Stefano Benni: Sogniamo l’imprevedibile. Non adagiarsi sulla retorica di sinistra
Diffondiamo questa intervista di Simonetta Fiori a Stefano Benni pubblicata su La repubblica il 19 luglio 2013
«No, ancora con questa storia della fotografia con Grillo sulla spiaggia?». L’amaca su cui è steso Stefano Benni acquista una preoccupante oscillazione, inequivocabile indizio d’una domanda inopportuna. «Allucinazioni giornalistiche. I grillini mi hanno accusato di essere una spia di Bersani. Il Pd di essere una spia di Grillo. Ho mandato al diavolo gli uni e gli altri. Perché l’unica appartenenza che riconosco ha a che fare con quel signore là». Quel “signore là” è il pescatore di aragoste immortalato in un film di Sabina Guzzanti. Ex operaio della Fiat, fondatore di una cooperativa che ha modificato l’economia sopra lo stagno di Cabras, Gianni Usai lo guarda con cristiana rassegnazione. Da trent’anni, a luglio, hanno l’abitudine di dividere la casa di Putzu Idu, chilometri di spiagge nell’istmo che conduce a Capo Mannu. «Sono un anarcocomunista “usaista”, ecco cosa sono. Non bisogna dire cose di sinistra, bisogna farle. Sembra un passaggio facile, ma succede poco, quindi è qui la differenza».
D. Benni, però non si arrabbi.
«Mi arrabbio sì. Perché se un amico come Beppe ti chiama, io vado. Abbiamo una storia antica di collaborazione. Ma poi le nostre strade si sono separate. Io ideologo di Grillo? Ma dai. È uno che pensa con la sua testa. Parliamo, litighiamo e lui fa il contrario di quello che gli dico. È da anni che non mi dà retta. Hanno scritto anche che stavo per diventare ministro. Sicuro, anzi, volevo metà del Granducato di Sardegna».
D. Su cosa litigate?
«Insieme abbiamo fatto per tanti anni controinformazione, un lavoro bellissimo che resta. Poi non gli è bastato più. Ha voluto far altro. Un movimento politico. Io non ero d’accordo, ma lui l’ha fatto. Naturalmente rispetto la sua scelta. Ma io non ho mai desiderato di entrare nel suo movimento né in nessun partito. Se non vedo intorno a me politica degna di questo nome, la politica me la faccio da me».
D. Cosa vuol dire?
«Non posso fare a meno di fare dieci o quindici cose in cui credo profondamente. Le attività con gli immigrati di Harambe, il gruppo Lupo, i seminari per chi lavora con i bambini o nelle carceri, i seminari per giovani attori. Questo è l’agire politico, cosa molto diversa dal sondaggismo e dal gigantesco chiacchiericcio mediatico. In questo agire quotidiano mi ritrovo insieme con persone che praticano l’intelligenza, la sensibilità, il sentimento di responsabilità che possono essere ricondotti a una tradizione di sinistra. Molti continuano a dire: io sono di sinistra. Non è mai bastato, ma ora non basta più che mai».
D. Negli ultimi anni Vittorio Foa insisteva sull’importanza dell’esempio.
«Sì, l’esempio è fondamentale. Giornalisticamente io non ho avuto maestri, ma esempi. Come Valentino Parlato, Rossana Rossanda e Luigi Pintor. Più che le idee, mi sembrava importante il modo in cui era nato il
Manifesto: senza padroni. Un atto di libertà. Quanto agli articoli del giornale, metà non li capivo e metà non ero d’accordo. Ero un contadino letterato, che sapeva a malapena fare un po’ di satira».
D. Al Manifesto è arrivato tardi.
«Non giovanissimo. Venivo dal Sessantotto, un momento di grande fermento che io avevo attraversato in modo molto critico. Ero il compagno che leggeva Pound e Céline, dunque visto con grandissimo sospetto. Non sopportavo il fatto che ci potessero essere libri da leggere e libri da non leggere. Vissi quegli anni piuttosto appartato».
