Valerio Romitelli: L’egemonismo, malattia senile del comunismo. 12 punti di discussione

| 9 Novembre 2015 | Comments (0)

 

 

Questo testo è indirizzato anzitutto a comunisti dubbiosi se non a post-comunisti, come io stesso mi ritengo: sempre col desiderio di una ripresa di qualcosa di simile ad alcune delle esperienze politiche condotte in nome del comunismo, ma convinto anche che tale ripresa non possa avvenire se non in netta discontinuità con l’insieme di queste esperienze.

Niente a che spartire dunque coi “sempre fedeli” al comunismo inteso come necessario esito della storia della lotta di classe. Ma anche scarse sintonie col comunismo interpretato ( da Badiou) come idea filosofica risalente addirittura a Platone. Meno che mai del resto accolgo la tesi (post-operaista) secondo cui il comunismo non sarebbe che espressione della potenza ontologica della “moltitudine” e delle sue lotte per “beni comuni”.

 

La domanda di fondo che mi pongo qui è la più ovvia, tanto ovvia che oramai si preferisce evitarla, vista l’impossibilità di rispondervi in modo soddisfacente. Ovvero: cosa c’è da ripensare e cosa da dimenticare di tutte quelle esperienze politiche che sono cominciate dopo Il Manifesto del 1848, continuate con alti e bassi per più di un secolo e che, infine, hanno perso del tutto o in buona parte credibilità attorno al 1989, col disfarsi dell’Urss, dei partiti suoi “fratelli” e la conversione capitalista della Cina?

Capisco che il solo porsi tale enigma può risultare presuntuoso. Il pulpito dal quale ce se ne potrebbe attendere lo scioglimento infatti non esiste. E non esisterà finché non si daranno nuove esperienze politiche all’altezza dell’universalità di quelle che hanno reso credibile il comunismo. Ma ciò non toglie che si debba rinunciare a riflettere su questa domanda impossibile, prendendo tutti i rischi del caso. Solo insistendo a rimuginarvi si può sperare di non restare spiazzati e sordi di fronte alle possibilità di queste nuove esperienze politiche.

Più in particolare questo testo mira ad affrontare i seguenti interrogativi.

Quando la sperimentazione comunista ha ottenuto i suoi maggiori successi? Cosa li ha resi possibili? Cosa ha minato questi successi fino a farli svanire? Quali potrebbero essere i compiti teorici e pratici per tentare di riprendere esperienze simili a quelle che hanno reso universalmente credibile il comunismo? Dove, da questa angolatura, stanno le principali novità del nostro tempo?

 

1 QUANDO MEZZO MONDO ERA ROSSO

Basta dare un’occhiata alla mappa del globo risalente solo ad una trentina di anni fa per  accorgersene: il momento di maggior successo planetario del comunismo risale al secondo dopoguerra. Dal 1948, infatti, mezzo mondo era “rosso” e nell’altra metà pullulavano organizzazioni e movimenti che volevano in un modo o in un altro seguirne l’esempio.

È solo un caso fortuito che questi stessi trent’anni tra il ’45 e il ’75 siano stati definiti “anni gloriosi” o “età dell’oro” del capitalismo? Prima di rispondere val la pena di ricordare che questa è stata comunque un’epoca straordinaria, fatta di fenomeni inediti, quali: salari alti, scolarizzazione di massa, riduzione delle differenze tra ricchi e poveri, creazione del ceto medio, decolonizzazione dei paesi allora detti in “via di sviluppo”, lotta al neocolonialismo nascosto sotto tale decolonizzazione, costituzione di polo di “paesi non allineati” e così via. Il mondo, si può dire, ha mai conosciuto, né prima , né dopo, un paragonabile momento di giustizia sociale montante. Se l’ingiustizia sociale che oggi invece trionfa ovunque (anche tra i Bric, paesi già poveri e ora in via di arricchimento)  trova ancora qualche argine è solo perché non sono state ancora completamente smantellate le conseguenze di questi “anni gloriosi”.

Chi si bea solo nell’osannare o viceversa nel criticare il capitalismo tiene a sostenere che una simile formidabile epoca non fosse dovuta ad altro che alle condizioni economiche, le quali si sarebbero rivelate particolarmente favorevoli nel secondo dopoguerra. Constatazione, questa, indiscutibile, ma del tutto riduttiva rispetto all’incomparabile eccezionalità di quegli anni tra il ’45 e il ’75. Ben diversamente, se si è convinti che il comunismo non sia stato solo un’ideologia utopica non si può credere la sua massima espansione sia venuta invano. Sta di fatto che “i trent’anni gloriosi del capitalismo” corrispondono esattamente a quelli che si potrebbero chiamare  anche i “trent’anni gloriosi del comunismo”. Si tratta in effetti di una coincidenza singolare, mai abbastanza meditata. E ciò anche grazie ai “marxiani” più duri e puri che si soddisfano solo quando riescono a dimostrare che anche il comunismo dei paesi socialisti non era che capitalismo nascente travestito.

 

2 I MERITI DELL’ANTICOMUNISMO

Per tentare invece di pensare questa coincidenza giova ricordare l’importanza strategica, e non solo emozionale e occasionale, che nel secondo dopoguerra  ha acquisito l’anticomunismo;  ossia  le paure quanto mai diffuse  e cogenti di fronte all’allora prorompente avanzare del comunismo. È a tali paure, alla loro promozione e alle loro conseguenze politiche e geopolitiche che sono convinto vada riconosciuto un merito impareggiabile:  il merito di aver moderato quell’avidità che sempre è stata e sempre sarà il motore della ricerca del massimo profitto, dunque del capitalismo.

Starebbe dunque negli incubi prodotti dall’avanzare del comunismo  il segreto di questa epoca straordinaria tra il ’45 e il ’75. Se si prescinde da tali incubi non c’è infatti causa economica capace di spiegare come mai in questa sequenza si potevano vedere i più ricchi e potenti non azzardarsi sempre e comunque a vessare ad oltranza i più poveri e deboli, ma invece adoperarsi anche a blandire questi ultimi concedendo loro in parecchi significativi casi condizioni e opportunità di una vita migliore. La storia del Welfare State non comincia certo in questi anni, ma mai era giunta picchi tanto elevati. In quale altra stagione storica si è mai potuto sentire  un ministro  inglese addirittura garantire ad ogni suddito della Regina tutto l’occorrente per sopravvivere  “dalla culla alla bara” ?  Quando mai si sono visti in Occidente realizzarsi piani sociali così sistematici quali quelli progettati sotto la direzione di Beveridge e di Marshall.

