Laura Balbo: Se e come si impara a entrare in politica
Da alcuni testi sociologici –uno, del quale in Italia non si è mai avuta notizia, l’ho trovato per caso; altri sono alcuni “classici”, che da molto tempo non avevo ripreso in mano- ho tratto lo spunto per un possibile, e a mio giudizio interessante, percorso di ricerca sulla politica nella fase attuale. Il primo è un libro pubblicato negli Stati Uniti diversi decenni fa: l’autrice, Helen Rose Fuchs Ebaugh, affronta situazioni (la sua, e quelle di altri) legate all’uscita da un ruolo. Dunque l’essere ex detenuti, ex alcolisti, ex prostitute, ex transessuali. In altri casi si tratta di esperienze professionali o personali: ex medici, ex divorziati. Lei, una ex monaca (1).
Molti i passaggi che vengono messi a fuoco analizzando appunto l’ “uscita” da una posizione, anche importante, in cui in una fase della vita si è stati collocati: come si modificano relazioni, pratiche; l’immagine di sé; anche sentimenti, emozioni. Helen Rose Fuchs Ebaugh era stata allieva di Robert Merton. Nella prefazione al libro, Merton scrive: “Professor Ebaugh takes up in focused, imaginative, methodical and empirically grounded detail, a theoretical problem of social structure that I had raised some three decades ago but failed to pursue further: the dynamics and consequences of being an “ex member” of a group”(2).
Dall’analisi della socializzazione anticipatoria di Merton e dalle illuminanti osservazioni sul role exit mi è venuta l’idea di guardare, invece, all’esperienza del role entering, facendo riferimento in particolare al mondo delle istituzioni pubbliche e della politica. Dunque all’ingresso in una posizione di responsabilità (e visibilità, anche) e a come la fase iniziale venga vissuta da coloro che si trovano dentro, ma anche vista e valutata da fuori.
Provo a leggere questo passaggio nello scenario attuale, portando l’attenzione sia su figure (e comportamenti) di coloro che ricoprono appunto ruoli istituzionali, ma anche sui meccanismi esterni, che sintetizzo con i termini “democrazia di base”, “democrazia partecipativa” .
Il senso di questa analisi lo riassumo in due parole, parole che metto insieme mentre in genere siamo abituati a considerarle collegate: la politica, e imparare. La maggior parte di coloro che oggi “entrano” in politica non hanno avuto nessuna socializzazione anticipatoria (nel passato c’erano le scuole di partito, o comunque erano previste occasioni di formazione e apprendimento). E certo nessuno insegna a fare il ministro o il parlamentare o l’assessore. Mi sembra dunque utile riflettere su questo: se e come si impara.
Nel dibattito francese si è portata l’attenzione su un dato ormai sempre più visibile -nella politica, e nella nostra società mediatizzata- definito come l’ “usure rapide” del consenso: nelle “fasi elettorali” si passa molto presto da un periodo di sostegno a un candidato a una successiva fase di denunce dei limiti, di delusione, di impazienti pressioni a portare avanti le promesse fatte. Così in Francia, appunto, per la presidenza Hollande.
In Italia ho portato attenzione al “caso” del “governo tecnico” di Monti; e su una realtà “locale”, la giunta Pisapia al comune di Milano. Dunque interrogarsi su questo: se e come si guardi al fatto che, per molti, ai diversi livelli, ci si trova ad affrontare il role entering, l’ingresso nel ruolo, senza alcuna occasione di “formazione”; o almeno, di “avvicinamento”. E quali i problemi, le complesse conseguenze.
1. I “cento giorni”, una fase di “apprendistato”
Per le persone che entrano in ruoli istituzionali si potrebbe immaginare un periodo di possibile, necessario apprendistato. Utile l’espressione “i cento giorni”.
Si tratta di familiarizzarsi con la situazione in cui ci si viene a trovare(si dice il ”passaggio di consegne”); di entrare in contatto (per la prima volta, in alcuni casi) con colleghi, collaboratori, con figure anche esterne all’amministrazione, dunque una complessa macchina organizzativa. Di rendersi conto di quali siano le priorità, e le risorse di cui si dispone. Dunque entrare nelle “pratiche di ruolo”, e avviare il percorso successivo.
In alcuni casi è possibile costruire una “rete” e lavorare in una situazione di sintonia; o ci si trova a essere parte di una struttura ferma, che non è facile modificare; o, ancora, emergono contrapposizioni. E c’è l’ immagine che i media rendono visibile; e il peso che nella fase attuale hanno i social network. Le parole usate in dichiarazioni, in conversazioni anche private, immediatamente rese visibili. La gestione del proprio tempo.
