Gianni Rinaldini: Enrico Berlinguer e i suoi rapporti con il partito e il sindacato

| 30 Dicembre 2014 | Comments (0)

 

 

 

 

 

Diffondiamo in data 30 dicembre 2014 dal numero a stampa di “Inchiesta” ottobre-dicembre 2014


Il mio contributo non ha alcuna pretesa di fornire una lettura compiuta delle tematiche relative al rapporto tra Berlinguer e il Sindacato, o meglio tra il Partito e il Sindacato. Voglio semplicemente ricostruire come ho vissuto questo rapporto nella mia esperienza di dirigente politico nella Federazione del PCI di Reggio Emilia e successivamente come dirigente sindacale.

Una prima considerazione di carattere generale riguarda lo stesso approccio ad una figura come quella di Berlinguer.  Penso che non sia riconducibile nell’ambito di una linearità nelle scelte politiche, in un percorso che va dal Compromesso Storico alla Alternativa Democratica, dall’accordo con la DC ad un governo con la parte migliore della DC.

Questo non significa stabilire una sorta di cesura tra le due fasi, come se fossero esistiti due Berlinguer, come sostengono alcuni. Ciò che tiene insieme questi diversi passaggi, che ne costituisce l’asse fondamentale, è la riflessione, la ricerca anche angosciosa di un percorso politico per attuare una possibile trasformazione socialista, con e nella democrazia.

 

Il  colpo di stato di Pinochet

Negli anni ‘ 70, questo problema  non è più un obiettivo a lunga scadenza, sostenuto da una pratica quotidiana di opposizione, ma precipita proprio a fronte della crescita ed espansione dei movimenti sociali che si sviluppano alla fine degli anni ’60. Questi processi richiedono di mettere in discussione e di ridefinire nodi teorici fondamentali, di cultura e di prassi politica. Non è più eludibile il problema del potere politico, del governo del paese.

A livello internazionale non ci sono altre esperienze a cui riferirsi per superare il vecchio schema – interno alla tradizione della Terza Internazionale – che contrappone “la presa del Palazzo d’Inverno” al “cretinismo parlamentare”.

Per questo la vicenda del Cile assume un particolare significato, come tentativo di trasformazione socialista nella e con la democrazia. La riflessione su questa esperienza, stroncata da un colpo di stato, e sulla intera dinamica politica che lo rese possibile, ebbe una grande rilevanza per Berlinguer.

Le manifestazioni, gli scioperi di alcune categorie, il sabotaggio economico, le azioni terroristiche con l’esplicito sostegno degli Stati Uniti non avevano indebolito il Governo Allende, ma ne avevano rafforzato il consenso con la crescita elettorale nelle ultime elezioni amministrative dal 36 al 42%. Fallisce un primo tentativo di golpe militare e Allende si apprestava a promuovere un referendum sul Governo. La novità che si determina è quella relativa al comportamento della DC di Frey che, a differenza di precedenti votazioni, si esprime per la incostituzionalità del Governo Allende e fornisce la copertura politica al colpo di stato di Pinochet. Confesso che sono sempre stato affascinato dalla figura di Salvador Allende e dal suo comportamento che sceglie l’estremo sacrificio. Nelle ore tragiche dell’assalto dei militari golpisti al palazzo presidenziale della Moneda, la sua è  una immagine perfino buffa.

E’ la, non ha cercato di fuggire: è in giacca e cravatta, con un elmetto pericolante ed un mitra impugnato in modo maldestro, con un messaggio universale, quello della inscindibilità tra socialismo e democrazia. Come dire “altro non mi interessa”.

Credo che nessuno avesse allora percepito che la vicenda cilena rappresentava la sperimentazione allo stato puro del neo-liberismo, della applicazione delle teorie dei “Chicago Boys”, che hanno segnato i decenni successivi. Resta il fatto che quella esperienza per le sue caratteristiche democratiche parlava più di altre alle lotte e alle dinamiche sociali dei paesi occidentali.

La situazione sociale, la crescita elettorale e la stessa crisi economica del ’73 rendono ineludibile il problema del governo per il PCI, mettendone in forte tensione l’impianto complessivo teorico, culturale e politico.

 

La politica delle alleanze

“E’ ora, è ora, il PCI deve governare” era lo slogan prevalente che attraversava le manifestazioni del Partito. La dimensione di massa, la politica delle alleanze, la pratica riformatrice e democratica nella buona gestione amministrativa dei territori e, successivamente, delle regioni governate dalla sinistra, tenevano insieme l’orizzonte del socialismo.