Che sia stata proprio la paura  del comunismo a frenare gli altrimenti insaziabili appetiti del capitalismo è dimostrato per altro dalla stessa fine dei “trent’anni gloriosi”: una fine che coincide esattamente con quella metà degli anni ’70 alla quale si può far risalire l’inizio della più grande crisi della credibilità universale del comunismo. Perché sia andata proprio così, perché sia proprio stato in quegli anni ’70  che il comunismo ha cominciato a dividersi e divenire meno convincente, non è mai stato chiarito. Ne riparlerò tra poco. Assai chiaro è invece che allora gli “spiriti animali” del capitalismo hanno  molto precocemente intuito l’incipiente declino dell’ossessione che per trent’anni aveva loro tolto il sonno. Dalla seconda metà degli anni ’70 ha inizio infatti  l’erosione  del terreno politico già conquistato da tutti gli Stati, partiti, organizzazione e movimenti che in vari e anche spesso contrapposti modi si richiamavano più o meno direttamente al  comunismo. È così dunque che da quant’anni in qua questa erosione  non si è più arrestata a livello globale, in modo più o meno intenso a seconda delle situazioni e delle circostanze locali. Ed è così che la storia sta regredendo al tempo in cui fu scritto Il Manifesto, se non ancora prima, quando otto ore di lavoro giornaliero  dignitosamente retribuito erano solo un miraggio.

La domanda allora è: come mai il massimo apogeo del comunismo raggiunto negli anni ’70 è stato seguito, negli anni ’80,  dal suo più rapido tramonto?

 

3 LEGARSI ALLE MASSE

Una distinzione può giovare nella ricerca di risposte a questo riguardo: la distinzione tra due modi di intendere il comunismo emersa tra gli stessi comunisti proprio nel corso di questi anni e più in particolare attorno al ’68. Esempi più clamorosi di questa divergenza sono chiaramente attestati sia dal conflitto che oppose l’ Urss alla Cina della rivoluzione culturale sia dai conflitti che ovunque opposero i movimenti e le organizzazioni “del ’68” ai partiti di tradizione filosovietica. Che altro è stato se non proprio questa lotta intestina, durata per circa un decennio, a cavallo del ’68, ad avere estenuato la credibilità universale del comunismo? In effetti, credo sia stato proprio l’esaurirsi senza vincitori, né vinti, di queste campali battaglie interne al comunismo ad avere predisposto il terreno a quello che poi è diventato il nostro presente, contraddistinto com’è dalla ripresa alla grande dell’ingiustizia sociale a livello planetario.

Approfondire il contenuto di queste lotte intestine è dunque tutt’oggi decisivo anche solo per avvicinarsi alla questione tanto teoricamente impossibile, quanto praticamente inevitabile di un bilancio del comunismo.

A tal scopo, ecco una proposta di riflessione, tra le tante possibili. Al suo centro pongo la classica quanto enigmatica questione dei “legami con le masse”; cioè dei legami tra l’organizzazione politica e le masse. Ove, senza girarci troppo attorno, dirò che con “legami” qui intendo dei rapporti di fiducia e fedeltà, mentre con “masse” le popolazioni decisive in una data sequenza politica. È attorno a tali termini che sono in effetti gravitati molti dei conflitti tra comunisti degli anni ’60 e ’70 . Ed è sempre di fronte alla loro irrisolta enigmaticità che continuano a cozzare molti tentativi di ripresa di politiche che, preferendo eludere la questione del bilancio del comunismo, si accontentano di chiamarsi “di sinistra” con tutte le confusioni che ciò comporta. – Ogni riferimento a Syriza e al suo disinvolto tacere su promesse mancate non è puramente casuale.

Che tipo di legami con le masse ha permesso al comunismo di divenire universalmente credibile? Come mai nel momento di massimo successo ha cominciato a perderli? e come li ha persi così rapidamente? Questi alcuni interrogativi ora affrontati.

 

4 LEGAMI INTERNI E LEGAMI ESTERNI

È quasi tautologico dire che se il comunismo ha avuto successo nel mondo intero era perché aveva saputo legarsi alle masse.  Anche del nazismo può dire quasi lo stesso.

Per sbrogliare la matassa la distinzione oggi tassativamente obbligatoria sarebbe quella tra democrazia e dittatura; ossia tra legami democratici supposti liberi e legami di sottomissione ad una dittatura. Ma se si mantiene ancora almeno un minimo di rispetto intellettuale per il comunismo occorrerebbe ricordarsi che in suo nome è stata del tutto svalutata simile distinzione. Da Marx in poi, infatti, i suoi seguaci hanno sempre dato per scontato, ad esempio, che la democrazia tanto rivendicata dai capitalisti non serve che a nascondere la realtà della loro dittatura, mentre per rompere questa dittatura nascosta non c’è che da instaurarne un’altra, di dittatura, per di più del tutto esplicita e volta ad assicurare la maggiore democrazia possibile. Insomma, una visione così dialettica di queste due forme di regime, da renderle reciprocamente compatibili.

Per differenziare radicalmente i possibili di modi di “legarsi alla masse”, senza dimenticare del tutto la lezione comunista, occorre dunque cercare altrove.

La mia ipotesi è che le cose riguardo a questo argomento sono meno confuse se si opera un’altra distinzione: quella tra legami interni, o diretti, e legami esterni, o indiretti. In generale, si dirà allora che i legami interni  con le masse si stabiliscono quando v’è tra loro e i militanti politici un incontro reale, diretto; mentre vi sono legami esterni quando i militanti politici ricorrono all’implementazione  o alla riduzione dello stato dei legami (giuridici, comunicativi o più genericamente sociali)  già esistenti tra le masse.

