Alberto Cini: L’orientamento esistenziale – l’importanza di educare al “non essere”

| 2 Giugno 2025 | Comments (0)

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L’orientamento esistenziale – l’importanza di educare al “non essere”

L’orientamento esistenziale è un approccio educativo che invita a riflettere in profondità, sulla natura dell’esistenza e sulla nostra condizione umana. Al centro di questa prospettiva si trova uno stato “contemplativo osservativo” della vita, generalmente percepita come episodica, più precisamente somma di episodi di vario valore e significato. Questo modello però porta ad una percezione frammentata dell’esistenza e di  se stessi. Educare all’orientamento esistenziale deve essere alla base del “Progetto di vita”, che deve comprendere ma non ridursi solo a soddisfare i bisogni assistenziali e biologici della persona. Al “progetto di vita” si può integrare il “progetto esistenziale”, una modalità di concepire l’intervento educativo globale. 

L’educatore, se esperto in orientamento esistenziale diviene fondamentale nel favorire una comprensione approfondita delle diverse dimensioni dell’esperienza umana e darne significato. Comprendere le differenze tra “ruolo sociale”, “identità personale”, “io psichico” e “sé psicologico” permette di sviluppare un approccio educativo più consapevole e rispettoso delle complessità dell’individuo. Questo è fondamentale per focalizzare la direzione e i percorsi di vita. Ogni strada deve avere una direzione e un obiettivo, fosse anche quello di perdersi… e spesso è così.

La differenza tra i concetti psicologici di “ruolo sociale”, “identità personale”, “io psichico” e “sé psicologico” riguarda, come sopra citato, i differenti aspetti dell’esperienza umana. 

Il “ruolo sociale” si riferisce alle funzioni e alle aspettative che la società attribuisce a un individuo in un determinato contesto, come ad esempio il ruolo di insegnante o di genitore. È un aspetto esterno e relazionale dell’identità. 

L'”identità personale”, invece, riguarda la percezione di sé, come individuo unico, con caratteristiche, valori e ricordi propri, che permette di distinguersi dagli altri. 

L’io “psichico” è un concetto freudiano che indica la parte della psiche che media tra le pulsioni istintive (Es) e le richieste della realtà (Super-io), rappresentando la nostra coscienza e capacità di autogestione. 

Infine, il “sé psicologico” è un costrutto più ampio, che comprende l’immagine di sé, le convinzioni, le emozioni e le relazioni che una persona ha con sé stessa e con gli altri, rappresentando l’insieme della propria identità psicologica. 

Mentre il ruolo sociale è più esterno, l’identità personale e il sé psicologico sono aspetti più interni, e l’io psichico funge da mediatrice tra questi elementi. Il lavoro di elaborazione educativa al “non essere” comprende il portare a consapevolezza queste aree che spesso si sovrappongono, si confondono, entrano in conflitto. Riuscire ad armonizzare e addirittura trascendere queste parti è fondamentale. Poiché la “Coscienza”, o meglio il principio cosciente che le osserva, se appunto le osserva ovviamente non sei tu stesso medesimo. Come citano le primarie filosofie vediche, nello yoga ad esempio, Patangeli insegna a differenziare l’osservatore dall’osservato, e nel buddismo entrare nella natura dell’osservatore, fino a non trovare più nulla. Un vuoto esperienziale, “non concettuale” al quale richiamo la tendenza propria dell’educazione stessa che finita la formazione allo stato di ”essere” (qualcuno o qualcosa), successivamente può educare allo stato di “non essere”. passare dallo stato di espansione massima del sé della persona, allo stato di contrazione del sé. Lungo processo esistenziale in entrambe le direzioni.

