Bruno Giorgini: Il gatto e la volpe. Prodi e Berlusconi sul Corsera
Leggo sul Corriere del 2 febbraio due interviste [vedi allegato 1 e 2], l’una a Prodi, l’altra a Berlusconi forse le più interessanti dai giorni in cui Prodi fu giubilato dai “franchi traditori” del PD, centoventi dice il Professore bolognese, e Berlusconi propose le larghe intese, ottenendole assieme alla rielezione di Napolitano, la prima rielezione di un Presidente nella storia della Repubblica.
L’impressione è che i due tradizionali duellanti siano di gran lunga più in gamba, lucidi, intelligenti e astuti dei loro giovani emuli, da Alfano a Fitto, da Renzi a Letta che visti da queste interviste pare ancora non abbiano imparato il mestiere.
Cominciamo con Prodi. Intanto sulla sua caduta nella corsa al Quirinale, egli in modo esplicito indica D’Alema come il regista dello sgambetto: al telefono “D’Alema mi disse che certe candidature non si possono fare in modo così improvvisato. Fu allora che chiamai mia moglie Flavia in Italia, per dirle di andare pure alla sua riunione, tanto non sarebbe accaduto nulla. (..) Anche se mi aspettavo 60 defezioni, non 120.” E sempre D’Alema compare tra le righe, senza essere esplicitamente citato, nelle parole forse più amare di Prodi: “Nel 1998 il mio primo governo è caduto perchè andava bene. Non solo hanno buttato giù un ottimo governo, con Ciampi all’Economia, Andreatta alla Difesa, Napolitano agli Interni, Bersani all’Industria e poi Flick e Treu..Peggio ancora hanno distrutto l’entusiasmo. E ci vuole più di una vita per ricostruire l’entusiasmo.” Fu Bertinotti lo stolto killer del governo Prodi, ispirato come tutti sanno dal D’Alema furioso, che diventò Presidente del Consiglio, tra i peggiori della Repubblica trasformando Palazzo Chigi nell’”unica merchant bank al mondo dove non si parla inglese” (Guido Rossi dixit- e dice tutto).
Ma non è reclinato sul passato Prodi, tutt’altro. Spazia dall’euro “ la Germania la fa da padrone. E continua per la sua strada anche se molti osservatori (..) pensano che l’eccessivo surplus renda il rapporto di cambio dell’euro insopportabile per gli altri paesi (..) Anche per questo Italia, Francia e Spagna dovrebbero reagire prsentando un programm alternativo nei confronti della Germania”, al costo del lavoro “in Spagna è inferiore di appena il 7%, in Germania è superiore di oltre il 50%. Il problema è il modo in cui si lavora. E’ la paralisi del sistema produttivo. E’ la mancanza di una politica industriale”. Quindi FIAT, Electrolux e governo con poche e micidiali parole. “E’ oggettivo che l’affare FIAT si sia concluso senza la voce del governo. E sull’Electrolux c’è stata solo una mediazione a posteriori” Requiescat in pace il giovane Letta. L’ Italia si impoverisce. Eppure non c’è rivolta sociale. Perchè? Chiede Aldo Cazzullo, rispondendo Prodi: “Perchè la perdita del lavoro avviene goccia a goccia: infinite gocce che fanno molto più di un fiume, ma non fanno una rivoluzione. E ‘ un fenomeno mondiale: la frantumazione della classe media; la jobless society.“ Qui a un prodiano estremista come me vien da dire che prima o poi la goccia che farà traboccare il vaso arriverà, almeno spero. Ci sono molte altre cose dentro questa intervista che è un vero e proprio programma d’intenti, e un ottimista si augura che il ganzo fiorentino la prenda pari pari, presentandola per l’approvazione alla prossima direzione PD, ma non accadrà: Renzi per ora non ha la statura nè il coraggio per proporre e perseguire un autentico riformismo, quello teorizzato da Gobetti ne La Rivoluzione Liberale quando scrive: “Il realista sa che la storia è un riformismo, ma sa pure che il processo riformistico, nonchè ridursi a una diplomazia di iniziati, è prodotto dagli individui in quanto essi operino come rivoluzionari, attraverso nette affermazioni di contrastanti interessi”. Però, sebbene il Professore lo neghi, a me pare che sotto traccia emerga un volontà di mettersi in gioco, certo diciamo da un punto di vista “alto”, chissà mai il più alto scranno della Repubblica, quello di Presidente.