Qui si può riconoscere un nucleo concettuale decisivo della classica diatriba tra rivoluzionari e riformisti, che non ha solo diviso comunisti e socialisti, prima e dopo l’ottobre ’17, ma che si è posta anche tra gli stessi comunisti, specie attorno al ’68 . L’alternativa tra rivoluzione o riforme si fonda in effetti sull’opposizione tra rottura o evoluzione dei legami giuridici, economici e sociali garantiti dallo Stato: i rivoluzionari essendo notoriamente per la rottura, i riformisti per favorirne l’evoluzione progressiva. Una diatriba questa che, nelle svariate situazioni concrete in cui si è svolta, ha avuto sempre al centro questioni di priorità:  stabilire se prima venisse il legame diretto tra  militanti e masse o se invece fosse prioritario che militanti sapessero agire nel rispetto dei legami già esistenti tra le masse.

Il più classico esempio di tale questione è quello rappresentato dalla fatidica rivoluzione dell’ottobre ’17 in Russia. Al di là dei miti apologetici o denigratori ricordiamo l’essenziale? Lenin vuole l’insurrezione talmente da solo da dovere minacciare le proprie dimissioni in caso contrario. Tutti gli altri bolscevichi inizialmente non sono invece d’accordo perché vogliono attendere l’imminente riunione dei soviet per ricevere da essi la legittimità di compierla. Essi cioè vedono come prioritario il rispetto dei legami stabiliti tra bolscevichi e soviet. Lenin invece no. Perché? Fondamentalmente per due ragioni. Una, tattica: perché teme prevalga tra i soviet un voto contrario all’insurrezione. Un’altra, strategica:  perché considera l’immediata presa del potere l’unica condizione per stabilire legami con le crescenti rivolte contadine, in procinto secondo lui di gettare nel caos tutta la Russia già stremata dalla guerra in corso.

Per quante favole si siano accumulate su questo episodio resta che è dal successo così ottenuto allora da Lenin che è dipeso tutto il successivo destino del comunismo. La presa del potere governativo già di Kerenskij è stata infatti la condizione per quei trattati di Brest-Litovsk che a loro volta sono stati la condizione perché il mondo intero riconoscesse nei bolscevichi, nella loro organizzazione, nella loro dottrina, gli unici fattori capaci di portare pace in quell’inferno senza fine che si stava dimostrando essere la Grande Guerra.

Se è dunque così che il comunismo è potuto divenire un protagonista assoluto del XX secolo (inducendo anche a imitazioni perverse come fascismo e nazismo) è sempre cruciale riflettere sul fatto che il colpo d’ala all’origine di tale successo sia consistito in una rottura dei legami esistenti con le masse ( quelle rappresentate dai soviet) allo scopo di instaurare direttamente nuovi legami con le masse ( quelle dei contadini in rivolta) fino ad allora trascurate.

Si potrebbe a continuare chiedendosi fino a che punto l’edificazione dell’Urss sia avvenuta o meno in legame con le masse (di quello stesso paese e del mondo intero), perché nei Partiti della III internazionale siano contati di più i legami con l’Urss che quelli con le masse del proprio paese, come la “grande guerra patriottica” contro l’invasione nazifascista sia riuscita a riannodare quei legami delle masse col comunismo che il patto Molotov-Ribbentrop aveva gravemente compromesso, quanto la “lunga marcia” in fuga dai Giapponesi ma anche dai consiglieri del Comintern abbia forgiato dei legami tutto sui generis tra masse e comunisti cinesi, e così via. Ma la si farebbe troppo lunga.

Di sicuro, ci sono due passaggi che mi paiono decisivi per capire il tipo di legami tra masse e comunismo che sono prevalsi nel secondo dopoguerra.

 

5 PRIMA DI TUTTO, LEGALITÀ E COMUNICAZIONE

Il primo passaggio è quello della Costituzione del Urss nel ’36, seguito alle grandi purghe. Allora Stalin proclama in effetti che il primo legame tra le masse sovietiche, dunque anche tra masse e Partito, è simile a quello di tutti gli altri Stati esistenti: giuridico, fissato da leggi e decreti all’interno di istituzioni anch’esse giuridicamente definite. Così la fedeltà degli altri partiti comunisti alla “patria del proletariato” è ingiunta a divenire irreversibilmente fedeltà alla politica estera dello Stato sovietico.

Il secondo passaggio è rappresentato dalla creazione del  Cominform nel ’47 seguita qualche anno dopo la dissoluzione del Comintern. Un episodio questo che di per sé può certo apparire secondario, ma che  invece trovo abbia una notevole rilevanza, se non altro sul piano  simbolico. Perché? Perché viene sancito che l’informazione, dunque la comunicazione, diviene il terreno prioritario d’intervento dei comunisti. Così si attesta una profonda trasformazione anche in ciò che fino ad allora si chiamava propaganda e che era considerata uno dei primi strumenti per legarsi direttamente alle masse. Dire nel ’47 che la propaganda la si fa anzitutto con l’informazione, dunque attraverso la comunicazione, significa infatti introdurre una nuova priorità: quella delle opinioni, del senso comune, del consenso. Se fino ad allora la dottrina del comunismo si era sempre presentata controcorrente, capace di rivelare ciò che restava nascosto nella comunicazione corrente, dunque nello scambio delle informazioni, l’istituzione del Cominform attesta una svolta: quella di un comunismo che accetta di subordinarsi ai vincoli della circolazione delle opinioni su scala planetaria. Da questo punto di vista legarsi alle masse significherà sapersi legare alle loro opinioni per guadagnarne il consenso. Va da sé: anche a costo delle più sfacciate menzogne, quali quelle raccontate, ad esempio, in Italia durante la guerra da un tal Mario Correnti, pseudonimo di Togliatti, e dal comitato di redazione da lui diretto, i quali trasmettevano da una sedicente Radio Milano Libera, in realtà con sede prima a Mosca poi tra gli Urali.

Ora il fatto è che per quanto se ne voglia dire male occorre riconoscere che  questa duplice svolta giuridica e comunicativa in parte funziona. Ad essa infatti si deve non poco del successo planetario incassato dal comunismo nel secondo dopoguerra. Ma ciò che allora premia il comunismo non è certo la sua tradizionale prospettiva di egualitarismo ad oltranza, ma è il suo presentarsi di fronte all’opinione mondiale come insieme di Stati giuridicamente fondati, del tutto simili a quelli capitalisti,  con la sola variante di volersi meno classisti degli altri, più egualitari e per di più vincenti, all’offensiva, in espansione ovunque. Il risultato maggiore è allora quello su cui mi sono già dilungato: quello di intimorire la controparte capitalista, di costringerla alla difensiva, di persuaderla alla moderazione, pena la perdita di quel consenso che da sempre ne era stato il punto di forza. È proprio in virtù di questo suo effetto deterrente che il comunismo riesce a legare più che mai con le masse, ma anche a farlo in un modo più che mai esteriore. Frase simbolica dell’epoca è quel famoso “addavenì baffone!” che evoca una immagine di Stalin amata anzitutto per il terrore che poteva suscitare sui nemici di classe.

