le idee, senza un’idea-forza. E le idee nascono dall’impulso a conoscere, a studiare, a pensare. Matteo Renzi è giovane d’anni ma appare un politico già sagace abbastanza per non capirlo.

 

 

2. Maurizio Matteuzzi: Satana e la logica

 

L’editoriale del Corriere del 28 giugno, a firma Galli della Loggia, fa esplicito riferimento al mondo dell’istruzione, della scuola, della cultura, come purtroppo raramente accade. A prescindere da alcune tesi assai discutibili e in certa misura bizzarre, come l’assimilazione di Renzi e Berlusconi, “sia pure con contenuti diversissimi”, il messaggio forte che il pezzo porge nel suo complesso è netto: ci vuole più cultura. L’Italia “ha bisogno di più scuola, di diventare più istruita”.

Come non rallegrarsene? Da operatori del mondo dell’istruzione non dovremmo far altro che gridare “evviva!”.

E tuttavia… Saltando l’amletica domanda che l’opinionista si pone, e cioè se Renzi “capirà che perché muti il futuro deve mutare il passato”, non per altro, ma perché la troviamo del tutto incomprensibile, persino Dio avrebbe qualche problema a cambiare il passato, troviamo poi un encomiabile rinforzo della tesi principale.

Come Renzi otterrà tutto ciò, ovvero più istruzione, più cultura? “Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi ecc.”.

Che cosa capisce l’incauto lettore? Che si devono aprire scuole, università, centri di ricerca. Che si devono incentivare i docenti, aumentare il numero delle borse di studio, cose così, no? Anche per riequilibrare la situazione, ben documentabile, che l’Italia è maglia nera dell’Europa e dei Paesi OCSE su diversi di questi parametri.

Ma ecco il traumatico passaggio dalla teoria alla prassi. Leggiamo poco oltre che il Ministero “non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove”.

Ecco dunque la ricetta salvifica: siccome c’è poca istruzione, allora chiudiamo “alcune decine” di università. La consecutio si commenta da sé. Fa il paio con quanto sostenuto poco prima, che “la rovina dell’istruzione superiore è provocata dall’autonomia degli atenei”; che senso ha?

Le università in Italia, per chi non lo sapesse, sono 76. Non sono le millanta che il mantra governativo sosteneva essere, a rinforzo dell’allora DDL 1905, poi tramutatosi ahinoi nella 240/10, o “legge Gelmini”. Ve li ricordate i berluscones, in aula, compitare a memoria tutti lo stesso slogan, la stessa falsità, che “in Italia ci sono troppe università”? Tutti in fila, uno dopo l’altro, a ripetere la stessa menzogna, dettata dalle esigenze di colui a cui erano al soldo. Qualcuno arrivò ad azzardare i numeri: 286 se non ricordiamo male. Invece no: sono 76, basta contarle. Ne dobbiamo chiudere, dice l’illustre opinionista, “qualche decina”. Capperi, quante ce ne lasciate? Almeno due o tre vogliamo tenerle?

La mania ossessiva di chiudere qualche università, di cui da sempre è affetto, per sua esplicita ammissione, il presidente del consiglio, evidentemente è contagiosa. E’ il costrutto di una logica ineccepibile. C’è poca cultura? Bene, il rimedio è presto detto: chiudiamo le università, mica una che ha demeritato, ma “a decine”. “Forse tu non pensavi ch’io loico fossi!”; così dice il diavolo al grande Poeta (Inferno, XXVII, 122-123

Qui, al paziente lettore che è arrivato fino a questo punto, ci corre l’obbligo di spiegare che cosa sono gli OFA. Premettiamo, per non creare allarmismi, che non sono una nuova tassa, come di solito avviene per le nuove sigle. Gli OFA sono “obblighi formativi aggiuntivi”. Da qualche anno sono in uso, presso molte delle nostre “mediocrissime” università. Si tratta di individuare le lacune, di solito di logica e di Italiano, dei neoiscritti. Chi non supera le prove OFA si ritrova ad avere debiti aggiuntivi, cioè a dovere seguire corsi di recupero, e sostenerne poi le prove finali; altrimenti, almeno così funziona in molti corsi di studio, non può accedere agli esami degli anni successivi al primo.

Bene, il “ragionamento” di cui sopra, sicuramente procurerebbe degli OFA di logica a un nostro studente. E sorge il dubbio che anche l’uso disinvolto di “mediocrissimo” procurerebbe rischi di altri OFA, di Italiano questa volta, in molte di quelle università che sono, appunto, “mediocrissime”.

 

 

 

 

 

 

 

 

Category: Scuola e Università

About Maurizio Matteuzzi: Maurizio Matteuzzi (1947) insegna Filosofia del linguaggio (Teoria e sistemi dell'Intelligenza Artificiale) e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: L'occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del second'ordine? (in «La regola linguistica», Palermo, 2000), Why Artificial Intelligence is not a science (in Stefano Franchi and Güven Güzeldere, eds., Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata to Cyborgs, M.I.T. Press, 2005). Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST (Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia. È tra i promotori del gruppo «Docenti Preoccupati» e della raccolta firme per abrogare la riforma Gelmini.

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