Dopo questo augurio passiamo all’intervista di Berlusconi a cura di Alan Friedman, che, non essendo noi vincolati dalla par condicio, tratteremo più in breve. Intanto dalle parole del cavaliere promana un serio ottimismo – senza rodomontate demagogiche – sulla prossima ventura vittoria di Forza Italia con consociate e affini nelle future elezioni politiche che prevede tra un anno, salvo la possibilità di cambiare idea. Egli pare avere del tutto superato il trauma della condanna penale per frode fiscale e dell’espulsione dal senato, così come l’ossessione delle toghe rosse che lo perseguitano. Lungo una intera pagina neppure una parola dice sulle sue vicende giudiziarie, e/o sul problema della giustizia. Neppure se la prende con Alfano e compagnia, anzi s’intende in filigrana che saranno accolti all’ovile, nell’orizzonte degli eventi futuri facendo balenare un grande centrodestra, attorno a FI, ma che non si ferma a questa. Inoltre il cav. manifesta una grande sicurezza sul patto stipulato con Renzi, e senza molti infingimenti, ne parla come di una proposta che propizierà la vittoria del centrodestra al primo turno, quando tra un anno si andrà a votare.
Sembra il cavaliere veramente un grosso gatto che si sia mangiato il topolino, che tra l’altro disse di avere avuto “una profonda sintonia” con Berlusconi, chissà perchè ne sentì il bisogno, non bastava dire “un buon accordo”, insicurezza giovanile, ganzismo fuori controllo o cos’altro, ai posteri l’ardua sentenza, certo fu uno scivolone che rimane. Il Cavaliere parla di economia, di PIL, d’Europa, attacca il governo ovviamente, e per le poche cose buone, se ne attribuisce il merito. Stando a questa intervista chi lo dava per prossimo alla “morte politica” dovrebbe rivedere il suo giudizio. Belusconi per ora non viene rottamato, anzi torna in campo con un nuovo look, una nuova “serietà”, e un nuovo mazzo di carte, parecchie coperte. Se il PD lo prenderà sottogamba, saranno dolori, e Renzi potrebbe uscire di strada alla prima curva.
Allegato 1: Intervista a Romano Prodi a cura di Aldo Cazzullo
[2 febbraio 2014 su Il Corriere della Sera]
Professor Prodi, l’Italia vive uno dei momenti peggiori del dopoguerra. E il sogno europeo appare infranto, con la Germania che vuole farla da padrone.
«Non è che vuole: la Germania la fa da padrone. E continua per la sua strada, anche se molti osservatori, tedeschi e non tedeschi, pensano che l’eccessivo surplus renda il rapporto di cambio dell’euro insopportabile per gli altri Paesi. Un surplus minore aiuterebbe l’economia di tutta l’Europa».
L’euro è troppo forte per noi?
«Oggi siamo quasi a 1,40 sul dollaro. Fossimo a 1,10, anche 1,20, saremmo in una situazione ben diversa».
L’euro era stato pensato per valere un dollaro?
«Più o meno. Ricordo, quand’ero presidente della Commissione europea, gli incontri annuali con il presidente cinese Jiang Zemin. Avevamo dossier alti una spanna, ma a lui interessava solo l’euro. Gli consigliai di comprarne come riserva. All’inizio il valore dell’euro crollò a 0,89 rispetto al dollaro e, quando tornai da Jiang, avevo la coda fra le gambe. Ma lui mi rasserenò subito: “Lei pensa di avermi dato un cattivo consiglio, ma io continuerò a investire in euro. Perché l’euro salirà. E perché non mi piace un mondo con un solo padrone: sono felice che accanto al dollaro ci sia un’altra moneta”. A causa degli errori europei, l’altra moneta accanto al dollaro sta diventando lo yuan. Le divisioni europee ci hanno fatto perdere occasioni enormi. Vai in Medio Oriente e ti senti dire: “Siete il primo esportatore e il primo investitore, ma non contate nulla”. Non c’è un grande problema internazionale in cui l’Europa abbia contato qualcosa».
Alle elezioni del 25 maggio si profila un successo delle forze antieuropee. Può essere una scossa?