 

6 COMUNISMO VS COMUNISMO

Diversamente dovevano certo pensare le masse dell’Urss e degli altri paesi socialisti, tant’è che già dal ’54 nella Germania dell’Est esplodono le prime rivolte operaie. Ma è negli anni ’60 che comincia a divenire chiaro cosa non andava in un comunismo tutto dedito a farsi valere sullo stesso terreno comunicativo e legale della controparte capitalista. In effetti quello che i movimenti e i gruppi sorti prima, durante e dopo il ’68 imputavano ai comunisti di partito era di avere trascurato i legami diretti con le masse all’interno dei luoghi di oppressione e sfruttamento. Di qui nasce l’operaismo italiano, al seguito di Panzieri e i Quaderni rossi. Di qui viene il fenomeno di giovani militanti che per legarsi direttamente alle masse entrano in fabbrica come operai. Di qui prende avvio lo sciamare nelle campagne delle Guardie rosse in Cina. Per citare solo pochi esempi.

Ma perché da questo universale, molteplice e variegato sforzo di ristabilire dei legami diretti con le masse non è uscita l’auspicata rigenerazione del comunismo? perché ne è venuto solo un tracollo della sua credibilità universale?

Badando solo al caso italiano si potrebbero imputare non poche colpe al terrorismo tra gli anni ’70 e ’80 che ha portato alle ultime conseguenze l’idea che per legarsi alle masse il modo migliore fosse terrorizzare i loro nemici. Che parte delle Br fosse composta da stalinisti del Pci la dice lunga. Tale esempio, benché nostrano, ben attesta qualcosa di maggior portata  su cui vale la pena di riflettere. Il fatto che tra i partiti comunisti di tradizione sovietica e i giovani comunisti ribelli del “’68”, malgrado le loro acerrime dispute, sono sempre restati alcuni fondamentali presupposti condivisi. La mia ipotesi è che sia stata proprio questa condivisione a inibire quella rigenerazione del comunismo che attorno al ’68 sembrava possibile.

Esaminarli non trovo sia solo un’operazione archeologica, ma credo riguardi quanto mai il presente. Sono convinto infatti che questi presupposti inibitori di un rinnovamento politico della tradizione comunista, lungi dal tracollare negli ’80 assieme con la credibilità di quest’ultima, continuino a riproporsi tutt’oggi in qualsiasi tentativo di politiche più “di sinistra”. I prossimi tre punti sono dedicati a tali presupposti.

 

7 UN’IRRISOLTA QUESTIONE DI PRIORITÀ

Notoriamente per rivoluzionari quali i comunisti il problema non è mai stato il “se”, ma il ” quando”: non se prendere il potere, ma quando. Ove il quando si suppone sia riconoscibile nel momento in cui sono riunite le forze e le condizioni perché la presa del potere avvenga con successo. Tra queste condizioni ci sono sicuramente i legami con le masse, ma essi in tale prospettiva evidentemente sono considerati strumentalmente, in funzione di un obiettivo che è posto a prescindere da essi. Ciò è confermato più che mai dalla definizione data dal materialismo storico e dialettico del comunismo come predestinato gran finale della storia “finora conosciuta” e inizio di una nuova.

Lo stesso Marx, però, si è trovato spesso a dover combattere degli impazienti, Quelli che il potere lo volevano al più presto. Contro di essi egli ha sostenuto che per rendere atto il proletariato alla presa del potere occorreva un’educazione così lunga che avrebbe dovuto richiedere decenni. Da allora in poi, le dispute tra supposti avventuristi e supposti attendisti sono divenute un classico di tutta la storia dei comunisti.

Ma il nucleo della questione non riguarda il calcolo delle opportunità tattiche, più o meno prudente o più o meno temerario. E non riguarda neanche quella dialettica tra la “base” meno cosciente e il “vertice” più cosciente che era considerata inevitabile tra i socialisti della II Internazionale.

Più profondamente, in gioco c’è l’alternativa tra due diverse prospettive strategiche: una che ritiene prioritaria la presa del potere perché solo col potere si suppongono realizzabili misure universali di giustizia sociale ( così come dice recentemente lo stesso Antonio Negri); l’altra che ritiene invece prioritario  il legarsi con le masse in quanto si suppone i militanti non abbiano altro modo di capire che rapporti tenere col potere ed eventualmente quando sia il caso di tentare di prenderne in parte o in toto. Nel primo caso, i legami con le masse restano strumentali, subordinati rispetto all’imperativo della presa del potere, mentre nel secondo caso sono i legami con le masse che diventano il fine, relegando  l’eventuale presa del potere a mezzo per mantenere questo fine. Siamo dunque di nuovo di fronte alla già qui segnalata duplice opzione: se privilegiare i legami esterni, indiretti, con le masse o privilegiare quelli diretti, in interiorità.

Ma che significa assumere i legami con le masse come fine, e non come mezzo? Significa dare la priorità all’unione e all’organizzazione delle masse a partire dalla loro stessa realtà. Una realtà che è del tutto diversa da quella su cui il potere si esercita. Un conto è infatti decidere della vita di infiniti altri ( come fanno i detentori di ciò che si chiama “potere”) e un conto è faticare a decidere della propria ( come accade tra ciò che chiamiamo “masse”). Se si ammette questa duplice realtà, si comprende che il legarsi alle masse ha in se stesso la creazione di un’altro potere diverso da quello esistente: un potere di massa, fatto di chi non ha potere e che insiste nel non averlo, salvo che per fronteggiare i poteri esistenti ( o eventualmente sostituirsi ad essi).

