Marco Revelli: Matteo Renzi lascerà solo un cumulo di macerie
Diffondiamo da Il Fatto Quotidiano del 22 ottobre 2015
Marco Revelli – Dal 25 febbraio 2014 l’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. È l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi nella giornata del compimento della sua resistibile ascesa. Di Eugenio Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del Messaggero e del Sole 24 Ore. Delle Coop e di Confindustria.
Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. La costante accelerazione, dalle primarie di dicembre in poi, l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.
Cosicché davvero, se fallisce, cade tutto: finisce il Pd, si scioglie il parlamento, si commissaria il paese, si accelera la dissoluzione sociale. Motivo per cui, appunto, soprattutto per chi sta nell’establishment o nei suoi dintorni, non resta che sperare. Sperare a prescindere. Contro l’evidenza, che avrebbe dovuto dire che uno così non può farcela. Perché – la cosa si poteva vedere a occhio nudo fin d’allora – il personaggio non ha né le competenze. Né l’autorevolezza. Né la forza politica (ha seminato troppi cadaveri nella sua marcia forzata), per fare un miracolo del genere, sollevare tutto insieme – partito, istituzioni, paese – come fossero un unico fardello.
DI CRAXI ha l’arroganza e la presunzione, ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo che aveva ridato orgoglio a un Psi umiliato dal compromesso storico) e l’aura dell’Internazionale Socialista intorno, oltre che il partito nel pugno. Di Berlusconi ha lo stile da istrione e la ciarlataneria che piace a molti italiani, ma non il capitale monetario e umano che Mediaset e Publitalia (con qualche compartecipazione quantomeno opaca) assicuravano. Dei precedenti leader non è neppur degno del confronto. Aveva, in compenso, fin dall’inizio un’unica risorsa su cui puntare: il mito della velocità. Mito marinettiano (un po’ frusto per la verità, un secolo più tardi).
E un unico profilo da presentare: quello che Walter Benjamin aveva chiamato il carattere del distruttore (quello che conosce “solo una parola d’ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia”; e per il quale si può dire che “l’esistente lui lo manda in rovina non per amore delle rovine, ma per la via che vi passa attraverso”).
Come nel caso della nuova tecnologia usata in America per produrre idrocarburi frantumando gli strati schistosi, anche Matteo Renzi pratica, programmaticamente, il fracking , generando energia dalla frantumazione di tutto ciò che gli sta sotto, a cominciare dal partito che l’ha portato fin sulla cima della piramide, e dalla macchina dello Stato. Accelerando non la soluzione, ma la crisi stessa.
Rischiando di lasciare tutti – dopo aver fagocitato tutto – “nudi alla meta”. O meglio, nudi di fronte al potere, dopo la distruzione dei diversi corpi intermedi che tradizionalmente avevano fatto da filtro e contrappeso, delle strutture di rappresentanza politica e sociale, delle culture politiche capaci di aggregare individui e frammenti sociali, del suo stesso partito. In una parola di quella complessità organizzata che da sempre ha garantito un livello, sia pur minimo e insufficiente, di pluralismo e di articolazione in una società complessa, preservandola dal rischio e dalla tentazione dell’uomo solo al comando di fronte a una società di atomi competitivi.
Sarebbe bastato, d’altra parte, considerare il già citato catastrofico esordio al Senato, il giorno stesso della fiducia (il 25 febbraio, esattamente un anno dopo il voto politico che aveva aperto quel vuoto che ora il nuovo premier si apprestava ad abitare), per comprendere ciò che si andava preparando. E non furono pochi, quella sera, a chiedersi se ciò a cui si era assistito fosse frutto solo di supponenza e inesperienza. O se non ci fosse dell’altro (…).
La domanda (inquietante) rimane: che cosa stava succedendo nel cuore del nostro assetto istituzionale? Perché il giorno di quell’esordio qualcosa è successo. Un colpo – un colpetto – non di Stato ma dentro lo Stato. Come definire, altrimenti, un discorso pronunciato dentro l’aula di Palazzo Madama, ma in realtà rivolto al di fuori di essa, non ai Senatori ma a quella che Renzi – con lessico berlusconiano – considera la gente? Quello era l’intento (consapevole o meno) del nuovo capo. Il senso della mano in tasca. Del parlare a braccio. Persino del basso profilo e della genericità del discorso: bypassare la cerchia dei rappresentanti per rivolgersi alla platea generica che considera il suo popolo.
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