Dopo tanta esperienza personale, ad esempio, di supervisione psicologica nel lavoro, di psicoterapia con il mio analista, e di lavoro sugli stati di coscienza nelle culture tradizionali, sono alla conclusione, che ogni intervento di un professionista, dall’assistente sociale allo psichiatra necessita di una “educazione al Sé”. Per alcuni può essere una “autoeducazione” avendone le competenze, per altri è necessaria la figura di un professionista, che io chiamo “Tecnico delle connessioni e dei valori”. Un educatore, che aiuti a realizzare, a digerire e trasformare la risorsa primaria, cioè le occasioni e le proposte di tutela, di crescita e di terapizzazione, delle altre professioni socio-sanitarie e psicologiche. L’educare all’orientamento esistenziale, significa sviluppare la capacità di osservare con distacco e senza giudizio, gli eventi che ci coinvolgono sia quotidianamente, sia quelli depositati nella memoria, ma anche trovare la forma di rappresentazione possibile per quella specifica persona, per dare la possibilità poi di essere assimilata, “significata”, e creativamente costruire con quel materiale gli strumenti per affrontare l’esistenza. Ogni nutrice cucina gli elementi semplici per favorire l’assimilazione e successivamente insegna a cucinare. Così sarebbe l’analogia metodologica con l’arte di educare alla vita.

Prendere le distanze dagli eventi, non per fuggire ma per fare esperienza di elaborazione, significa non lasciarsi travolgere dalle emozioni o dai dettagli momentanei, ma adottare una prospettiva più ampia, che permette di vedere il quadro complessivo e di comprendere il senso più profondo delle esperienze vissute. 

Questa attitudine favorisce una maggiore consapevolezza e una maggiore serenità nell’affrontare le sfide della vita. Una delle competenze base dello svolgere nell’educazione esistenziale, è quella “regressione” (se la si può chiamare così) ad uno stato consapevole di possibile “assenza identitaria”. Una progressione a ritroso dell’accumulo di ruoli, che l’inserimento ed integrazione dell’individuo nella società necessita per stabilire, sia la dinamica organizzativa sociale, sia nell’ambito funzionale dei sistemi di comunicazione, simbolici e produttivi. 

Questo processo è ritenuto un percorso poco battuto, a volte identificato come mistico spirituale e non prassi di di ricerca psicologica comune, soprattutto nelle categorie delle fragilità, o nelle persone comuni dove il ruolo sociale diviene una risorsa dell’io, un processo strutturante e quindi di sicurezza. Mentre la mancanza di una identità viene dichiarata come possibile psicopatologia. 

Il processo educativo invece verte proprio sulla metafora teatrale dei ruoli e delle identità, cioè attivare in sicurezza nella relazione educativa, un allontanamento dalla realtà che ci circonda, sia interna che esterna, per comprenderla (latino cum-prehere, prendere dentro) e non per “perderla”. 

La paura di perdere la sicurezza, che i processi di crescita della personalità conseguono, è un processo psicobiologico che sta alla base della spinta alla sopravvivenza ma non necessariamente al processo di “coscientizzazione” di sé. Conoscere se stessi è conoscere “tutto”, perché tendi a conoscere (ovviamente nel possibile, quindi meglio pensare al termine “ampliare i livelli di conoscenza”) come impatta il “tutto” sul sé percipiente (volutamente non scrivo “percettivo” che ritengo un termine troppo meccanico poco soggettivo del percepire).

Per tornare alla perdita dell’identificazione di sé con i vari ruoli sociali e personali, che la vita ci impone, diviene un passo importante in questo percorso educativo. Spesso ci identifichiamo con il ruolo di lavoratore, genitore, amico o con altri aspetti della nostra identità, e questa identificazione, può limitarci o causare sofferenza, quando tali ruoli cambiano o vengono meno. Oppure vengono malamente interpretati e gestiti. Sviluppare un senso di sé più autentico e meno vincolato ai ruoli permette di vivere con maggiore libertà e autenticità.