A conclusioni simili erano già giunti non pochi dei movimenti ed organizzazioni dispiegatisi attorno al “’68” e che da allora hanno avuto infiniti seguiti, ma mai con pari intensità. Il fatto è però che l’altra opzione, quella più tradizionalmente rivoluzionaria, del potere il prima possibile, del potere come condizione obbligatoria per realizzare misure di giustizia sociale,  ha continuato a ossessionare anche questi movimenti e organizzazioni fino ad esaurirle. Non prima però di aver a propria volta portato alla crisi irreversibile anche gli altri comunisti, quelli di Partito, sempre solerti nella volontà di gestire quanto i poteri esistenti lasciavano loro.

 

8 L’ EGEMONISMO, MALATTIA SENILE DEL COMUNISMO

Trovo stia dunque qui una chiave fondamentale della più grande crisi di credibilità subita comunismo: quella iniziata sul finire degli anni ’70 e coronata sia dal dissolversi dell’Urss assieme a molti dei suoi “Partiti fratelli”, sia dalla deludente fine della Rivoluzione Culturale in Cina, assieme al dissolversi di quasi tutti i movimenti e organizzazioni sorte attorno al ’68. Una crisi che non si è tutt’ora risolta, ma è invece degenerata, non solo, ma anche perché non si è arrivati a distinguere in modo netto quanto diverso sia optare per dei legami diretti, interni, con le masse dall’ optare invece per dei legami indiretti con esse, mediati in funzione dei poteri esistenti.

Che questa crisi non abbia fatto che degenerare lo si può riscontrare in più fenomeni. Non solo il completo disperdersi delle masse, dunque la loro esposizione oltre che alla miseria,  alle politiche più reazionarie, neoliberiste, razziste, tardo-religiose, come mai dal secondo dopoguerra in poi. Non solo il sopravvivere del comunismo quasi esclusivamente come nostalgia, dogmatismo o filosofema. Accanto a questi fenomeni più evidenti ce ne è anche da segnalare un altro più latente, ma di pari scoraggiante intensità

Si tratta dello straordinario successo mediatico e intellettuale di autori come Gramsci e Foucault, le cui opere al di là della loro indiscutibile grandiosità sono lette come fonti per una visione a senso unico delle questioni del potere. Di che si discute infatti quando si discute di questi due pensatori? Quanto al primo, notoriamente il tema privilegiato è quello dell’egemonia. Quanto al secondo, il tema privilegiato è quello della ripetitiva onnipresenza del potere in alternativa al quale non c’è che la rivolta o la resistenza. Ebbene che significa tutto ciò rispetto alla questione dei legami con le masse che i comunisti hanno posto, sperimentato e infine lasciata irrisolta? Significa molto semplicemente che tale questione nemmeno si pone, perché si suppone esistano solo questioni di egemonia e di potere o tutt’al più di reazioni ( resistenza o rivolta) ad esse – che alla fin fine è la stessa cosa.

Così è come se i comunisti di Partito, quelli che hanno sempre privilegiato i legami esterni, indiretti con le masse, ottenessero una vittoria postuma. Ma tale vittoria non fa che propagare quella propensione che quanto accaduto attorno al ’68  aveva provato invano di combattere. La propensione dell’invocare il benessere delle masse solo per volere quel poco o quel tanto che i poteri esistenti sono disposti a concedere.

A suo tempo Lenin se la prendeva con l’estremismo, definita “malattia infantile del comunismo” – quello rinato grazie all’ insurrezione d’Ottobre. Il suo sintomo? in due parole, pretendere di avvalersi del “potere dal basso” (quello formatosi più o meno episodicamente durante il “biennio rosso” in alcuni paesi, specie europei, attorno a consigli operai, ad imitazione dei soviet) per giungere il prima possibile a soppiantare “il potere dall’alto”. Oggi non è forse il caso di diagnosticare una ben diversa malattia? In effetti, dopo i  straordinari successi del comunismo tra il ’45 e il ’75,  il tracollo della sua credibilità,  il trionfo delle politiche neoliberiste e la disgregazione delle masse non sono stati sufficienti a sgonfiare l’illusione che in nome della giustizia sociale si possa ancora diventare egemoni dei poteri esistenti. Non è forse il caso di parlare di “egemonismo” come “malattia senile del comunismo”?

Se si risponde positivamente insorge inevitabilmente un’ulteriore domanda: assumere una distanza critica rispetto all'”egemonismo” significa rinunciare persino alla stessa idea di rivoluzione? Personalmente credo di sì, almeno ragionando in termini politici, cioè guardando anzitutto al nostro presente, senza lanciarsi in previsioni sulle sorprese che può riservare il futuro. In effetti, penso che quest’idea al momento vada lasciata dove è finita: tra le mani degli imperialisti americani e dei loro alleati che lo usano, attribuendogli ogni colore purché non rosso, per destabilizzare i regimi che sono loro ostici. Dal momento che il potere è oggi sempre “altrove” ( come a suo tempo notava magistralmente Sciascia), altrove rispetto a dove appare, provare a prenderlo rischia comunque di restare esperimento vano. Anche laddove come in America Latina ci sono governi “di sinistra”, quel poco o tanto di giusto che riescono a fare sono convinto dipenda soprattutto dai legami con le masse di cui i movimenti e le associazioni che li supportano riescono a godere. Quando casi simili si diffondessero sul pianeta, solo allora, direi, il discorso potrebbe cambiare.

 

9  PEDAGOGISMO DI CLASSE

Il primo legame con le masse che i comunisti hanno sempre cercato di stabilire è stato un legame “pedagogico”, di educazione. Ciò suppone che ci sia un docente in possesso di un sapere sistematico, di una scienza, e un discente predisposto ad imparare. Questo presupposto viene garantito da due cose: che la dottrina comunista di Marx ed Engels si presenta come scienza e che al centro di questa dottrina c’è non solo la diagnosi dell’esistenza di sfruttamento e oppressione, ma anche la prognosi di come combatterli. Di qui l’idea che oppressi e sfruttati debbano prima o poi divenire propensi a farsi educare. Al militante il compito di guadagnare la fiducia della gente interpellata dimostrandosi attento alle condizioni materiali da essa vissute. Il tutto nell’intento di far giungere il discente a quella che si chiama coscienza di classe: ove “coscienza” significa proprio “con scienza“, dotato di scienza, e “di classe” il fatto che non ci sia nulla da attendersi dalle classe opposte, quelle sfruttatrici ed oppressive. La lotta contro di esse è supposta diventare così un’esperienza pedagogica fondamentale, in cui le masse verificano la giustezza degli insegnamenti ricevuti, mentre il comunista impara a meglio insegnare.