«Lo sarà senz’altro. Questa del resto è la storia d’Europa. L’Unione ha sempre avuto uno scatto dopo le crisi. La prima volta accadde con la “sedia vuota” di De Gaulle. Oggi la sensazione è ancora più forte perché abbiamo sul collo il fiato della Cina, dove fortunatamente il costo del lavoro continua a crescere. Anche se rimangono ancora grandi differenze nel costo della mano d’opera standard, oggi Unicredit paga i neolaureati di Shanghai come quelli di Milano. Dobbiamo ritrovare una politica europea comune, se vogliamo avere ancora una leadership. Occorre ribaltare la situazione. Nelle svolte del mondo bisogna essere i primi a capirle».
L’Italia si impoverisce. Eppure non c’è rivolta sociale. Perché?
«Perché la perdita del lavoro avviene goccia a goccia: infinite gocce che fanno molto più di un fiume, ma non fanno una rivoluzione. È un fenomeno mondiale: la frantumazione della classe media; la jobless society ».
La società senza lavoro.
«Si distruggono i lavori di medio livello. Disegnatori, segretarie, praticanti degli studi legali, cassieri, impiegati delle agenzie di viaggio o degli sportelli bancari e assicurativi. L’altro giorno parlavo con il responsabile di una grande banca. Gli ho chiesto se tra dieci anni i dipendenti saranno più o meno della metà rispetto a oggi. Mi ha risposto che saranno molto meno della metà. Aumenta la disoccupazione diffusa, cui si cerca rimedio con i “minijobs”: spezzoni di lavoro pagati sotto la soglia di sussistenza. Ma quando tagli la fascia media, si distanziano non soltanto i redditi; si distanziano due parti della società. Si salvano solo gli innovatori. Non a caso gli Stati Uniti, patria dell’innovazione, vanno meglio di noi».
Perché proprio l’Italia è il grande malato d’Europa?
«Perché non agisce come un Paese unito. I problemi aperti esigono una risposta corale. Invece la società è frammentata. Il governo ha una cronica mancanza di autorità. I sindacati si saltano gli uni con gli altri, sono divisi anche all’interno della stessa organizzazione, e la Confindustria è stata sempre ben contenta di dividerli. Tra sindacato e grandi imprese ci sono tensioni, come alla Fiat, che non si sono viste in nessuno stabilimento europeo. Il problema non è il costo del lavoro: in Spagna è inferiore di appena il 7%; in Germania è superiore di oltre il 50%. Il problema è il modo in cui si lavora. È la paralisi del sistema produttivo. È la mancanza di una politica industriale».
Che valutazione dà del Jobs Act di Renzi?
«La direzione è quella buona. Ma bisogna tradurla in decisioni concrete. Devono capirlo tutti: il potere politico, i sindacati, le imprese. In questi anni si sono aperti molti tavoli di concertazione; la frammentazione li ha uccisi tutti».
Voi varaste il pacchetto Treu.
«Sì, noi usavamo l’italiano e lo chiamammo pacchetto».
Oggi a Palazzo Chigi c’è un suo allievo, Enrico Letta. Quale consiglio gli darebbe?
«Di tentare una sortita. Di prendere iniziative anche contestate. Di non avere paura di mettersi in una controversia».
In un articolo sul «Messaggero » lei ha ricordato che il potere pubblico è intervenuto ovunque in difesa dell’industria dell’automobile, dalla Spagna agli Stati Uniti, tranne che in Italia.
«È oggettivo che l’affare Fiat si sia concluso senza la voce del governo. E sull’Electrolux c’è stata solo una mediazione a posteriori».
Perché è andato a votare alle primarie del Pd?
«Ho deciso il giorno dopo la sentenza della Consulta. Perché ho avuto paura che riemergesse una legge elettorale che rendesse impossibile governare il Paese».
La nuova legge le piace? Cosa pensa dell’attivismo di Renzi?
«Non rispondo a questa domanda. Ho sentito il dovere di votare alle primarie come risposta a un’emergenza, non come scelta di tornare alla partecipazione. Il ruolo elettorale è un dovere civico, non significa proporsi o essere disponibili ad accettare una carica. Ho ritenuto che il Pd fosse indispensabile per evitare lo sfascio totale. Dopo di che non ho più preso parte alla politica attiva. Sarei solo di disturbo».