Proposte, difficoltà, eventuali ritardi, vengono messi in luce e fatti oggetto di critiche come aspetti di incompetenza. Per molti, qualcosa che ci si trova ad affrontare senza fasi preparatorie e senza sostegni (anche emotivi, psicologici), e con scarsa consapevolezza delle possibili implicazioni dei propri modi di agire sulla scena pubblica e mediatica. Alcuni aspetti del percorso del governo Monti li ho riletti in questa prospettiva.
Certo non c’era stata, per i ministri e i sottosegretari, una fase di “apprendimento”. Per fare il punto sulla situazione ereditata dalla fase precedente, per acquisire conoscenza e “controllo” del contesto, per creare relazioni positive (con colleghi, con il personale). Poco o nulla sapevano delle risorse, e dell’effettivo potere, di cui disponevano. Le persone, le carte, le normative: anche relazioni, consuetudini. Né sedi e tempi per l’ “apprendimento del ruolo”, appunto.
Mi sono chiesta dunque se non possa essere utile rivolgere attenzione a questi passaggi, nelle istituzioni e nei percorsi della politica, in situazioni in cui non ci sono passaggi di “socializzazione anticipatoria”.
Ci sono consiglieri, assistenti, “esperti”: ma sei tu che devi acquisire expertise nel ruolo (è più che “esperienza”, ed è diverso da “competenza”). Ammettere che per essere adeguatamente informati, per imparare a muoversi con credibilità e competenza nei rapporti, nelle diverse situazioni, possano essere necessari momenti di pausa; rallentamenti. Forse cento giorni non basterebbero. Ma pensiamoci, a una possibile (breve) fase di apprendistato. Dunque utili ripensamenti; il rinvio di iniziative non adeguatamente preparate; anche, arretramenti.
Tornando ai “cento giorni”: spesso è in questa fase che si costituisce un gruppo, una rete. E i modi di costituirsi di legami, o invece di contrapposizioni, o di sottogruppi dai quali alcuni rimangono fuori o ai margini, è un passaggio che non va ignorato. In larga misura rimane invisibile: ma certo costituisce una componente del “meccanismo organizzativo” che via via prende corpo. Una “tessitura” importante. Learning in progress, e learning by doing :la sola modalità possibile è l’ imparare nelle e dalle pratiche di ruolo. Ed è un imparare in cui si tratta di acquisire expertise. Ancora. Quello che si richiede nei ruoli impegnativi (e in quelli della politica in particolare) è un processo di “imparare e cambiare”.
Non rimango la stessa persona , se affronto l’ imparare rispetto a scelte importanti: in situazioni in cui prima non mi ero trovato, in contesti di cui non ero stato parte. Dunque essere consapevoli del fatto di inevitabili trasformazioni nel proprio modo di essere visti e di “apparire”, ma di più: nel proprio modo di viverle, le esperienze di questa fase. Se su tutto questo non c’è -nè nelle persone coinvolte nè all’esterno- la necessaria attenzione, molto rimane non detto, invisibile; o c’è la scelta di tenerlo nascosto. Ne vengono costi, anche pesanti, non solamente per le persone direttamente coinvolte: inevitabilmente ne risente il modo di funzionare di un’ “organizzazione”, o di un “sistema politico”.
Dunque, sarebbe bene avere consapevolezza di tutto questo. Nella fase del role entering, inevitabili cambiamenti e -questo ci si augura- processi di apprendimento. Ci vuole tempo.
Ancora un riferimento a letture sociologiche utili per il percorso che mi interessa proporre. In un testo “classico”, L’interazione strategica di Erving Goffman, si porta l’attenzione su quelle che sono definite “condizioni importanti”, delle quali è necessario essere consapevoli se ci si trova nella “costrizione a giocare” e quando si devono affrontare -anche questo un passaggio rilevante- i “giochi” della comunicazione. Per partecipare in condizioni paritarie è fondamentale che si disponga di una “lingua comune”. Oggi diciamo una “cultura comune”: pratiche e regole che siano condivise, e -per quanto possibile- messe in luce. Ancora, Goffman sottolinea come si debba valutare la “credibilità” di coloro che partecipano: tener conto delle loro modalità di calcolo ed eventualmente, anche della “propensione a barare”. Componenti importanti nella politica.
