Romeo Pisano: La memoria degli invisibili
Pochi anni or sono sulla stampa apparve la notizia, inosservata dai più, della digitalizzazione degli atti relativi al famigerato Casellario Politico Centrale, nel quale è possibile reperire informazioni sulle persone che si opposero, anche a costo della vita, al regime fascista.
In verità la creazione di un’anagrafe delle persone considerate pericolose per l’ordine e la sicurezza pubblica risale ai tempi del Governo Crispi che istituì, nell’ambito della Direzione generale di pubblica sicurezza, un ufficio con il compito di curare l’impianto e il sistematico aggiornamento dello schedario degli oppositori politici. Anarchici, comunisti, repubblicani, socialisti ma anche oziosi e vagabondi furono oggetto di una capillare attività di sorveglianza che alimentò un consistente archivio di fascicoli personali.
Dal 1925, l’organizzazione dell’ufficio assunse il nome di Casellario politico centrale.Durante il periodo fascista l’attività di sorveglianza e controllo della polizia si amplificò comprendendo non più soltanto i politici ma tutta una indeterminata categoria di persone, definita genericamente antifascista, per credo, religione o appartenenza etnica.
Oltre 150 mila furono i fascicoli personali con documenti che si concentrano soprattutto tra il 1894 e il 1945. I fascicoli traboccano di note informative, relazioni, verbali di interrogatori, provvedimenti di polizia, indicazioni di iscrizione nella Rubrica di frontiera o nel Bollettino delle ricerche. Spesso compare anche una scheda biografica che riporta sinteticamente e cronologicamente tutta l’attività dello schedato.
Allo studio di questa miniera ho deciso di dedicarmi per cercare le ragioni di un periodo oscuro della storia del nostro paese, ma soprattutto la memoria di uomini e donne che hanno sopportato, talvolta sino all’estremo sacrificio, indicibili sofferenze in nome dell’antifascismo e della libertà.
Dal punto di vista analitico i fascicoli in questione riguardano 152.589 persone di cui 5.005 donne, schedate in 5 principali categorie politiche: comunisti 43.529; antifascista 35.848; socialisti 35.446; anarchici 26.549; repubblicani 5.262. A seguire catalogazioni vaghe che indicano la facilità con cui un soggetto poteva incappare nelle grinfie della polizia politica a causa di delazioni o segnalazioni, arbitri e prepotenze degli agenti, pratiche religiose non conformi o mancata iscrizione al Partito fascista.
Per quanto attiene alle categorie economiche e sociali non sussiste alcun dubbio che l’opposizione al fascismo coinvolse gli strati più poveri della popolazione: operai, contadini, braccianti, cioè coloro che l’ideologia marxista indica come proletari; solo poche migliaia avevano professioni tali da potersi definire intellettuali.
Da questo punto di vista i dati contenuti nell’archivio sono inequivocabili: il contributo alla lotta antifascista dei soli calzolai (6.069) supera di gran lunga la somma di studiosi e docenti coinvolti nell’opposizione al regime. A margine di questo ultimo dato la singolare constatazione che un terzo dei calzolai era di fede anarchica, il che meriterebbe un ulteriore approfondimento.
***
Disaggregando i dati è possibile ricostruire il quadro dell’antifascismo nelle singole province e di conseguenza anche di Benevento e del suo territorio.
Nella provincia di Benevento gli oppositori al regime fascista segnalati nel Casellario Politico furono 403, di cui 8 donne, schedati secondo le ricorrenti categorie politiche: socialisti 169, antifascisti 105, anarchici 74, comunisti 27, repubblicani 7.
Numeri in verità assai modesti se si considera che la schedatura spesso non corrispondeva ad effettivi atteggiamenti di opposizione al fascismo, ma ancora più modesto appare da questo punto di vista l’impegno dei cittadini di Benevento.
Il casellario politico annovera 137 segnalazioni di cui una sola donna, Assunta Parlanzina, casalinga, antifascista, denunciata per offese al Capo del Governo.
Risultano schedati 80 socialisti, 23 anarchici, 20 antifascisti, 4 repubblicani e 3 comunisti.
Dai dati emerge il quadro di una città in cui l’antifascismo non fu mai un valore collettivo e condiviso, ma la lotta estrema di un manipolo di uomini e donne che non si rassegnarono alla dittatura, il cui eroismo meriterebbe una più profonda e riconoscente memoria.
Ma già parlare di memoria in una città sonnolenta e immobile, per antica cultura papalina, è del tutto fuori luogo, pretendere poi che si ricordino persone lontane nel tempo e ancora più dalla cultura cittadina ai giorni nostri, appare una estrema esagerazione. Eppure quelle persone, oltre a meritare il nostro rispetto, avrebbero diritto a essere ricordate ad ogni angolo di strada, in ogni aula scolastica.