Perché?
«Perché ogni azione sarebbe interpretata come appoggio all’uno o all’altro, come un disegno personale per un futuro che non esiste».
Non vuole fare il presidente della Repubblica?
«No. Mi pare di averlo già chiarito in più di un’occasione. Il Paese è cambiato. C’è un nuovo mondo. Occorrono persone nuove che lo interpretino. La nuova politica, per linguaggio, contenuto, velocità, supera la mia capacità di comprensione. Non sono un uomo 2.0».
Lei ha raccontato una telefonata con D’Alema, nel giorno dei 101 franchi tiratori, da cui dedusse che sarebbe finita male. Come andò?
«Fu anche divertente. Ero in riunione a Bamako, in Mali. C’era un’atmosfera distesa. France Presse scriveva che stavo diventando presidente della Repubblica, tutti i capi di Stato africani mi facevano il pollice alzato. Io rispondevo con il pollice verso, perché sapevo già come sarebbe andata a finire. Avevo fatto le telefonate di dovere. Prima a Marini, poi a D’Alema, che mi disse che certe candidature non si possono fare in modo così improvvisato. Fu allora che chiamai mia moglie Flavia in Italia, per dirle di andare pure alla sua riunione, tanto non sarebbe accaduto nulla. Poi telefonai a Monti, che mi avvisò che non mi avrebbe votato perché ero “divisivo”. Infine telefonai a Napolitano perché ormai era chiaro come sarebbe andata a finire. Anche se mi aspettavo 60 defezioni, non 120: perché furono più di 101».
È stato scritto che lei è in contatto con Grillo e Casaleggio. È vero?
«Mai avuto rapporti politici di nessun tipo, salvo quello di spettatore divertito. Grillo venne a trovarmi nell’81 a Nomisma, per discutere gli aspetti economici dei suoi testi. Nel 2007 mi fece un’intervista strumentale a Palazzo Chigi: all’uscita disse che dormivo. Avevo invece risposto a tutte le sue domande, spesso con gli occhi chiusi, come faccio d’abitudine quando penso, e il filmato lo dimostra. Casaleggio è venuto una volta a salutarmi a un convegno pubblico a Milano. Stop».
Come valuta il successo dei Cinque Stelle?
«È un movimento di protesta che si manifesta in varie forme in tutti i Paesi europei, tranne che in Germania. La Merkel è stata molto abile ad assorbire il populismo, riassicurando i tedeschi a scapito del resto d’Europa. Anche per questo Italia, Francia e Spagna dovrebbero reagire presentando un programma alternativo nei confronti della Germania. Noi abbiamo gli stessi interessi, ma ognuno pensa di essere più bravo degli altri. Dai consigli europei si esce con le stesse decisioni con cui si è entrati».
La sua immagine pubblica è legata alla bonomia, alla fiducia. È raro trovarla così pessimista.
«Io sono pessimista per poter essere ottimista. Il passaggio dal pessimismo all’ottimismo si ha solo attraverso un’azione politica forte e coraggiosa. L’unico fatto positivo di questa crisi drammatica è che sta maturando la consapevolezza dell’emergenza, e della necessità di cambiare. Sempre più ci si rende conto che c’è troppa gente che soffre. Finora la sofferenza arrivava alla Caritas. Ora si è affacciata persino al Forum di Davos. Anche se la finanza ha ripreso a operare come prima».
C’è il rischio di un’altra bolla e di un altro crollo?
«Non ci sono state riforme fondamentali nel sistema finanziario. C’è più paura e quindi più consapevolezza ma non ci sono veri strumenti nuovi».
Nella storia italiana recente, e quindi nel declino del Paese, anche lei ha avuto un ruolo. C’è qualche errore che non rifarebbe?
«Questa è una domanda inutile. Ci sono sfide che si affrontano sapendo perfettamente che si incontrerà la resistenza e la reazione del sistema, e quindi con buone possibilità di fallimento; eppure sono sfide che affronterei di nuovo».
Faccia un esempio.