Dunque anche questa una dimensione da mettere in luce (sia nelle sue difficoltà che nei passaggi positivi): il formarsi attraverso le pratiche organizzative -o invece non ci si riesce- di un learning network. C’è molto da imparare. E appunto, ci vuole tempo.
2. La “democrazia partecipata”, guardando alla fase del role entering
Riflessioni, queste, che vanno portate anche in altre direzioni. Perché non si tratta soltanto dei soggetti e delle pratiche di cui si è detto, e del loro imparare.
Nella fase attuale si tratta di collegare queste considerazioni con l’emergere del dato della “democrazia di base”: dunque la visibilità e legittimazione gli attori della “società civile”, le forme molteplici di presenza e impegno dei cittadini. Tra l’analisi qui proposta sulle “pratiche di ruolo” nella politica, e appunto le nuove forme e manifestazioni della “democrazia partecipativa”, ci sono aspetti di connessione. Alcuni riferimenti tratti dal dibattito in corso: “bene comune”; “diritti”; “equità”.
Gruppi e organizzazioni di base -con una comune appartenenza politica, o che condividono particolari problemi o urgenze- si attivano per vedere riconosciute le proprie priorità. E’ scontato che da parte dei diversi settori dell’elettorato ci si aspetti che il personaggio -collocato in un ruolo di potere e di visibilità- affronti da subito tutti i temi dell’agenda. Molte, con crescente visibilità e legittimazione, le iniziative volte a fare emergere le “voci dal basso” e le forme di mobilitazione: processi che –così ci si augura- aprono i nostri sistemi democratici a modalità diversificate e flessibili.
Ma sarebbe anche opportuno considerare problemi e possibili rischi nelle occasioni e pratiche di mobilitazione e di “voce”. In un arco di tempo molto breve si arriva a valutare che cosa la persona “ entrata nel ruolo” riesca a realizzare rispetto alle diverse, molteplici aspettative. Difficile che si conoscano le risorse effettivamente disponibili (sia come competenze personali che come strumenti istituzionali), e che si sia consapevoli dei molti aspetti da affrontare.
Via via che vengono formulati o messi in atto iniziative e programmi: critiche, proteste, prese di distanza. E certo ci sono oggettive condizioni di disparità tra le diverse “ voci”. Anche, i diversi aspetti di pluralità (e di possibile competizione, conflittualità) tra i soggetti che “partecipano”: dunque il rischio che proposte e programmi portati all’attenzione, e a cui si chiede di dare risposta con urgenza e priorità, riflettano interessi di parte: “settoriali”, “locali”. Per alcuni si vengono a creare percorsi privilegiati. I nostri sono -lo sappiamo- sistemi di “democrazia segmentata”.
Se non si ha piena consapevolezza della complessità dei processi; se non si porta la necessaria attenzione alla situazione vista nelle sue diverse componenti; e aggiungo, se c’è l’ aspettativa di risposte immediate, senza che ci si renda conto delle condizioni e modalità dell’ “avvio” cui prima si è fatto riferimento, le conseguenze possono essere anche pesantemente negative. Traggo alcune frasi (da dichiarazioni di persone in posizioni di ”governo”, da resoconti nella stampa, da testimonianze dirette in dibattiti, convegni, interviste). La fase a cui si riferiscono, appunto, è quella del role entering.
C’è “inflazione” di domande e pressioni, il “ rumore dei cittadini”, “La gente si aspetta la bacchetta magica”, “I cittadini non chiedono partecipazione, ma soluzioni”, “La cultura politica ha canali privilegiati”, “La maggioranza della popolazione è coinvolta in meccanismi di clientelismo”.
Ci sono anche testimonianze di ascolto, e di processi di apprendimento reciproco .
“Utilizzare le voci dei cittadini come modalità non burocratiche di intervento “, “ C’è domanda di trasparenza“, “Arrivare a piccoli passi… Ho imparato piano piano a mediare, a condividere “, “I cittadini mi hanno aiutato con le loro competenze “, “Ho capito l’importanza di imparare la mediazione”, “Dopo i primi mesi.. si è creato un gruppo…siamo diventati consapevoli dell’ urgenza di un nuovo modo di lavorare “.
Importante che si riesca ad utilizzarle, le esperienze e riflessioni dei diversi “soggetti”; e arrivare a uno sguardo più consapevole e attento, su attori e processi nella politica nella fase attuale. Cerchiamo di viverli con consapevolezza, e di saperli utilizzare, i dati di cambiamento. E’ un processo in corso. Dati che –così ci si augura- possono portare i nostri sistemi democratici a modalità del fare politica nuove; e positive. Sono occasioni per imparare.