I due aspetti non sono scindibili, perché ambedue costituiscono la dimensione di massa, la natura popolare del Partito. Uso il termine popolare perché sociologicamente il Partito Socialdemocratico tedesco era caratterizzato da una presenza operaia ben più consistente di quella del PCI. L’orizzonte del socialismo non era semplicemente riconducibile a quello realizzato in Unione Sovietica, da imitare e riprodurre.

Nel senso comune delle persone rappresentava tuttavia la possibilità, la fattibilità di un altro sistema sociale alternativo al capitalismo. Per evitare equivoci, non erano aspetti che si sommavano e messi assieme determinavano la dimensione di massa del Partito, ma convivevano nella stessa persona e non erano caratterizzanti di posizioni moderate e/o di sinistra nella dialettica interna del Partito.

Basti pensare alla figura di Giorgio Amendola, che allora era considerato il capo della parte più moderata del PCI e che, al tempo stesso, era estremamente cauto rispetto ai giudizi critici del Partito, sulle scelte dell’Unione Sovietica, come nel caso dell’invasione dell’Afghanistan.

Capitalismo e Comunismo (il socialismo era la prima fase) rappresentavano idee universali in conflitto, a livello nazionale ed internazionale. Potevano avere al loro interno diverse articolazioni, ma rappresentavano modelli di società contrapposti. Il PCI nasce come istanza internazionalista, non esiste al di fuori di essa. Nella logica dei blocchi che si fronteggiavano a livello internazionale, il PCI costituiva un problema, essendo il più forte Partito Comunista in un Paese della Nato.

Allo stesso modo la Primavera di Praga, che aveva tentato di affermare l’istanza e il valore della democrazia dentro la trasformazione Socialista, venne stroncata perchè metteva in pericolo l’appartenenza della Cecoslovacchia al Patto di Varsavia.

Non era un fatto casuale che ad ogni avanzamento del movimento operaio nel nostro Paese corrispondeva una risposta violenta da parte degli apparati dello Stato. La strage di Piazza Fontana avviene nel corso del rinnovo del Contratto Nazionale dei Metalmeccanici nel 1969, così come la strage alla stazione di Bologna avviene il 2 Agosto 1980, nell’immediata vigilia del durissimo conflitto sociale alla Fiat. La logica stragista, i depistaggi, le voci più o meno veritiere di possibili colpi di stato ed infine la follia delle BR completavano il quadro. Questo era il clima, e nel Partito più volte si veniva allertati rispetto ad un possibile precipitare della situazione.

Berlinguer prende sempre più le distanze dal blocco socialista, fino ad affermare, in una famosa intervista al Corriere della Sera, pochi giorni prima delle elezioni politiche del 1976, che per il PCI, non è in discussione l’appartenenza alla Nato.

Tenta anche di avviare, rivolgendosi al Partito Comunista Francese e a quello Spagnolo, la prospettiva dell’Eurocomunismo, che doveva rappresentare una via internazionale caratterizzata dalla democrazia, da una trasformazione della società che si distaccava dalla realtà del blocco sovietico. Compie atti forti, ma credo che fosse consapevole che questo non risolveva il problema. Di converso, la dinamica sociale, le conquiste sociali che avevano contribuito alla stessa crescita elettorale del PCI evocavano istanze e domande che non rientravano nello schema classico, nell’impianto costituente della sinistra, sia essa socialdemocratica o comunista.

 

I consigli di fabbrica e la FLM

 

Non mi riferisco genericamente alla stagione inaugurata nel ’68 – ’69, ma ad un aspetto preciso che ha reso unica quella esperienza rispetto agli altri Paesi occidentali: i Consigli di Fabbrica. Il gruppo omogeneo di lavoratori e lavoratrici, eleggeva su scheda bianca il delegato che doveva rappresentarlo nel consiglio aziendale. Chi riceveva più voti era eletto e tutti erano eleggibili, iscritti e non iscritti al Sindacato.

Il delegato eletto era in qualsiasi momento revocabile dalla maggioranza dei componenti del suo gruppo omogeneo e tutto il sistema si fondava sulla pratica della democrazia partecipata e diretta. Su questa base era fondato il progetto di costruzione del Sindacato Unitario, che insieme con il cambiamento della forma di rappresentanza intendeva rinnovare e trasformare profondamente la struttura dell’Organizzazione Sindacale.