A guidare il manipolo di antifascisti beneventani vi era un gruppo di 9 ferrovieri; a uno di loro, che spinse fino all’estremo sacrificio il suo essere Socialista e Antifascista, e alle vicende di sua moglie Rosa, è riferita la storia che segue.
Vincenzo
Considerate se questo è un uomo…
che non conosce pace…
che muore per un sì o per un no.
Il suo nome era Vincenzo Mauro, nato il 19 novembre del 1887, da Pasquale (detto Palillo) e Vincenza Marotti, in uno dei quartieri più popolari di Benevento; figlio di un calzolaio sin dalla giovane età entrò in contatto con il socialismo tanto che alcune informative di polizia recitano: “… sin dalla piccola età ha professato idee socialiste (…) fin dall’infanzia professò idee socialiste ed appartenne al partito Basile”.
Nel 1914 fu assunto presso le Ferrovie dello Stato con la qualifica di Operaio di prima classe presso la stazione di Benevento e successivamente presso quella di Avellino.
Sposò Rosa Miranno (o Miranda) dalla quale nel corso degli anni ebbe 6 figli, oltre a un bambino preso in affido dal locale orfanotrofio in occasione della morte prematura della primogenita.
Le prime tracce della sua attività politica si ritrovano nella foto del Sindacato Ferrovieri Italiani che rende onore ai partecipanti agli scioperi del 1922, nei quali la classe si era contraddistinta per compattezza e determinazione nello scontro con il nascente fascismo.
La resistenza del sindacato provocò un inasprimento delle misure cautelative nei confronti dei ferrovieri; dopo la “marcia su Roma” divenne aperta la persecuzione e l’epurazione, tanto che nel 1923 furono licenziati in migliaia, esonerati dal servizio, spesso con la motivazione fittizia dello “scarso rendimento”.
Fu in quella occasione che Vincenzo Mauro venne incluso “nell’elenco delle persone pericolose da arrestare in determinate contingenze”, siano esse visite di gerarchi o avvenimenti di rilievo riguardanti Benito Mussolini o la famiglia reale.
Qui inizia il suo calvario “in determinate contingenze”: prelevato da casa, in via San Filippo 94, senza alcun motivo e sottoposto a umiliazioni e scherni.
Il 5 settembre del 1926 fu arrestato con l’accusa di aver distribuito materiale sovversivo e offeso Mussolini e la famiglia reale: durante la marcia di trasferimento di un contingente militare vennero rinvenuti sulla strada alcuni opuscoli redatti in occasione del secondo anniversario del delitto Matteotti e alcune copie del giornale l’Unita.
In verità gli atti in archivio, redatti da agenti privi delle minime competenze e di cultura, non chiarirono come si fosse arrivati al suo arresto, fornendo versioni diverse, quasi sempre contraddittorie, dell’accaduto.
Venne sottoposto a interrogatori pressanti tali da costruire l’ipotesi del suo coinvolgimento, con due complici che risulteranno assolutamente estranei.
Nei rapporti di polizia cominciò allora a circolare, nella più frequente prassi della ferocia fascista, l’ipotesi che Vincenzo Mauro fosse “folle socialista, squilibrato, epilettico, dedito all’alcool e malato di mente”.
Questi termini reiterati in un copia e incolla, degno dei nostri tempi, lo portarono ad essere sottoposto a perizia psichiatrica nel 1927 mentre era detenuto.
Nel 1928 il Tribunale di Napoli lo assolse per insufficienza di prove e negò l’autorizzazione di internamento in ospedale psichiatrico, sentenza che venne ribadita nel 1929 dallo stesso tribunale con la conferma dell’assoluzione.
Torna in libertà un uomo oramai annientato, che puntualmente viene arrestato “in determinate contingenze” – come quella del 6 dicembre del ’29, in occasione delle nozze del principe ereditario -, e accusato di resistenza a pubblico ufficiale.
Cosi raccontava uno dei figli: “Qualcheduno non mancava di schernire e deridere per strada anche mio fratello, il quale riferì il tutto a mio padre, che nei giorni successivi decise di seguirlo; non appena il poliziotto accennò a prendere in giro mio fratello, mio padre si fece avanti ed iniziò una lite furibonda …”
Nel 1930 Vincenzo Mauro, senza provvedimento giudiziario e per ordinanza della questura di Benevento, fu internato nel manicomio di Aversa e nel 1936 trasferito a quello di Nocera Inferiore.
Considerandolo oramai inoffensivo e con l’intento di cancellare ogni traccia di questa storia, il 10 novembre ’33 il Ministero degli Interni revocò ogni provvedimento cautelativo nei suoi confronti e dispose la radiazione dall’elenco dei pericolosi da arrestare in determinate circostanze.
Un laconico dispaccio della prefettura di Benevento in data17 febbraio 1941 avente per oggetto “Mauro Vincenzo, demente Socialista” comunicò che “il soprascritto sovversivo, ricoverato presso il manicomio di Nocera Inferiore è deceduto il 31 gennaio1941 per stato epilettico grave”.