Questo schema si è praticamente mantenuto inalterato durante tutta la storia del comunismo, salvo un’eccezione giunta in prossimità del suo ultimo più disastroso declino. Si tratta di quanto accaduto durante la rivoluzione culturale in Cina, nella sue due fasi, grosso modo, tra il ’66 e il ’68 e tra il ’74 e il ’76. Nel suo corso è apparso infatti un modo di intendere il legame delle masse relativamente nuovo.

Per capire in cosa sia consistito questo modo occorre riflettere sul termine “coscienza di classe”, perché sono convinto sia stato proprio esso ad essere rimesso in discussione. Coscienza di classe significa in effetti un pensiero regolato, vincolato da leggi scientifiche: ad esempio la legge della caduta del saggio del profitto, senza conoscere la quale nessuno può pretendere di avere una coscienza di classe degna di questo nome. E sono proprio queste leggi ciò che il militante deve sapere trasmettere alle masse, secondo la visione più tradizionale della detta coscienza di classe. Ma da dove vengono queste leggi? Lenin diceva che le tre fonti, le tre parti integranti del marxismo erano la filosofia classica tedesca, l’economia politica anglosassone e il pensiero rivoluzionario francese. Si tratta dunque di fonti extrapolate da alcune branche del sapere esistente tra ‘7 e 800. Le leggi scoperte da Marx sono quindi il frutto di un lavoro eminentemente intellettuale e sono esse che, secondo la visione più tradizionale della coscienza di classe,  devono essere calate tra le masse per educarle.

Ora, durante la Rivoluzione Culturale si assiste ad cambiamento del ruolo di queste ultime. Le masse non sono più poste solo nella parte del discente, da educare, ma in parte assumono esse stesse un ruolo docente. Ad operare questo cambiamento è soprattutto un nuovo modo di intendere il pensiero comunista: non più incentrato sulla trasmissione e l’applicazione di leggi scientifiche, ma avente al centro l’incontro tra i comunisti e le masse. Un incontro anche sul piano intellettuale, il quale suppone – qui sta il cuore della novità – che anche le masse pensino, proprio in quanto masse.

Gli echi di questa grande novità li si ritrovano anche nello stesso operaismo italiano e nella sua ripresa della categoria del  “general intellect”utilizzata saltuariamente da Marx. Così anche nella fase più tardiva, post-operaista, di questa corrente, che si vuole comunista, si punta sempre ad applicare e aggiornare le stesse leggi scientifiche del marxismo, ma si dà un rilievo inedito alla potenza intellettuale delle masse ( più recentemente ribattezzate “moltitudine”) nel determinare tramite le lotte lo sviluppo delle forze produttive. Da semplici classi dominate le masse si trovano allora promosse nel ruolo di quelle che si potrebbero dire “classi determinanti”, anche se sempre osteggiate e represse dalle classi dominanti. Fermo restando che sulla questione politica decisiva operaismo e post-operaismo hanno sempre continuato ad essere fedeli al compito più tradizionale:  riconoscere dove e come si esprime il grado di coscienza antagonista al capitalismo.

 

10 LE MASSE PENSANO?

Ben altre sono le implicazioni più profonde della svolta rappresentata dalla Rivoluzione culturale cinese. Esse riguardano la funzione svolta dalle leggi scientifiche nel pensiero comunista. Il punto è che in nome di Mao tali leggi, la loro applicazione più o meno aggiornata, non dovevano avere più la priorità nel pensiero e nell’incontro tra comunisti e masse. Non che il “libretto rosso” dovesse bastare a far dimenticare tutto il marxismo precedente, come venne creduto negli oceanici raduni delle  Guardie Rosse.

L’imperativo più interessante ritengo fosse un altro. Era di sapere usare tutte le conoscenze disponibili, ivi comprese quelle marxiste, per un nuovo scopo: pensare cosa le masse pensano, sopratutto della realtà da loro direttamente esperita. E ciò nella convinzione che tale realtà non potesse essere effettivamente compresa ma solo preliminarmente approcciata alla luce di conoscenze già acquisite, quali quelle possibili grazie all’applicazione delle leggi marxiste.  Stabilire dunque un rapporto egualitario sul piano intellettuale tra comunisti e masse: questo il proposito così perseguito. Dagli stessi comunisti.

Si noterà la differenza di questo approccio rispetto a quello in termini di coscienza (di classe): secondo quest’ultimo approccio, caro agli operaisti e ai post-operaisti, si parte col presupporre un antagonismo fondamentale, ontologico, tra capitalismo e masse (moltitudini), poi si va a verificare dove e come queste ultime lo esprimono. Pensare cosa le masse pensano significa tutt’altro. Significa ergere le masse a fonti indispensabili per conoscere una realtà altrimenti sempre e comunque ignota: la realtà quale esse la esperiscono in un rapporto del tutto materiale con essa.

Ecco un compito che da allora, se non è stato del tutto abbandonato, non ha ricevuto l’attenzione che merita. Solo le politiche che ne facessero una priorità potrebbero scommettere di giungere a legami di massa tali renderle capaci di fronteggiare le iniquità del capitalismo.

Nel corso della lunga storia dei comunisti si possono trovare parecchi capolavori di inchiesta, da quella di Engels sugli operai inglesi di metà ‘800 a quelle di Mao sui contadini cinesi negli anni ’20 e’30, ma in generale le indicazioni di metodo sono scarse e contraddittorie, anche in ragione della prevalente propensione pedagogica di cui si è detto. Occorre dunque ammettere che resta del tutto aperta la questione di quali siano i metodi d’inchiesta più consoni a pensare cosa le masse pensano. Certo è che senza un preciso  metodo d’inchiesta  si può frequentare le masse quanto si vuole rischiando sempre di non capire nulla di cosa pensano. Né si deve credere che siano lì ad attendere  qualcuno interessato a sapere cosa pensano e che non vedano l’ora di dirlo.  Ma neanche si tratta di credere a tutto quello che dicono. E ancor meno si tratta, al contrario,  di non credere a nulla di quello che dicono, nella convinzione che sia impossibile non far dire loro ciò che già pensiamo. Gli studi antropologici che sono i più avanzati in merito a tali questioni, si dibattono spesso tra queste due credenze.