«La privatizzazione dell’Alfa Romeo. Trattai con Ford perché ritenevo necessario che ci fosse concorrenza. Arrivammo ad un progetto di accordo di grande respiro, però avvertii i negoziatori: se si mette di mezzo la Fiat, salterà tutto, perché si muoveranno i sindacati, le autorità ecclesiastiche, gli enti locali, insomma il Paese. Fu proprio quello che accadde. È vero che la Fiat offrì qualche soldo in più ma, in ogni caso, non vi furono alternative. I negoziatori della Ford conclusero dicendo: “Ci spiace molto; lei però ci aveva detto la verità”».
Le chiedevo di farmi l’esempio di un errore.
«È un errore sopravvalutare le proprie forze. Ma penso che oggi l’Italia abbia bisogno di essere messa di fronte alle sue sfide. Per questo parlo di “sortita”. Verrà il momento in cui le sfide non si potranno non affrontare. Se hai un disegno, devi anche rischiare. E io credo di aver rischiato sempre. Non a caso, sia il primo sia il secondo governo Prodi sono stati fatti saltare. Anche se tra le due cadute c’è una bella differenza».
Quale differenza?
«Nel 2008 il mio governo è caduto a causa della frammentazione politica e dei personali interessi di alcuni suoi membri ma, in ogni caso, era un cammino faticoso. Nel 1998 il mio primo governo è caduto perché andava bene. Non solo hanno buttato giù un ottimo governo, con Ciampi all’Economia, Andreatta alla Difesa, Napolitano agli Interni, Bersani all’Industria e poi Flick e Treu… Peggio ancora: hanno distrutto l’entusiasmo. E ci vuole più di una vita per ricostruire l’entusiasmo».
Rifarebbe pure il Pd?
«Il Pd è l’unico punto di solidità del Paese. Ma se fosse andato avanti l’Ulivo avremmo avuto il Pd già quindici anni fa, e l’Italia non sarebbe sprofondata in questa crisi politica».
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Allegato 2: Intervista a Sivio Berlusconi a cura di Alan Friedman
[2 febbraio 2014 su Il Corriere della Sera]
Pochi minuti prima di mezzogiorno, arrivo in via del Plebiscito, entro nel cortile di Palazzo Grazioli e un uomo della scorta mi porta in ascensore al piano nobile, che qui è il secondo, visto che il primo è un ammezzato. Mentre la mia troupe televisiva allestisce per le riprese l’ufficio di Silvio Berlusconi (sto girando una puntata per Corriere TV della nuova web serie basata sul mio nuovo libro, che esce tra pochi giorni con Rizzoli) io aspetto nel salotto. Mi guardo intorno, nelle stanze affrescate dell’imponente palazzo seicentesco, oggetti e mobili preziosi grondano sfarzo e magnificenza. Consolle bombate dorate con superfici in marmo. Posto su uno dei mobili con decorazioni in oro e intarsi pregiati c’è un modellino settecentesco del Colosseo, con una targhetta in granito su cui spicca la scritta, in stile romano, «La storia la scrive chi vince». Sento un cagnolino che abbaia, e intravedo alla fine del corridoio una porta che apre dall’appartamento privato del presidente. L’oramai immancabile Dudù fa una brevissima apparizione e poi viene riportato dentro. Io intanto arrivo nell’ufficio di Berlusconi e il mio sguardo corre alle pareti damascate giallo oro, alle tende abbinate, e si ferma su una consolle bombata sulla quale poggiano delle cornici piene di foto di Berlusconi con Bush, con Putin, con papa Ratzinger, con i figli, con la mamma Rosa. E poi arriva il Cavaliere, dimagrito dopo il soggiorno in beauty farm, sorridente e nel suo solito abito scuro a doppiopetto. Si siede dietro la sua scrivania e cominciamo un intervista a tutto campo.
Presidente, dopo lo storico incontro che lei ha avuto con Matteo Renzi alla sede del Pd e l’accordo sulla legge elettorale, qual è il suo parere sul segretario democratico?
«Renzi è un nuovo protagonista che è entrato di slancio nel panorama politico italiano e ha rinnovato il Partito democratico, che è sempre l’antico Partito comunista italiano, che ha cambiato tanti nomi ma è rimasto con le stesse persone, con le stesse sedi. Ha annunciato con coraggio e anche con un filo di arroganza, di voler rottamare tutti i vecchi campioni del partito. E l’ha fatto: uno dopo l’altro sono stati costretti, non per una sua azione diretta ma per il procedere della sua salita all’interno del partito, molti sono veramente ai lati, addirittura non in Parlamento. Quindi io spero che lui continui in questa direzione».