La riflessione sulla perdita dell’identificazione con i ruoli sociali e personali, come evidenziato nel percorso di Marc Epstein e nel contesto della psicologia positiva, evidenzia un tema centrale: la ricerca di un senso di sé più autentico e duraturo. Epstein, noto per le sue teorie sulla continuità del Sé e sul benessere, sottolinea l’importanza di sviluppare un senso di identità che non sia strettamente vincolato ai ruoli esterni, poiché tali ruoli sono soggetti a cambiamenti e possono causare sofferenza quando si dissolvono o si trasformano. In ambito di apprendimenti relazionali educativi al sé, si cerca di cristallizzare la personalità sempre meno, creando setting dove i vari ruoli si possono interpretare e conoscere, scambiarseli di momento in momento o di funzione in funzione. Provando vari ruoli comunitari, attraverso la “dissonanza cognitiva” che necessita per elaborare le differenze, la personalità evolve, proprio perché non si abitua a vedersi sempre uguale. Quindi ci rimane un nucleo che sostiene appunto le varie identità momentanee. Ma provare solo la sensazione, non di passare da una forma all’altra, ma di spogliarsi delle forme è un’altra cosa.

Nel quadro della psicologia positiva, questa prospettiva si collega alla valorizzazione delle risorse interiori, e alla capacità di vivere nel presente, favorendo un senso di sé più stabile e resiliente. La continuità del Sé, secondo Epstein, si riferisce alla percezione di un Io coerente nel tempo, che permette di mantenere un senso di stabilità e di identità autentica anche di fronte alle trasformazioni della vita.

Sviluppare questa continuità significa coltivare una consapevolezza di sé, che va oltre i ruoli temporanei e sociali, riconoscendo il proprio valore intrinseco e la propria essenza. Questo approccio aiuta a vivere con maggiore libertà, riducendo l’identificazione e la sofferenza legate alle aspettative esterne, e favorisce un’esperienza di vita più autentica e soddisfacente.

La riflessione proposta, richiama l’importanza di sviluppare una continuità interiorizzata, che permetta di riconoscere e coltivare un senso di sé che trascende i ruoli temporanei e sociali. Questa consapevolezza di sé, che va oltre le maschere e le aspettative esterne, favorisce un’esperienza di vita più autentica, libera da condizionamenti e sofferenze inutili.

Nel contesto della vita contemplativa, come suggerito da Miguel Benasayag, si evidenzia la necessità di un percorso di introspezione e di presenza che permette di scoprire la propria essenza profonda, oltre le “passioni tristi” e le passioni che spesso dominano l’epoca contemporanea. Benasayag sottolinea come la possibilità di funzionare o semplicemente di esistere rappresenti due modalità differenti di relazione con sé stessi e con il mondo, dove la prima può essere vista come un’azione automatica, mentre la seconda implica una consapevolezza più profonda e una presenza autentica.

L’epoca delle passioni tristi, termine che richiama anche il lavoro di Byung-Chul Han, indica un tempo in cui le emozioni sono spesso dominate da sentimenti di insoddisfazione, alienazione e tristezza, derivanti dalla mancanza di un vero senso di sé e di un’autentica connessione con la propria interiorità. Coltivare la consapevolezza e la vita contemplativa può essere un antidoto a questa condizione, favorendo un’esistenza più ricca, significativa, e libera da dinamiche di sofferenza imposte dall’esterno.

In sintesi, sviluppare questa continuità interna e praticare una vita contemplativa può portare a una maggiore libertà esistenziale, aiutando a riconoscere il proprio valore intrinseco e a vivere in modo più autentico, non più schiavo delle passioni tristi o delle aspettative sociali. 

Queste tensioni di ricerca esistenziale, sono conosciute da remoto tempo nella cultura umana. Non a caso Byung-Chul Han cita il concetto di Shabbat ebraico come aspetto esistenziale di sospensione dall’agire, momento di valorizzazione dell’essere sul fare, lo vediamo nella pedagogia del “saper essere e del saper fare”, nel concetto di Fromm “dell’essere e avere”, in quella contemplazione naturale che necessita della visione olistica, più totale possibile dei fenomeni. Così tale, da potersi “riorientare”, non solo in maniera cognitiva, ma appunto in maniera olistica. 

La neuroscienza ha già dimostrato l’importanza della connessione tra apparato cerebrale, cardiaco e viscerale, nelle scelte anche di tipo esistenziale e non solo come problem solving intellettivo. 

