Franco Farinelli: Bologna ha perso la memoria

| 12 Marzo 2014 | Comments (0)

 

 

 

 

 

 

 

Diffondiamo da Il Manifesto del 12 marzo 2014 questo testo di Franco Farinelli, docente dell’Università di Bologna e presidente della Associazione geografi italiani

«Fino all’inizio della seconda metà degli Settanta, urbs e civitas erano tenute insieme. Ma il silenzio istituzionale sui fatti del ’77 e la tempestiva riconversione privatistica della gestione pubblica hanno portato alla crisi della coincidenza tra pratica politica e sentimento civico»

 

«A che punto è la città?/La città in un angolo singhiozza./Improvvisamente da via Saragozza/le auto­blindo entrano a Bologna./C’è un ragazzo sul marmo, giu­sti­ziato». Così Roberto Roversi ne Il Libro Para­diso. L’anno era il 1977, il giorno era l’11 marzo, il corpo quello di uno stu­dente, Fran­ce­sco Lo Russo, ucciso dalle forze dell’ordine nel corso di una mani­fe­sta­zione. E il senso dell’evento (a una let­tura imme­diata come quella di Fede­rico Stame) venne indi­vi­duato nel ten­ta­tivo di ricom­pren­sione da parte dello stato dell’intera società civile bolo­gnese all’interno del sistema politico-istituzionale nazio­nale, secondo la logica di una ten­sione tra governo urbano comu­ni­sta e potere cen­trale di segno oppo­sto ali­men­ta­tasi nel corso dell’intero dopo­guerra.

Ma i fatti del 1977, dal marzo che regi­strò la frat­tura tra città e uni­ver­sità fino al Con­ve­gno Inter­na­zio­nale sulla Repres­sione in set­tem­bre, signi­fi­ca­rono molte altre cose, toc­cando in pro­fon­dità, senza che la stessa cit­ta­di­nanza ne fosse dav­vero con­sa­pe­vole, la natura di Bolo­gna, la sua memo­ria e per­ciò la sua coscienza: al punto che l’intera tran­si­zione post-comunista della città, quella ancora in atto, rie­sce a svol­gersi e a (auto)legittimarsi sol­tanto sulla base del siste­ma­tico, strut­tu­rale silen­zio isti­tu­zio­nale su di essi. Pro­prio quel silen­zio che ha garan­tito e garan­ti­sce la soprav­vi­venza della poli­tica (della polis) al prezzo della pro­gres­siva diva­ri­ca­zione tra civi­tas e urbs, tra le pos­si­bi­lità di messa in comune della capa­cità cit­ta­dina di mani­po­la­zione sim­bo­lica e la cre­scita della città nella forma di sem­plice manu­fatto urbano, di com­plesso plu­ri­fun­zio­nale di costru­zioni, secondo la con­ce­zione andante di orga­ni­smo urbano: quella che, codi­fi­cata nell’Ency­clo­pé­die, domina da più di due secoli i nostri dizio­nari, e per­ciò la nostra mente. Lo stesso silen­zio rispetto al quale la man­cata ela­bo­ra­zione del lutto per il crollo del muro di Ber­lino, alla fine degli anni Ottanta, si porrà, nel nostro Paese, come replica allar­gata e ancora più fra­go­rosa. Come ha scritto in pro­po­sito, ica­sti­ca­mente, Mauro Boa­relli: «Anche quella che veniva esi­bita con orgo­glio come la capi­tale del comu­ni­smo euro­peo non ha tro­vato alcuno spa­zio pub­blico per con­fron­tarsi con la pro­pria storia».

Nel dopo­guerra e ancora fino all’inizio della seconda metà degli Set­tanta, al tempo del «buon­go­verno» inau­gu­rato da Giu­seppe Dozza, i fun­zio­nari della polis pone­vano al con­tra­rio la mas­sima cura nel tenere insieme l’urbs e la civi­tas, lo svi­luppo e la manu­ten­zione della città mate­riale con quello della coscienza civica intesa come rico­no­sci­mento di un unico, comune sen­tire, oltre che di comuni con­creti biso­gni. Erano i tempi della «demo­cra­zia sociale» bolo­gnese, al cui interno la rior­ga­niz­za­zione dei ser­vizi era con­ce­pita, per ripren­dere una distin­zione di Nadia Urbi­nati, non come un sem­plice atto dovuto ma come una proat­tiva «fun­zione della cit­ta­di­nanza demo­cra­tica», in grado cioè di favo­rire la com­ples­siva eman­ci­pa­zione sociale di tutti i sog­getti, anche quelli che in appa­renza del sin­golo ser­vi­zio non usu­frui­vano: si pensi sol­tanto all’invenzione della scuola a tempo pieno, in grado di ricon­fi­gu­rare il com­plesso delle rela­zioni tra i tempi del lavoro, dell’apprendimento e della cura fami­gliare, e per­ciò di tra­sfor­mare la strut­tura tem­po­rale del mec­ca­ni­smo dell’intera città; oppure si pensi, prima ancora, alla rifles­sione sul decen­tra­mento e alla nascita dei quar­tieri, volta a con­so­li­dare la par­te­ci­pa­zione dei bolo­gnesi alla vita in comune.