D. Fu quello il suo incontro con la sinistra? O c’era una radice famigliare?
«Della mia famiglia preferisco non parlare. Racconto un sacco di bugie e continuerò a farlo. O – come disse una volta mio figlio, che spesso ha molta più ironia di me – papà ha fatto di tutto tranne uccidere».
D. Però i suoi romanzi non mentono.
«L’immaginazione non mente, diceva Bachelard. Sì, è vero, i miei libri sono pieni di campagna e montagna, che è il paesaggio della mia infanzia. Sono cresciuto con i nonni, ed ero un bambino piuttosto solitario. Mi piaceva molto passeggiare, parlare con gli animali e naturalmente immaginare. Non so se questa possa essere considerata una mia radice di sinistra. Il fatto di avere molta immaginazione significa sognare delle possibilità diverse, e questo può diventare una risorsa. Poi tra Monzuno e Marzabotto ascoltavo i racconti della guerra partigiana. Ascoltavo i vincitori, che mi avevano regalato la libertà. Ma ascoltavo anche i vinti, che completavano una narrazione piena di dolore. La lezione più bella me la diede un partigiano quando gli chiesi cosa si prova la prima volta che s’imbraccia un fucile. “Non è stato un bel giorno. Prendere un fucile in mano non è mai un bel giorno”. Non c’erano accenti trionfali, solo grande sofferenza».
D. La campagna nei suoi libri è sempre vista come un “altrove” rispetto a una modernità cattiva, che avvelena e distrugge.
«Non tutto quello che viene chiamato progresso fa progredire. Non credo che la tecnologia risolva il problema della solitudine. I cellulari ad esempio: risolvono un problema di comunicazione, non di relazione. Così la televisione: è stata importante per l’alfabetizzazione, ma poi non credo che abbia reso gli italiani più intelligenti. O il web. Ne so molto poco, credo che sia una grande possibilità di libertà e informazione, ma che crei anche oligarchie e centri di controllo. Ed è presto per parlare di democrazia del web: non tutti in Italia possiedono il computer».
D. A proposito di solitudine, è un tema centrale nei suoi romanzi. Colpisce una frase posta ad esergo della Grammatica di Dio: «Tra gli dei che gli uomini inventarono, il più generoso è quello che unendo molte solitudini ne fa un giorno di allegria». Questo dio è per lei la politica?
«Sì, quando è qualcosa che ristabilisce la felicità e la responsabilità delle relazioni sociali. Se come artista viaggio nei mondi della solitudine, come cittadino cerco con tutte le mie forze di affrontarla o, meglio, di metterne insieme tante, fuse in progetti comuni. Scrivo della solitudine degli altri, ma scrivo soprattutto della mia. E ancora non sono riuscito a venirne a capo. Più passa il tempo, è come se nei miei libri il comico cedesse il passo a una riflessione filosofica sui sentimenti. Me l’ha fatto notare Goffredo Fofi. È stato lui, insieme a Grazia Cherchi, ad impedirmi di adagiarmi sulla retorica di sinistra».
D. Che cos’è la retorica di sinistra?
«Non fare diventare il proprio essere di sinistra una esibizione, una superiorità mai confrontata nei fatti. Nutrire dubbi, sempre. Anche sulla propria qualità letteraria. Dubbi che tuttora mantengo. Però io parlo d’una stagione culturale che forse ci siamo lasciati alle spalle. Oggi prevale una certa rassegnazione,
la difficoltà di resistere alle seduzioni e alle scelte un po’ misere del mercato editoriale e dello spettacolo. È un meccanismo da cui anche io mi devo guardare. Tutte le volte che mi viene chiesto qualcosa, devo sforzarmi di scrivere al meglio. Forse perché l’editore si accontenterebbe di qualsiasi cosa. Anche a teatro, la ragione per cui ho un po’ lasciato il genere comico è che per molti anni è stato il più richiesto. Ma a me non piace farmi chiudere in una scatola».
D. E neppure in una fotografia.
«No, neppure in una foto. Soprattutto se, nell’impazzimento mediatico, vale più di trent’anni di libri».
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