Aveva 54 anni Vincenzo Mauro, undici dei quali passati nella segregazione nel luogo in cui il fascismo seppelliva ancora vivi gli uomini che avevano l’ardire di opporsi. Non è mai stata rinvenuta alcuna documentazione inerente le cause del decesso e il luogo di sepoltura.
Nel 1946, dopo la sua morte, le Ferrovie dello Stato lo richiamarono in servizio riconoscendogli lo status di perseguitato politico. Sono passati 79 anni e nessuno ha mai più scritto il suo nome: considero un privilegio l’averlo fatto.
Rosina
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome,
senza più forza di ricordare,
vuoti gli occhi e freddo il grembo.
Per capire fino in fondo la storia di un uomo occorre guardare una sua foto o di chi gli vive accanto, ciò per evitare a chi scrive di fornire un racconto inutile, vago e mai vero.
Quando mi è capitata tra le mani la foto di Rosina, a corredo di un vecchio articolo di giornale, ho immediatamente compreso che sul viso era impresso, oltre al suo personale destino, anche la storia che volevo raccontare.
Più che di storia si tratta di tragedia, il cui senso vero lo trovi nel cercare, usando un termine moderno, i danni collaterali di una vicenda che molto spesso finiscono per svelare destini ancora più atroci di quello che stai raccontando.
Era una bella donna Rosina, come poteva essere bella e dignitosa una donna a quei tempi, con lo sguardo rivolto oltre, verso un orizzonte lontano dalle amarezze che circondavano la sua vita.
Era una donna forte Rosina, all’anagrafe Rosa Miranno, e forse aveva dovuto diventarvi, vivendo accanto al marito Vincenzo, ferroviere socialista. A 32 anni si era trovata ad affrontare una vita durissima, sette figli. Il marito ristretto in carcere e sospeso dal lavoro, una casa modesta in via San Filippo, 24 (o 94), successivamente una casa ancora più modesta in vico II Bagni numero 15.
Durante la detenzione del marito si era rivolta a uno scrivano per una supplica a Benito Mussolini invocandone la scarcerazione, ma la stessa probabilmente non arrivò mai al dittatore, rimanendo nei cassetti della Questura di Benevento.
Da allora si era rimboccata le maniche e con mille sacrifici ed espedienti riusciva a recuperare il minimo vitale per la sua numerosa famiglia: cuoca in una cantina storica di Via San Filippo, dove i figli davano una mano a servire ai tavoli per rimediare un pasto, e contemporaneamente “capera” una sorta di acconciatrice a domicilio per le signore del quartiere, alle quali non mancava di cucinare il suo rinomato pollo ripieno.
Probabilmente la sua sopravvivenza era dovuta anche alla solidarietà della gente del quartiere e questa solidarietà lei ricambiò appieno.
La descrivono come una donna estremamente generosa e questa sua qualità la condusse verso un destino ancora più tragico e crudele di quello che fino ad allora la vita le aveva riservato.
Era agli inizi di settembre del ’43, a due anni dalla morte del marito, Benevento fu teatro una serie di duri bombardamenti fino alla dichiarazione di armistizio del Generale Badoglio, fatto che indusse molti cittadini a ritornare nelle proprie case, ritenendo la guerra oramai finita.
Un’amica di famiglia chiese del pane per la propria famiglia, privata di cibo da ormai troppi pasti, e Rosa generosamente si recò presso la sua abitazione, in compagnia del figlio Giovanni: era l’11 settembre alle ore 14 e un bombardamento di inaudita intensità si scatenò sul centro della città coinvolgendo anche la sua casa.
Morì a 49 anni sotto le macerie ed il suo corpo fu recuperato alcune ore dopo, scavando a mani nude, dai figli che si avviarono poi verso l’ospedale di San Giovanni di Dio.
Cosi raccontava uno dei figli: “Mentre trasportavamo il corpo di mia madre verso l’ospedale, in corrispondenza del ponte sul fiume Calore fummo fermati da una pattuglia tedesca che ci costrinse a deporre il corpo e sgomberare il ponte dalle macerie. Quando riuscimmo ad arrivare all’ospedale trovammo un quadro straziante, morti e feriti dappertutto… poco dopo arrivò una nuova ondata di bombardamenti, se possibile ancora più devastante che distrusse completamente l’ospedale. Solo sei mesi dopo riuscimmo a recuperare il corpo di mia madre e dargli sepoltura”.
Rosa divenne una delle 3 mila persone che la guerra rese invisibili nel giro di poche ore; ancora oggi nei pressi di Vico Bagni è possibile vedere le macerie di quel bombardamento.
Quei posti potrebbero parlarci di Rosa, Vincenzo e tanti altri, ma in realtà non raccontano nulla a chi parcheggia nei pressi la propria auto.
…. Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
* pubblicato da “IlVaglio.it” il 15 gennaio 2020
Category: Guardare indietro per guardare avanti, Osservatorio Sud Italia