La Federazione Lavoratori Metalmeccanici (F.L.M.) fu la punta più avanzata di questo progetto, e nell’organismo dirigente fu oggetto di discussione la possibilità che i metalmeccanici procedessero autonomamente alla costruzione del Sindacato Unitario. Questa scelta non si compì e le Confederazioni si bloccarono nella Federazione Unitaria CGIL-CISL-UIL, che manteneva una composizione paritaria degli organismi sindacali, assegnando un terzo ad ogni Confederazione.

Ciò che mi interessa richiamare è che quella forma democratica di espressione della soggettività dei lavoratori e delle lavoratrici, nella esperienza dei Consigli di Fabbrica, era fondata su una pratica rivendicativa che fuoriusciva dal tradizionale ambito redistributivo dell’iniziativa sindacale, interveniva e metteva in discussione l’organizzazione del lavoro con tutto ciò che ne consegue.

Il comando unilaterale dell’impresa viene messo in discussione, così come la neutralità della tecnologia e del suo utilizzo, del sapere, della ricerca scientifica e della sua finalizzazione sulle concrete condizioni delle persone. In questo consiste il carattere espansivo di quella esperienza, una idea della trasformazione della società qui ed ora, non delegata alla politica, dai luoghi di lavoro al territorio, dalla fabbrica alla società, fino a proporsi come questioni su cui intervenire e costruire una propria proposta “cosa, come e dove produrre”.

In sostanza viene messo in crisi nella pratica democratica il rapporto di potere nel luogo di lavoro e nella società e trovo singolare che quella esperienza venga tuttora relegata dai vari commentatori soltanto alla dimensione della redistribuzione della ricchezza.

Il PCI, a differenza di altri partiti comunisti come quello francese, ha l’intuizione e l’intelligenza di non chiudersi rispetto a quella esperienza. Non produce tuttavia alcuna rielaborazione culturale e politica rispetto all’impianto complessivo della storia della sinistra nel rapporto Partito-Sindacato, che vuole dire nel rapporto tra politica e trasformazione della società.

 

Il compromesso storico

All’insieme di questi problemi nazionali ed internazionali Berlinguer rispose con la scelta del Compromesso Storico, il Governo con la DC che esclude l’ipotesi della alternativa di sinistra con il PSI di De Martino.

L’interlocutore era Aldo Moro, che a dire il vero concepisce il compromesso come fase transitoria per creare le condizioni per l’alternanza, mentre il termine storico è proprio di Berlinguer. Non ho alcuna pretesa di esprimere un giudizio politico sulla scelta compiuta in quella fase perché trovo fastidiosi tutti quelli che si esercitano in tale lodevole missione.

Diversi erano i fattori in gioco che completavano il quadro, compreso i rapporti con il blocco sovietico che erano ormai al limite della rottura. Sappiamo oggi da varie testimonianze che Berlinguer riteneva che l’incidente automobilistico  avvenuto in  Bulgaria,  in occasione di un incontro bilaterale tra i due Partiti Comunisti e da cui usci miracolosamente vivo, fosse un tentativo di farlo fuori. Resta il fatto che lo sbocco politico di quella fase fu la scelta del Compromesso Storico.

Ci furono diversi passaggi, la non sfiducia nel ’76 al Governo Andreotti,  il voto favorevole nel ’78 al nuovo Governo presieduto sempre da Andreotti, il 16 marzo, il giorno stesso del rapimento da parte delle Brigate Rosse di Aldo Moro e del massacro della sua scorta. Veniva a mancare l’altro contraente del patto politico. Risale a quel periodo, alla fine del ’76 la mia scelta di uscire dalla segreteria del PCI del Comune di Reggio Emilia, per andare a lavorare in una azienda privata. Una scelta senza particolari motivazioni politiche.

Esprimevo in questo modo un disagio, un malessere, rispetto alle decisioni compiute e alla loro traduzione nell’operare del vasto corpo del Partito. In sostanza non riuscivo a coniugare,  gli “elementi di socialismo” di cui si continuava vagamente a parlare, con un Governo con la DC.

Un disagio, un malessere che non aveva nulla a che vedere con i movimenti del ’77, sui quali per altro condividevo il giudizio di Berlinguer. Ebbi modo di partecipare pochi mesi dopo ad una riunione del Comitato Federale del Partito di cui facevo parte che terminò con l’intervento di un componente della Segreteria Nazionale del Partito che ci spiego che la Federazione di Reggio Emilia aveva assunto un ruolo nazionale in tre circostanze.

