Bruno Giorgini: La canzone sovversiva di Claudio Lolli

| 11 Aprile 2014 | Comments (1)

 


 

Claudio Lolli canta, racconta, vive una unica canzone inestinguibile. Con lui disegnano le musiche Paolo Capodacqua alla chitarra e Roberto Soldati alla chitarra elettrica, Danilo Tommasetta al sassofono. Capodacqua musico di professione è il maestro d’armonie, Soldati dopo una giovinezza scapestrata facendo oggi il fisico teorico di vaglia – tra un accordo e l’altro si può con lui agevolmente discutere degli spinori di Majorana – e Danilo con una vita passata ai microfoni dell’antica Radio Città, poi Radio Città del Capo, a mettere in onda sound d’avanguardia che scovava in giro per il mondo nonchè commentando le imprese di Valentino Rossi ai tempi belli, oggi tra l’altro giardiniere, Tommasetta non Valentino.

Scrivono la musica nell’aria, si lanciano in audaci duetti le chitarre, fin quando si apre uno spazio dove irrompe il sassofono affilato come un rasoio, se preferite svelto e imprendibile come il guizzo di Garrincha la leggendaria ala del favoloso Brasile di Pelè, lasciandoti col fiato sospeso, aspetti, vorresti continuasse ma Danilo si ritira, torna nell’ombra lasciando tempo al silenzio dove scalpitano le parole di Lolli. La voce sostiene la musica come un tappeto d’erbe e fiori, la musica sostiene  la voce come un vento, poi svicola, si dimena, s’abbraccia preparando il prossimo movimento, e gli spettatori si spellano le mani.

Comincia Claudio Lolli: Pensammo una torre. Scavammo nella polvere. “Due versi di Pietro Ingrao, un poeta imprestato alla politica”. Il tono è subito dato, inizia un balzo di tigre nel passato, la rivoluzione secondo Marx che riprende l’espressione da Holderlin. Senza alcuna nostalgia perchè la tigre sta qui oggi, in questo teatro, seppure un po’ acciaccata, vuol dirci Lolli, intrecciando una canzone d’amore dove la parola compagno/a compare tredici volte, e “chi vuole se ne può andare, in Abruzzo s’è alzata metà sala”. Insomma questa sera è questione di poesia, di comunisti, d’amore e d’ironia.

L’intento è esplicito, fare della sala del teatro cinema Galliera pieno in ogni ordine di posti, il luogo  per esperimentare una utopia concreta. L’utopia, il luogo che non c’è, ma verso cui bisogna andare,  o bisogna costruire. Il pubblico lo segue, percorre la strada,  diventa un organismo con tanti corpi che vibrano all’unisono con le corde delle chitarre, l’emozione corre per onde dal palco alla platea andata e ritorno, mentre le canzoni prendono vita sempre più belle.

C’è il dissidente linguistico, che per fare la rivoluzione cambia la semantica, il significato delle parole, compare il mitico Folk Studio romano dove risuona sempre l’Internazionale, l’Adriatico da Rimini fino a Brindisi assunto come la faccia del potere – e qui non sono d’accordo, io amo l’Adriatico, mare molto più ribelle di quanto si creda guardando  l’immagine di Rimini – nè può mancare Piero Ciampi, secondo lo stereotipo padre nobile della canzone d’autore, riconsegnatoci nella sua dimensione sovversiva. Fino alla storia più intima del rapporto col padre che Lolli racconta con estremo pudore e dolore.

L’uomo non nasconde l’età nè le fatiche della vita, i fallimenti ma come un dandy consumato ci danza intorno, le carezza,  le usa per affermare che egli è quel che è, già ma chi è. Il poeta, il cantante dolce e romantico, colui che duro afferma la politica, “dio che palle”, o l’insegnante del Liceo Leonardo da Vinci, uno dei suoi studenti siede al mio fianco con piena adorante intelligenza critica, perchè è uomo di studi Lolli, e di tanto in tanto nei suoi versi è possibile cogliere un’eco dantesca. Francamente non c’importa di chi sia Lolli, c’importa stare lì incantati a ascoltarlo coi tre musici che rendono dinamica l’aria, a volte lo sberleffano con tenerezza perchè l’emozione non trasmuti in retorica e lo spettacolo non diventi eccessivo fino a sconfessare la vita, nessuna mistificazione deve prendere il sopravvento.

Così finisce il primo tempo, sulla soglia dell’impossibile utopia, prima che diventi possibile, quindi scontata, il comunismo delle burocrazie che stava già lì al fianco di Lenin prima di diventare l’enorme Stalin.

Arriva il tempo degli zingari felici, un capolavoro assoluto della lingua e della musica italiana, quindi del mondo. Una canzone infinita che francamente non si può raccontare, soltanto essere lì a sentirla, berla, nuotarci dentro, lasciarsi inabissare fino ai versi finali: ho visto anche degli zingari felici in Piazza Maggiore ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra. E’ senza scampo questa bellezza cantata da Claudio, Paolo, Danilo, Roberto, i compagni di questa sera che chiamiamo per nome. Possiamo soltanto amarla, sapendo che la luna, la vendetta e la guerra ci inseguono da anni nel futuro rimbalzando dal passato. Cosa ne faremo dipende da noi, da ciascuno. Per ora vale camminare nella notte bolognese cercando un taxì.

 

Category: Arte e Poesia, Musica, cinema, teatro, Politica

About Bruno Giorgini: Bruno Giorgini è attualmente ricercatore senior associato all'INFN (Iatitutp Nazionale di Fisica Nucleare) e direttore resposnsabile di Radio Popolare di Milano in precedenza ha studiato i buchi neri,le onde gravitazionali e il cosmo, scendendo poi dal cielo sulla terra con la teoria delle fratture, i sistemi complessi e la fisica della città. Da giovane ha praticato molti stravizi rivoluzionari, ha scritto per Lotta Continua quotidiano e parlato dai microfoni di Radio Alice e Radio Città. I due arcobaleni - viaggio di un fisico teorico nella costellazione del cancro - Aracne è il suo ultimo libro.

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