Napoli, appello di De Magistris: «Una rete dei comuni per i beni comuni»

Il quadro, nazionale e internazionale, rende a mio avviso importante questo appuntamento di confronto. Il governo Berlusconi è crollato sotto i colpi dei grandi poteri economico-finanziari internazionali, espressione di quel neoliberismo e di quella finanziarizzazione dell’economia che hanno portato alla crisi attuale. Berlusconi è caduto, inoltre, per volontà di quelle istituzioni europee, penso alla Bce, che sono figlie di un’Europa definita come entità monetaria ma non come comunità, quindi non ancora compiuta politicamente e non ancora capace di assicurare una vera partecipazione democratica. Il governo Berlusconi è caduto, inoltre, a causa del protagonismo di forze più propriamente nazionali: quei poteri forti – massonici, ecclesiastici e bancari – che per anni hanno sostenuto il “laboratorio Berlusconi” come garante dei propri interessi e che, registrata la sua impresentabilità internazionale, hanno scelto di liberarsene. Per far cosa? Per sponsorizzare un governo di tecnici che potrebbe condurre un’operazione di continuità politica ed economica sfruttando, appunto, i nomi “illustri” di noti accademici, di ex membri di Cda bancari, di elevati giuristi ed economisti. Resta invece ancora vivo il berlusconismo come involuzione (sub)culturale che, per un ventennio, ha deformato il tessuto sociale del Paese attraverso un interrotto controllo mediatico garantito dal conflitto di interessi permanente.

Per evitare dunque l’imposizione di una ricetta economico-sociale fondata sui dettami della Bce e della Commissione europea, di una risposta liberista ad una crisi che nasce dal fallimento del liberismo, della reazione conservatrice. Il governo tecnico mi fa paura per le ragioni espresse, ma da amministratore mi corre l’obbligo di giudicarlo dalle misure che attuerà. L’esordio certo non dirada il mio timore, anzi lo conferma: non una parola critica verso i diktat della Bce e della Commissione oppure sullo sviluppo sostenibile, non una presa di distanza dalla manovra d’agosto, che con l’art 4. obbliga gli amministrazioni a cedere ai privati buona parte delle azioni delle municipalizzate, azione resa ancora più forte dalla legge di stabilità, la quale prevede il commissariamento di quei comuni disobbedienti. È la cancellazione dei beni comuni, legati ai diritti fondamentali, per consegnarli al mercato e alla privatizzazione; è la cancellazione del welfare, usato per fare cassa; è la spoliazione degli enti locali, su cui si scarica la crisi. Semplificando è la sospensione della democrazia, che in primo luogo scompare nei luoghi di lavoro, dunque sparisce anche nel Paese. Fine del Ccln, licenziamento illimitato, esclusione di una “parte” della rappresentanza sindacale laddove non si conforma agli accordi imposti dall’azienda, ovviamente senza referendum: il “laboratorio Pomigliano” esportato ed imposto in tutto il mondo dell’occupazione.
In questo quadro la voce della politica è flebile, mentre tuona quella della finanza e del mercato di cui si fa portavoce la “tecnocrazia”, soffocando gli Stati, i governi e i parlamenti. Soprattutto soffocando le cittadine e i cittadini. Vediamoci dunque e confrontiamoci.
L’articolo è stato pubblicato su «il manifesto» il 7 dicembre 2011.
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