Anche questa connessione organica che diviene corpo, emozione, cognizione integrata, ha bisogno di uno stato esistenziale differente da quelli quotidianamente sperimentati. 

Questa è la ragione della diffusione delle pratiche di meditazione scientifiche dimostrate dagli esperimenti sulla plasticità neurale. 

Di queste pratiche di “coscientizzazione” di sé, erano già note nelle culture di tradizione antica. Meditazione non solo come pratica odierna, di derivazione new age, ma come strumento educativo, cioè metodologico relativo ad un’azione, un fare pedagogico funzionale all’educazione della persona. Meditazione come aspetto Husserliano di pratica di Epochè. 

L’educazione esistenziale e il progetto di vita sono quindi fondamentali soprattutto per i giovani perché favoriscono uno sviluppo più consapevole, autentico e resiliente. Una visione dell’educazione come trascendenza possibile a tutti, democratica e non riservata ai ricercatori filosofici e adepti spiritualisti. 

L’educazione esistenziale aiuta i giovani a riflettere sul proprio essere, sui valori, le passioni e gli obiettivi di vita, facilitando la costruzione di un’identità solida e autentica.
Diviene sicuramente una promozione della creatività, Un approccio esistenziale che stimola la capacità di pensare in modo critico e originale, incoraggiando i giovani a esprimere la propria individualità e a trovare soluzioni innovative ai problemi.
L’educazione esistenziale comprende la gestione del cambiamento. La vita è fatta di continui mutamenti e sfide. L’educazione esistenziale prepara ad affrontare l’incertezza, adattarsi e vedere il cambiamento come un’opportunità di crescita.
Comprendere il proprio progetto di vita e i propri valori, aiuta i giovani a superare le difficoltà, rafforzando la capacità di resistere alle avversità e di riprendersi dopo le crisi. Una resilienza che arriva dal relativizzare successi e sconfitte del ruolo, visto dall’occhio di un sé trasversale e onnipresente.

L’educazione esistenziale all’essere e paradossalmente, l’educazione al “non essere” insieme al progetto di vita, sono strumenti potenti per accompagnare i giovani e i non più giovani, nel loro percorso di crescita, poiché si cresce sempre fino al momento della morte biologica, rendendo ogni persona più creativa, resiliente e capace di affrontare con consapevolezza e determinazione qualsiasi aspetto, insito nel suo percorso futuro.

Category: Psicologia, psicoanalisi, terapie

About Alberto Cini: Alberto Cini nasce a Bologna nel 1960, lavora come Educatore Professionale e Formatore, presso la cooperativa C.S.A.P.S.A in servizi rivolti all’handicap e all’adolescenza. Specializzato in Psicodramma con i terapeuti argentini Prof. Roberto Losso e Prof.ssa Ana Packciarz de Losso, è conduttore di laboratori espressivo teatrali, di scrittura creativa e grafico pittorici. Diplomato in massaggio tradizionale, shiatzu e massaggio aiurvedico, si specializza sull’approccio solistico alla persona. Ha pubblicato due raccolte di poesie, “Il fiore d’acqua” e “Le tre sfere”, stralci delle sue opere inedite si trovano sulla rivista di poesia “Versante Ripido”, per la quale disegna vignette satiriche e opere di contatto tra poesia e disegno grafico. Artisticamente viene educato all’arte dalla pittrice Bianca Arcangeli, sua insegnante e con la quale ha mantenuto un costante rapporto di condivisione e di confronto. Questo primo approccio lo influenza particolarmente sul rapporto tra parola e segno, tra la poesia e la pittura. Sensibile agli aspetti formativi e pedagogici dell’espressione artistica approfondisce il simbolismo della forma e del colore, l’arte terapia, terapie non convenzionali e tecniche di sviluppo della persona con il filosofo indiano Baba Bedi che frequenta per vari anni nella sua casa milanese. Non percorrendo formazioni accademiche approda alla scuola dello scultore Alcide Fontanesi, col quale comincia un lungo apprendistato formativo sull’espressionismo astratto. Le sue opere sono presso la galleria d'arte Terre Rare di Bologna

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