Se a par­tire dalla fine degli anni Ottanta l’autocritica manca, la ricon­ver­sione in senso pri­va­ti­stico della gestione pub­blica è però tem­pe­stiva, quasi che pro­prio que­sta fosse l’implicita ragione del nuovo corso del governo locale. Giu­sto al 1989 risale il pro­getto di pri­va­tiz­zare le far­ma­cie comu­nali volute da Dozza nel 1949, man­dato poi ad effetto un decen­nio dopo dal sin­daco Wal­ter Vitali in seguito a un refe­ren­dum con­sul­tivo che i diri­genti del Pds invi­ta­rono a diser­tare: con pieno suc­cesso, anche se in asso­luto dispre­gio degli stru­menti di par­te­ci­pa­zione diretta pre­vi­sti dallo Sta­tuto comu­nale.

In tale epi­so­dio si è voluto vedere l’avvio del pro­cesso di «tra­smu­ta­zione di tutti i valori» dell’amministrazione pub­blica di sini­stra cul­mi­nata nel pro­getto di riforma nazio­nale dei ser­vizi locali pro­mosso durante il secondo governo Prodi. Ma nell’immediato le con­se­guenze di tale deci­sione sull’ethos civico bolo­gnese furono evi­den­te­mente demo­li­to­rie: ridotto in tal modo alla pas­siva esi­bi­zione dei carat­teri cul­tu­rali e iden­ti­tari petro­niani (non escluso lo stesso buon governo defi­ni­ti­va­mente ridotto a mito) esso diverrà il ter­mi­nale sem­pre meno ricet­tivo di pra­ti­che e discorsi sem­pre più disco­sti rispetto al comune sentire.

Al riguardo la para­bola è esem­plare, e tutta orien­tata nel senso della pro­gres­siva crisi della coin­ci­denza tra pra­tica poli­tica e sen­ti­mento civico: parte dal sin­daco Gior­gio Guaz­za­loca (1999–2004), il primo sin­daco di centro-destra, alfiere di una ste­reo­ti­pata «bolo­gne­sità» e ter­mina con la gestione com­mis­sa­riale dell’ex mini­stra Anna­ma­ria Can­cel­lieri (2010–11), vale a dire con l’azzeramento di ogni pos­si­bile rap­pre­sen­tanza poli­tica locale. In mezzo due figure, molto dif­fe­renti tra loro, vis­sute però dalla cit­ta­di­nanza, per ragioni diverse, come due auten­tici infor­tuni: il sin­daco Ser­gio Cof­fe­rati (2004–9), per­ce­pito alla fine dai bolo­gnesi in ter­mini di quasi asso­luta estra­neità, e il sin­daco Fla­vio Del­bono (2009–10) il cui bre­vis­simo governo ter­minò scan­da­lo­sa­mente nelle aule giu­di­zia­rie.

Dato in tal modo fondo a ogni plau­si­bile mossa e get­tata la spu­gna, altro non restò alla fine al ceto poli­tico che affi­darsi, in con­trad­di­zione con tutta la sto­ria ammi­ni­stra­tiva pre­ce­dente, all’emissario del governo cen­trale, signi­fi­ca­ti­va­mente invi­tato dai due prin­ci­pali anta­go­ni­sti par­titi, alla fine del suo man­dato, a pre­sen­tarsi alle ele­zioni comu­nali come can­di­dato di spicco nelle pro­prie liste.

Le ragioni di tale cor­to­cir­cuito politico-amministrativo appar­ten­gono però non alla cro­naca ma alla sto­ria, alla matrice della coscienza poli­tica, all’estesa mente (mind) urbana costi­tuita dalla col­let­ti­vità nel suo rap­porto con la mate­riale strut­tura cit­ta­dina (brain) che allo stesso tempo la pro­duce e ne è il pro­dotto. E pro­prio l’ignoranza della natura di tale matrice è oggi all’origine dell’incapacità della poli­tica locale ad assol­vere il pro­prio com­pito: a Bolo­gna più mani­fe­sta­mente che altrove.