In effetti, antropologia, etnologia ed  etnografia, cioè le ricerche sociali che si svolgono a diretto contatto con le popolazione indagate,  avrebbero non poco da insegnare se le si espurgasse di quel pragmatismo americano di cui sono per lo più impregnate. Anche la psicanalisi, specie quella lacaniana, pur curandosi essenzialmente solo di casi di singoli individui, può essere fonte d’ispirazione per l’elaborazione di un metodo di inchiesta politica, a condizione di tenere ben presente che le masse non sono affatto una semplice collezione di individui.

A poco o nulla servono invece i sondaggi d’opinione onnipresenti al nostro tempo. Tali sondaggi infatti sanno sempre prima cosa vogliono sapere dalla gente e ciò che loro importa sono solo gli indici di gradimento o meno rispetto ai problemi affrontati.

Il punto non è  negare che le masse siano sempre manipolate, che i loro discorsi ripetano quasi sempre opinioni standard, preconfezionate dalla circolazione delle informazioni.

Il punto è scommettere che tra le loro parole possa essere colto un pensiero singolare quanto alle loro esperienze più direttamente materiali. Per questo le inchieste che si vogliono politiche possono svolgersi solo parlando direttamente con le masse, preferibilmente sul luogo delle loro esperienze più dure.

Ecco dove si può pensare di andare a parare, una volta che si siano definitivamente congedati “egemonismo” e “pedagogismo di classe”. Ma quali sono le nuove condizioni storiche in cui ciò potrebbe essere tentato? Ne tratto nei prossimi due punti.

 

11 NOVITÀ DEL CAPITALISMO

Il lettore più fedele alle lezioni del marxismo sarà stato sicuramente irritato dal costante uso qui fatto del termine masse e del poco risalto dato a quello che per tradizione operaista si chiama la “composizione di classe”. Ebbene per tagliar corto dirò che a mio avviso le analisi di classe nella storia del comunismo hanno sempre avuto lo scopo di designare quale era all’interno delle masse la loro parte più politicamente rilevante.

Al tempo di Marx era notoriamente la classe operaia. Questo accadeva per due ragioni fondamentali: 1) perché allora il massimo profitto veniva ad investire in luoghi materiali ben precisi quali erano  le fabbriche dell’industrialismo emergente: era dunque attorno a loro che gravitava lo sviluppo del capitalismo e con esso il divenire della storia; 2) perché  gli operai di fabbrica erano la popolazione che più direttamente subiva le conseguenze del capitalismo, cosicché ogni loro insubordinazione interferiva con lo sviluppo del capitalismo e quindi con lo sviluppo della storia da esso determinato.

Senza discutere di quello che è accaduto nel frattempo saltiamo direttamente all’oggi. Una delle tante differenze fondamentali tra il tempo di Marx e il nostro sta proprio nel fatto che non è più l’investire in fabbriche a procurare il profitto maggiore, bensì il saper cavalcare il vorticoso movimento planetario dei capitali: un movimento tanto più vorticoso quanto più favorito anche dalla maggior parte di quegli stessi Stati nazionali che un tempo invece lo ostacolavano o comunque lo regolavano in modo più o meno selettivo. È seguendo questa dinamica frenetica che i capitali guadagnano scommettendo sopratutto su altri capitali. Ed è principalmente a ciò che si deve la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia.

Chi lamenta il pesante ridimensionamento così subito dalla cosiddetta economia reale, in rapporto all’economia nel suo insieme, mantiene un’idea moralistica della stessa economia. Così si ragiona infatti come se ogni merce prodotta dall’erogazione di forza lavoro fosse più vera, sostanziale e “sana”  delle merci puramente convenzionali, mentre queste ultime merci, come titoli e azioni, confezionate solo per gli scambi finanziari, sono supposti essere per lo più fittizi, superflui e tendenzialmente “malati”. In effetti, ciò che preme di più a chi ragiona in questo modo è l’origine delle merci, come nascono: se esse sono il frutto della fatica del “sacrosanto” lavoro sono buone, se invece sono frutto di convenzioni stipulate “a tavolino” o via internet sono cattive.

Così però non si tiene in alcun conto che anche tra le merci “reali”, cioè prodotte sfruttando la forza lavoro, la maggior parte può essere considerata del tutto superflua, frivola, voluttuaria, per non parlare poi delle enormi quantità di merci puramente mortifere quali le armi. Il fatto è che se si considerano non superflue solo le merci indispensabili a garantire una decente sopravvivenza sul pianeta (cibo, acqua, abitazione, vesti, medicine, mezzi di locomozione e così via) si può calcolare che la loro produzione (assieme alla produzione dei mezzi necessari a questa stessa produzione) risulta ampiamente minoritaria rispetto al resto della produzione che impiega la forza lavoro.  Perché l’intera umanità disponga di cose indispensabili ad una decente sopravvivenza sul pianeta sono certo sempre necessari operai e fabbriche, ma in misura considerevolmente più esigua di quello che sono attualmente, anche se si immaginasse di preservare dall’indigenza quel miliardo e più di popolazioni che oggi ne soffrono.

 

12 LA GRANDE TRASFORMAZIONE IN CORSO

Morale della favola? Che oggi non sono più gli operai a subire le conseguenze più dirette dello sviluppo del capitalismo anche se senza di loro chiaramente nessuno riuscirebbe neanche a sopravvivere. Detto altrimenti: non è più attorno ad essi che ruota la storia, anche se senza di loro non ci sarebbe neanche alcuna storia. Qualsiasi politica che tenesse presente quel che è stato il comunismo non potrebbe mai evitare il riferimento agli operai, ma soprattutto dovrebbe porsi la questione di quali ne potrebbero essere gli alleati principali.

Svanita in gran parte l’euforia per la new economy e la “rivoluzione informatica” restano oramai solo  i postumi dell’apologia dei cosiddetti lavoratori cognitivi, detti anche “cognitariato” in quanto elevati al rango di nuova avanguardia storica. Non c’è più quasi neanche da vergognarsi nel riconoscervi solo una frazione di piccola borghesia quanto mai politicamente instabile. E oltre a ciò su questi argomenti non mi pare non circolino grandi rivelazioni.