La vicenda del 1951, quando Valdo Magnani, allora segretario della Federazione, nel suo rapporto al Congresso aggiunse un sorprendente passaggio che significava una critica all’Unione Sovietica e un appoggio alla Jugoslavia di Tito.

Nel 1959, quando fu l’ultima Federazione Emiliana in cui si affermò la destalinizzazione. Nel presente degli ultimi anni, per la scarsa vigilanza sulla nascita delle Brigate Rosse. Il tutto mi sembrava paradossale e mi confermava nella scelta che avevo compiuto, perché era chiaro che l’oggetto del contendere era la normalizzazione del gruppo dirigente rispetto alla linea del Compromesso Storico.

 

L’implosione del PCI e del suo sistema di alleanze

Ciò che avviene nel corso di quegli anni è una sorta di implosione del PCI e del suo sistema di alleanze, con l’avvicinarsi della tanto agognata prospettiva del Governo che trovava in questo nuovo orizzonte la possibilità di esprimersi pienamente.

Non intendo dilungarmi molto perché ciò che mi interessa sottolineare è che questo non avviene secondo lo schema di lettura tutto sommato consolatorio dei miglioristi da una parte, e gli altri dall’altra parte, ma attraversa gran parte del Partito, secondo la logica che il merito delle scelte sociali è sempre subordinato alla manovra politica, alla presa del potere politico.

In questo senso si liberano e si possono esprimere le diverse posizioni, non più coperte e limitate da una collocazione di opposizione. In questa nuova situazione, la F.L.M. rappresenta una anomalia, che diventa particolarmente evidente con lo sciopero generale dei Metalmeccanici e con la manifestazione del 2 dicembre del 1977 che si propone di collegare lo sblocco delle vertenze aziendali non ancora chiuse con la richiesta di cambiamento della politica economica industriale del Governo.

A poche settimane di distanza, all’inizio del ’78, le Confederazioni Sindacali, compiono invece la svolta dell’EUR che  chiude di fatto la stagione dei Consigli di Fabbrica, con la proposta dello scambio tra moderazione rivendicativa, non solo salariale come spesso si dice, e occupazione.

Si inaugura una nuova fase, quella della centralizzazione contrattuale e delle compatibilità condivise. Che si tratti di una svolta strategica del movimento sindacale, lo dice con grande chiarezza Luciano Lama, in un’ intervista rilasciata a Scalfari poco prima della riunione dell’EUR.

E’ impressionante rileggere oggi quel testo, per le aperture che vengono fatte su possibili licenziamenti dei lavoratori a fronte dei processi di ristrutturazione che erano in atto. Berlinguer intuisce che quel percorso verso il Compromesso Storico in realtà può portare ad incorporare il PCI nel sistema democristiano, come parte di un sistema politico di occupazione delle istituzioni e di connubio di affari e politica, perdendo la propria identità di soggetto politico di trasformazione e di cambiamento della società.

 

Berlinguer e il partito non sono esattamente la stessa cosa

Nel ’79 – ’80 dopo la sconfitta elettorale e successivamente con la proposta di Alternativa Democratica, chiude quella fase politica e il Partito si trova totalmente spiazzato. Berlinguer e il Partito negli anni ’80 non sono esattamente la stessa cosa. Sono noti gli atti che compie Berlinguer negli anni ’80, anche con un intervento diretto sulle vicende sindacali, dalla Fiat alla Scala Mobile.

Contemporaneamente sviluppa una riflessione a tutto campo sul movimento delle donne, sulle tematiche ambientali, sull’esigenza del Sindacato di recuperare un rapporto democratico con le lavoratrici e i lavoratori allentato dalla centralizzazione contrattuale. Sono spunti di analisi, di messaggi, che vengono lanciati direttamente ai militanti, all’elettorato del PCI.

Personalmente li ho vissuti, anche rispetto alla discussione aperta nel gruppo dirigente del Partito, come se volesse fare sapere che lui, Enrico Berlinguer, non aveva una risposta compiuta, ma che stava da una parte sola, di quelli che discutono, si interrogano e operano per il superamento del capitalismo.