Le faccio notare comunque, presidente, che Renzi ha di fatto conquistato due terzi del partito e chi ha perso sono D’Alema, Cuperlo e il vecchio, quindi in un certo modo lui rappresenta un nuovo Pd, almeno agli occhi di un giornalista straniero.
«Io convengo e sono assolutamente contento che questo sia accaduto. Gli auguro di procedere affinché anche il residuo terzo venga mandato negli spogliatoi».
Ma parliamo adesso della sostanza, perché l’accordo annunciato da lei e Renzi era su tre questioni: legge elettorale, riforme istituzionali, Titolo V. Cominciamo con la legge elettorale.
«Io credo che continuerà il suo percorso e che sarà approvata dai due rami del Parlamento. Questa legge elettorale non è il meglio che si potesse fare, perché ancora una volta abbiamo dovuto fare i conti qui in Italia con i piccoli partiti, e questo è un fatto molto negativo che ci perseguita dal 1948. Ma oggi con l’ingresso di una terza forza tra destra e sinistra, una forza che ha messo insieme tutta l’antipolitica, tutti gli italiani disgustati da questa politica, quella portata avanti da Grillo, i numeri sia di destra che di sinistra si sono abbassati, e quindi siamo arrivati a dei numeri molto bassi come coalizione. Vede, io ho sempre ritenuto che noi dovessimo insegnare agli italiani a cominciare a capire come si deve votare. Abbiamo sempre guardato ai paesi meglio governati, Francia, Gran Bretagna e, soprattutto, Stati Uniti d’America: repubblicani e democratici, democratici e repubblicani».
Il bipolarismo…
«Il bipolarismo secondo noi è il miglior sistema per dare un governo efficiente ad una nazione. Purtroppo anche dopo la Prima Repubblica, con la legge elettorale che è in vigore ancora adesso, il voto frazionato è continuato».
Però lei non esclude che la Lega e Alfano possano in futuro far parte di una coalizione di centrodestra?
«No. Ma guardi, le dico, io ho una speranza, soprattutto se il voto arriverà tra oltre un anno, che da un lato il Partito democratico a guida Renzi, da un lato Forza Italia, possano operare in maniera tale da poter arrivare all’appuntamento della prossima campagna elettorale così forti da poter pensare di superare da soli la soglia del 37% che abbiamo messo per poter godere del premio di governabilità che aggiunge un 15% al 37 per arrivare a un 52%, che rende possibile governare. Questo dipende da molte cose, ma io per esempio ho un progetto che deriva da quello che successe a me nel ‘94 e da tutte le esperienze di questi anni. Sarà una follia, ma io penso di poter arrivare a superare il 37. Ho già avuto un risultato del genere nel 2008, perché nella coalizione raggiungemmo un 46 e passa, e il mio partito arrivò al 37 e passa. Però da allora è successo questo fatto, che Grillo è arrivato con il Movimento Cinque Stelle e, avendo raggiunto un risultato importante, il 25%, e oggi essendo ancora nei sondaggi intorno al 20- 21%, ha naturalmente abbassato i voti a disposizione di destra e sinistra. Quindi quel 37 già raggiunto, oggi diventa molto più difficile da raggiungere da parte di un solo partito. Ma io sono un ottimista e ho messo su un piano, forse un piano un po’ pazzo, ma io sono un cultore di Erasmo da Rotterdam…».
Ma questo piano lo vuole rivelare oggi?
«No, è prematuro. Ma io finisco con questa frase che Erasmo da Rotterdam ripeteva sempre: “Le decisioni migliori e più sagge non derivano dalla ragione ma nascono da una visionaria lungimirante follia”».
Cambiamo argomento e parliamo del vincolo europeo del 3%.
«È un vincolo che non ha nessun senso».
E il Fiscal Compact che richiede la riduzione del debito. Lei che proporrebbe?
«Io propongo che il Pil sia calcolato aggiungendo al Pil emerso il Pil sommerso. In questo modo noi andiamo sotto il 100% nel rapporto debito Pil. Cioè ci avviciniamo a quel 93% che è la media dei paesi dell’Euro. Aggiungo che quando c’è una economia che ristagna, non è assolutamente pensabile di togliere dall’economia dei soldi per ridurre il debito».