3. Concludendo, alcuni interrogativi.
Il primo: tener conto di processi e aspetti della fase politica attuale, e in particolare del dato dell’ “usure rapide”: usura del consenso, della fiducia, della “pazienza” dell’elettorato. Diversamente, possono esserci pesanti conseguenze per i processi politici e per la stessa definizione del sistema di “democrazia” che ci si aspetta stia prendendo forma.
Il secondo punto: è necessario che si arrivi a letture delle condizioni e delle voci “dal basso” consapevoli della loro pluralità e diversità. L’espressione “capabilities and voices”, mettendo appunto in luce le differenti condizioni di accesso alla scena pubblica, aiuta ad interrogarsi su quali riescano davvero ad avere ascolto, e come emergano. Dunque porsi la domanda: sulla base di quali criteri e per effetto di quali meccanismi funziona la “partecipazione”. Ci sono soggetti e gruppi che riescono a “partecipare”, mentre altri restano marginali, o non hanno alcuna possibilità di voce.
Il terzo punto, e torno alle pratiche di ruolo in posizioni di governo, in particolare nella fase iniziale (ma anche altri “momenti” di un percorso politico o amministrativo andrebbero presi in considerazione, tenendo conto di particolari tratti e vicende dei contesti in cui si trovano collocati), di fronte a situazioni in cui le questioni in gioco sono di evidente complessità e urgenza, e quando si tratti di decisioni importanti e di ruoli di responsabilità, sarebbe bene interrogarsi su come “giocano” i molti diversi aspetti del processo in atto: la visibilità pubblica, le pressioni (e gli interessi) di parte, il peso che riescono ad avere alcune voci dal basso (e non altre).
E dunque guardare anche ai possibili “effetti perversi” dei meccanismi che vengono messi in atto come espressione, appunto, della partecipazione dal basso (5). Si dovrebbe cercare di capire se e come rallentamenti, rinvii, momenti di pausa, aggiustamenti, siano in alcuni casi passaggi inevitabili: meglio, utili. Tutti elementi da considerare –nella complessità degli intrecci e degli interessi in gioco- in una prospettiva di democrazia che cambia. Forse -ma non diamolo per scontato- di una democrazia in progress.
NOTE
1) Helen Rose Fuchs Ebaugh, Becoming an Ex. The Process of Role Exit, University of Chicago Press, 1988.
2) Robert K. Merton, Prefazione a Helen Rose Fuchs Ebaugh, citato.
3) Riferimenti utili sono nel saggio di Theda Skocpol & Lawrence R. Jacobs, “Accomplished and Embattled. Understanding Obama’s Presidency”, Political Science Quarterly, Spring 2012. Gli stessi autori -sulla base di un importante progetto promosso dalla Russel Sage Foundation- avevano pubblicato nel 2010 un libro, Reaching for a New Deal, in cui vengono letti in parallelo i più importanti aspetti del New Deal di Roosevelt e le politiche della presidenza di Barack Obama. Sulle fasi che si sono succedute dalle elezioni del 2008 al presente si presentano articolate riflessioni, mettendo al centro questo dato: in un sondaggio effettuato il giorno dopo la vittoria di Barack Obama due terzi degli elettori si definivano “orgogliosi e ottimisti” mentre, alla fine del 2011, meno di un quarto degli intervistati pensava che il presidente avesse mantenuto le promesse fatte.
4) Trovo molto esplicita una frase di Elsa Fornero sulla sua esperienza nel governo Monti (citata da diversi organi di stampa, luglio 2012): “ Non credevo che fosse così dura, non lo credevo proprio”. Un altro riferimento lo prendo dalla mia breve esperienza in un ruolo politico: membro di un “world apart”, di un “mondo sconosciuto”. Della politica ho colto i processi di costruzione del “dentro/fuori , e anche i molti aspetti di gratificazione, e i privilegi (Riflessioni in-attuali di una ex-ministro, Rubbettino, 2002). Aggiungo: aver potuto osservare da vicino i complessi processi del role exit dai ruoli politici è stato particolarmente interessante.
5) Alcuni tra i moltissimi contributi recenti: Danny Oppenheimer& Mike Edwards, Democracy Despite Itself, MIT Press, 2012. Frank Fischer & Herbert Gottweiss, The Argumentative Turn Revisited, Duke University Press, 2012.
Category: Politica
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Bell’articolo, anche se un po’ troppo “tecnico” ed accademico. Sarebbe bello approfondire l’argomento da altri punti di vista.