In questo consisteva la “diversità” del PCI, che non era un giudizio morale, ma in primo luogo un giudizio politico, rispetto a derive che facevano proprio il sistema capitalistico e le sue degenerazioni politiche-affaristiche. Berlinguer impersonifica questo comportamento nella sua rigorosità intellettuale e morale. Nel suo comunicare, veniva percepito dai lavoratori e dalle lavoratrici come un politico serio, onesto, estraneo allo spettacolo miserabile della politica.

Il Partito sopportava con fastidio, ma pochi esprimevano questo dissenso perché consapevoli della popolarità del Segretario. Era oggetto delle chiacchiere di corridoio. Per dirla in altri termini, visto che l’orizzonte del socialismo è sempre più lontano e indefinibile, arrivati all’anticamera del Governo, la scelta di tornare all’opposizione non è digerita, non c’è più una linea strategica.

Per altro la controprova di questa situazione avviene rapidamente dopo la scomparsa di Berlinguer, con il Referendum sulla Scala Mobile. Il referendum è una scelta necessitata, voluta da un Segretario che non c’è più. Del resto tutte le associazioni del sistema della sinistra, movimento cooperativo, CNA, Confapi, Confesercenti dall’inizio degli anni ’80 sostengono tutte le posizioni della Confindustria e del Governo compreso il taglio della Scala Mobile.

La macchina del Partito è costretta a fare il minimo indispensabile, ma di fatto non si impegna nella campagna referendaria e lo stesso avviene per gran parte dei dirigenti sindacali. Mi è sempre rimasto il dubbio che in presenza di Berlinguer quell’esito referendario poteva essere diverso.

Credo che nessuno possa dire cosa avrebbe fatto Berlinguer nel 1989, come avrebbe sviluppato la sua riflessione, il suo interrogarsi rispetto a quel passaggio epocale. Aveva dichiarato “esaurita la fase propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”, ma sarebbe arbitrario e non rispettoso trarne una qualsiasi automatica conclusione rispetto agli accadimenti successivi.

Lo stesso rapporto Partito-Sindacato, Partito- Movimenti, non era privo di tensione ed era oggetto di riflessione. Credo tuttavia sia improprio affermare che in Berlinguer superi la tradizione classica della sinistra sulla divisione dei ruoli e sul primato della politica.

Un nodo irrisolto di un impianto politico e culturale di tutta la sinistra del Novecento, che è stato paradossalmente traslato nel rapporto con l’evoluzione e il cambiamento dalle forze politiche in questi ultimi decenni, come se non fosse successo nulla.

Anche questo spiega perché tutte le volte ad un governo di centro-sinistra ha sempre corrisposto la riedizione del Patto Sociale con le Organizzazioni Sindacali, fino all’avvento di un Segretario di Partito aderente all’Internazionale Socialista e Presidente del Consiglio che non riconosce il ruolo del Sindacato.

Siamo alla parodia beffarda di una storia conclusa da tempo e non riproducibile e l’intuizione della Fiom, alla metà degli anni ’90, del Sindacato indipendente e democratico, parlava anche di questo. In questo modo ho vissuto il rapporto con Berlinguer che, al di la del consenso o meno sulle scelte politiche, percepivo con un sentimento profondo di appartenenza per il suo operare finalizzato alla ricerca di un percorso democratico di superamento del capitalismo.

 

L’intervento di Gianni Rinaldini si è svolto martedi 21 ottobre 2014, a Brescia, presso l’Aula Magna della Facoltà di Economia dell’Università, all’interno del convegno di studi sul tema ”Centralità del lavoro e trasformazione della società nel pensiero di Enrico Berlinguer”. Il convegno è stato organizzato dall’Associazione Futura Umanità e dal Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Brescia.

 

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Category: Politica

About Gianni Rinaldini: Gianni Rinaldini (1951) ha iniziato la sua esperienza sindacale come delegato alle Ceramiche Rubiera, divenendo successivamente Segretario della Filcea (il sindacato chimici della Cgil). Entrato poi a far parte della segreteria della Camera del lavoro di Reggio Emilia, viene eletto Segretario generale nel 1989. Successivamente, è stato Segretario generale della Cgil dell'Emilia Romagna e, dal 2002 al 2010, ha ricoperto la carica di Segretario nazionale della Fiom. Attualmente è coordinatore dell’area programmatica «La Cgil che vogliamo» e presidente del Centro studi per l’Alternativa Comune, il cui manifesto politico-culturale è stato presentato a Roma nel settembre del 2011. «Inchiesta» ha pubblicato numerose sue interviste e interventi.

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