Ma nel Pil l’Istat già stima il sommerso al 17%.
«Ma è molto di più».
Qual è la sua previsione per l’economia italiana quest’anno?
«Non è una previsione positiva perché noi tentiamo di infondere coraggio, ottimismo, di dare speranze eccetera, ma la situazione in cui ci troviamo noi oggi è particolarmente precaria. Abbiamo degli svantaggi competitivi con le altre economie dell’Europa, e insieme all’Europa abbiamo da fare i conti con la competizione delle economie orientali, lei ha visto che la Cina ha superato nelle esportazioni l’America, sta diventando la fabbrica del mondo. Quali sono le cose insuperabili? Soprattutto due: il costo del lavoro e le imposte sugli utili. I paragoni non reggono e quindi io credo che sarà molto difficile per noi come Europa di reggere questa competizione».
Presidente, lei ha fiducia nella capacità del governo Letta di lanciare la riforma del mercato del lavoro, di avviare le misure adeguate per agganciare la ripresa e stimolare la crescita?
«Mi spiace di dover rispondere negativamente, ma purtroppo abbiamo ormai l’esperienza di questa prima sessione di governo che è durata molti mesi in cui addirittura non sono state mantenute le promesse che erano intercorse tra noi e loro quando abbiamo con molta responsabilità detto sì a un governo di Grosse Koalition , di larghe intese. Le ricordo anzi che dopo il risultato delle elezioni che appunto era stato determinato da Grillo, noi abbiamo subito offerto al Partito democratico di fare un governo insieme. Il Partito democratico, che ha contro di noi una antica avversione che deriva dall’ideologia comunista, ha invece tentato di fare il governo col partito di Grillo, con i Cinque Stelle, e per due mesi il segretario…».
Quello, scusi se la interrompo, era il vecchio Pd guidato da Bersani.
«Era il vecchio Pd, assolutamente. E Bersani ha battuto per due mesi alla porta di Grillo ricevendo sberleffi e anche insulti. Finalmente dopo due mesi si è rassegnato, è venuto da noi e ci ha proposto di fare un governo, a condizioni quasi inaccettabili, cioè una rappresentanza parlamentare di soli 5 ministri su 23, ma soprattutto non ha aderito alla nostra sacrosanta richiesta di sederci a un tavolo e di scrivere un programma preciso. Hanno detto no, nessun programma preciso, ci diamo la mano, e voi ci dite i punti su cui dobbiamo impegnarci. Vista la malaparata, noi decidemmo di accettare anche questa situazione che era veramente al di fuori della logica. Allora noi abbiamo preso i tre punti su cui avevamo battuto durante la nostra campagna elettorale: punto primo, abolire l’imposta sulla casa, l’Imu; punto secondo non aumentare l’Iva, dal 21 al 22%, perché è un fatto anche psicologico, che deprime la voglia di spendere da parte dei cittadini, anzi di abbassare l’Iva dal 21 al 20. E la terza cosa era cambiare i modi di approccio di Equitalia e dei suo funzionari con i contribuenti. Sull’Imu, ha visto che cosa è successo, un pasticcio incredibile che ha fatto diminuire dal 6 al 10% il valore di tutti gli immobili, di tutte le case in Italia. Per quanto riguarda l’Iva, è stata portata addirittura al 22%, il contrario di quello su cui Letta si era impegnato. Ma siamo riusciti a cambiare qualcosa nei sistemi di Equitalia grazie alla nostra capacità di agire in Parlamento».
Quindi per lei sarebbe meglio tornare alle urne? E se sì, quando?
«Io non penso sinceramente che sia possibile tornare alle urne in un election day insieme con le elezioni per il Parlamento europeo e con 18 milioni di italiani chiamati alle Amministrative. Se si riuscisse ad arrivare in tempo con la legge elettorale noi saremmo d’accordo di andare il 25 di maggio. Ma se intanto si comincia a lavorare sui cambiamenti della Costituzione nelle due direzioni che abbiamo ricordato, dato che per questi cambiamenti ci vogliono non due ma quattro votazioni a distanza di tre mesi l’una dall’altra, si va avanti di un anno o anche più di un anno. In quel caso si andrà a votare tra un anno e qualche mese e per noi, questa cosa credo che funzioni molto bene»
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