Già un secolo fa avver­tiva Adolf Loos che non si ha idea della quan­tità di veleno che abili pub­bli­ca­zioni spar­gono ogni giorno sull’idea di città, al punto da impe­dire ogni auten­tica com­pren­sione del fatto urbano. Tale veleno con­si­ste in sostanza nella tra­sfor­ma­zione della realtà urbana in sem­plice aggre­gato edi­li­zio, appunto secondo la cano­nica defi­ni­zione illu­mi­ni­stica all’inizio richia­mata, for­mu­lata da Dide­rot in per­sona. Così, ripor­tata all’organismo cit­ta­dino, la cele­bre affer­ma­zione della That­cher per cui «non esi­ste la società, esi­stono solo gli indi­vi­dui, di sesso maschile e fem­mi­nile» enun­cia non sol­tanto la fine di ogni idea di civi­tas, di col­let­ti­vità civile, ma anche di ogni rela­zione tra que­sta e l’urbs, secondo un pro­cesso di ridu­zione dell’idea di città che cul­mina oggi nel con­cetto di smart city: che signi­fica non città «intel­li­gente», come si dice, ma piut­to­sto «fur­be­sca­mente alla moda», da gestire secondo pro­grammi elet­tro­nici volti alla tra­sfor­ma­zione in senso azien­dale della città stessa.

Bolo­gna però non è una città intel­li­gente, è molto di più: è una città per natura cogni­tiva, nel senso che fin dalle ori­gini il suo com­pito è stato quello di svol­gere ruoli qua­ter­nari, con­nessi cioè alla pro­du­zione, all’interpretazione e alla messa in cir­co­la­zione di infor­ma­zione spe­cia­liz­zata. A volerla restrin­gere all’essenziale, nell’ultimo mil­len­nio e mezzo la sua sto­ria svolge in maniera esem­plare la vicenda dell’autorganizzazione di un sistema che attra­verso la pro­pria cre­scente com­ples­si­fi­ca­zione tra­sforma la pro­pria strut­tura con­creta senza però mutare la pro­pria logica, e con essa la pro­pria costi­tu­zio­nale iden­tità. E ciò in virtù della capa­cità di trarre par­tito dalla per­tur­ba­zione per rin­chiu­dersi in maniera diversa su se stessa, gene­rando nuovi ruoli e atti­vità in grado di man­te­nere e rin­for­zare la natura ori­gi­na­ria del fun­zio­na­mento. Essen­ziale resta il fatto che per qual­siasi orga­ni­smo i mec­ca­ni­smi dell’autorganizzazione sono quelli dell’attività cogni­tiva, i soli a per­met­tere, attra­verso il rico­no­sci­mento e il supe­ra­mento della crisi, la nascita di nuove fun­zioni in grado di garan­tirne la soprav­vi­venza e la cre­scita. E che cosa fu, all’alba del Mille, l’invenzione a Bolo­gna dello «Stu­dio», dell’università, se non il risul­tato di tale atti­vità da parte dell’organismo urbano bolognese?

Di con­verso: che cosa furono i fatti del 1977 se non l’effetto della soprav­ve­nuta inca­pa­cità da parte di Bolo­gna di acco­gliere, trat­tare, meta­bo­liz­zare e rimet­tere in cir­cuito il carico infor­ma­zio­nale che dalla seconda metà degli anni Ses­santa si era diretto verso di essa, e tra­durlo in ter­mini poli­tici? Della incapacità di supe­rare insomma un’ulteriore soglia del pro­prio pro­cesso auto orga­niz­za­tivo, di ope­rare come mille anni prima nel senso di una pro­gres­siva arti­co­la­zione della pro­pria natura qua­ter­na­ria, la sola il cui svi­luppo sarebbe stato in grado di con­ti­nuare a pre­ser­varne l’identità e per­ciò la coscienza, anzi il com­plesso delle coscienze?

Sul cer­chio di gesso che marca con­tro il muro di via Masca­rella il segno dei pro­iet­tili che l’11 marzo del 1977 ucci­sero Fran­ce­sco Lo Russo qual­cuno ha di recente appo­sto un tag nero: con­cre­tis­simi sog­getti, diversi dagli stessi stu­denti, pro­ve­nienti da lon­tano e por­ta­tori di cul­ture altre sono nel frat­tempo diven­tati visi­bili e si aggi­rano sotto i por­tici e lungo i viali. In fondo, come ha scritto Edgar Morin, «tutto ciò che esi­ste e si crea è qual­cosa d’improbabile che hic et nunc diventa neces­sa­rio». Il ritardo del dispo­si­tivo poli­tico bolo­gnese nel pen­sare la pos­si­bi­lità che «le cose potes­sero andare diver­sa­mente», per dirla con Karl Kraus, vale a dire il ritardo poli­tico di Bolo­gna dovuto alla sua man­canza di memo­ria, si tra­duce così nel dover fare i conti con neces­sità della cui por­tata sol­tanto oggi, a fatica e senza più grandi rife­ri­menti, essa ini­zia a ren­dersi conto.

 

 

 

 

 

 

 

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Category: Osservatorio Emilia Romagna, Politica

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