 

Per affrontare questo problema sono convinto occorra tener presente il movimento dei capitali come tratto peculiare del capitalismo contemporaneo, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Non solo la finanziarizzazione dell’economia, ma anche l’intensificazione di guerre locali e il riacquisirsi delle tensioni tra le sfere d’influenza americana, russa e cinese. Oramai sono irrimediabilmente lontani i tempi nei quali le potenze tradizionalmente imperialiste si trovavano a dover contrastare la crescente influenza del comunismo anche nei paesi più poveri. Oggi anche la promessa di aiuti a questi paesi è per lo più tramutata in losco affare  o affidata a ong che il più spesso ne alimentano la dipendenza, anziché favorirne lo sviluppo. Così, in fondo l’unica strategia realmente perseguita dagli imperialisti contemporanei è spazzare via ogni ostacolo al movimento dei capitali alla spasmodica caccia di nuove opportunità d’investimento in ogni angolo del globo, senza farsi alcuno scrupolo se a tal scopo risulta conveniente la distruzione completa di regimi altrimenti stabili.

Ulteriore e decisiva conseguenza di tutto ciò  è che sempre più vaste popolazioni senza capitali sono costrette anch’esse al movimento, cioè al nomadismo. Ora è di un’evidenza palmare, specie riguardo all’Ue, ma anche altrove il nomadismo di masse indigenti è realtà che si impone e che sta trasformando il mondo.

Chiedersi a chi giova è già porsi una cattiva domanda. Come se a trarre vantaggio di tutto ciò che accade nel mondo alla fin fine non fosse sempre chi più può e non ha altra volontà se non di potere sempre di più. Anziché cercare di conquistare e convertire in un senso meno iniquo questo potere, si tratta piuttosto di chiedersi come si potrebbero unire ed organizzare in una prospettiva universalistica quelle popolazioni assolutamente senza alcun potere che sono attualmente quelle In movimento. Solo così si potrebbero quanto meno provare a contrastare le strategie che già cominciano a dettagliare le sistemazioni particolari entro cui irreggimentare i flussi degli ultimi arrivati.

Nella Germania della Merkel ci si immagina già che da ciò ne possa venire  un nuovo slancio economico pari se non superiore a quello del primo dopoguerra.  Di sicuro il mondo che si sta prefigurando non sarà più come prima.

Un cambiamento in cui si aggiornino in un senso ancor più concentrato e selettivo i poteri esistenti o viceversa un cambiamento che si apra alla possibilità di nuove politiche egualitarie? Questa secondo me l’alternativa posta dall’attuale movimento di popolazioni senza capitali. Comunque sono convinto si tratterà di una enorme trasformazione che renderà insulsa ogni tradizionale dialettica più o meno conflittuale tra Stato e società civile, tra governanti e governati, rappresentanti e rappresentati. Né trovo prevedibile miglior destino per qualsiasi battaglia tesa a far ottenere agli ultimi arrivati quel diritto di voto che gli stessi cittadini esercitano sempre meno. Se i migranti fanno i lavori che “noi” rifiutiamo è forse auspicabile che lo stesso accada nelle occasioni elettorali? Occorre smetterla di presumere di sapere cosa sia il meglio per queste masse in movimento e dunque cosa esse pensano. Ciò resterà un oscuro mistero dalle peggiori conseguenze, se non ci saranno politiche capaci di interpellare queste masse in modo da trovare un senso universale nelle loro parole.

“Un mondo senza confini!”, motto finora uscito da uno dei rari contatti politici tra migranti e autoctoni europei, è formula che va in questo senso? O è invece un sintomo temibile?  Queste sono le discussioni che credo meriteranno sempre più attenzione.

Sul piano demografico ed economico è oramai quasi evidente, ma credo lo sarà anche in politica che, volenti o nolenti, saranno  gli “stranieri” in quanto tali e anche se sempre minoranza a decidere i destini degli autoctoni.

 

 

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Ecco dunque dove politiche capaci quanto meno di ricordarsi del comunismo credo dovrebbero cercare di rivolgere principalmente le loro attenzioni. A condizione che abbandonino ogni pretesa di “egemonismo” e di “pedagogismo di classe”. Ma condizione ancor più preliminare sarebbe che si costituissero microcorpi organizzati, particelle senza nostalgia per il Partito. Ossia senza la voglia irrefrenabile di proporre “federazioni” e “coalizioni” solo per egemonizzarle.

Per tornare a pensare la questione dei legami con le masse mi piace ricordare una formula assai enigmatica e controversa di Althusser, ma quanto mai rivelatrice del punto più alto, ma anche cieco cui il comunismo stava giungendo tra gli anni ’60 e ’70.

La formula è: la storia senza soggetto, ne fine (i).

Che significa? Per me significa due cose, La prima che sarebbe il caso di astenersi il più possibile dall’usare i termini soggetto e soggettività: la loro origine metafisica e  giuridica infatti induce sempre nel presumere poteri dell’io, mentre  per un comunista, e tanto più per un post-comunista fedele al suo passato, dovrebbe essere chiaro che nella storia della politica nessuno soggettivamente conta, ma solo il potere del capitalismo o in alternativa organizzazioni legate alle masse. La seconda cosa è che il comunismo stesso non è da intendersi come un fine della storia, ma come mezzo dottrinario, ideale, di egualitarismo ad oltranza, cui dovrebbe fare riferimento ogni  politica che punti a legarsi dall’interno con le masse, a partire dallo loro stessa realtà.

Il dubbio resta se ci sia anche solo la volontà di ricominciare a discuterne.

 

L’illustrazione in alto  è di Olimpia Zagnoli da “Internazionale”

 

 

Category: Dibattiti, Politica

About Valerio Romitelli: Valerio Romitelli (1948) insegna Metodologia delle Scienze Sociali e Storia dei Movimenti e dei Partiti Politici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Dirige il Gruppo di Ricerche di Etnografia del Pensiero (Grep) presso il Dipartimento di Discipline Storiche Antropologiche e Geografiche dell’Università di Bologna. Tra i suoi libri: Gli dei che stavamo per essere (Gedit, 2004), Etnografia del pensiero. Ipotesi e ricerche (Carocci, 2005), Fuori dalla società della conoscenza (Infinito, 2009).

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