David Grossman: Israele sia una casa non una fortezza. Ricordando Uri

| 20 Aprile 2018 | Comments (0)

 

 

 

Su segnalazione di Sergio Tagliacozzo  pubblichiamo il discorso integrale pronunciato martedì sera dallo scrittore israeliano David Grossman alla cerimonia organizzata dal Parents Circle – Families Forum, che riunisce i parenti israeliani e palestinesi di vittime delle guerre o degli attentati. Il discorso è stato diffuso da Il Corriere della sera il 18 aprile 2018. Il figlio Uri di David Grossmann è morto ventenne nel 2006 ucciso da un missile.

 

Cari amici, buona sera. Si sono levate non poche rimostranze attorno alla nostra cerimonia, ma noi non dimentichiamo che questa è, e resta, soprattutto una commemorazione del ricordo e della condivisione. Il clamore, anche se è presente, resta a noi estraneo, perché al centro di questa serata avvertiamo una profonda quiete, la quiete del vuoto scavato dalla perdita. La mia famiglia ha perso Uri in guerra, un ragazzo dolce, allegro e in gamba. Ancora oggi, quasi dodici anni dopo, mi è difficile parlare di lui in pubblico. La morte di una persona cara è anche la morte di una cultura privata, personale e unica, con un suo linguaggio speciale e i suoi segreti. Tutto questo è svanito per sempre, e non ritornerà mai più. Confrontarsi con questo «mai più» definitivo è terribilmente doloroso. Ci sono momenti in cui questo dolore risucchia dentro di sé tutto quello che esiste e tutto quello che rappresenta il nostro «ancora».

È difficile ed estenuante combattere senza tregua contro la forza gravitazionale della perdita. È difficile separare il ricordo dal dolore. È doloroso ricordare, ma è ancor più spaventoso dimenticare. E quanto sarebbe facile, in questa situazione, cedere allo sdegno, alla rabbia, alla brama di vendetta. Ma ho scoperto che ogni volta che sono tentato dalla rabbia e dall’odio, immediatamente mi accorgo di smarrire il contatto quotidiano con mio figlio, che ancora sento vivere in me. Qualcosa si inceppa. Allora ho preso questa decisione. Ho fatto questa scelta. E credo che tutti coloro che sono qui questa sera hanno fatto anche loro la medesima scelta. E io so che persino nel dolore esiste il respiro, la creatività, la capacità di fare il bene. Il lutto non solo isola, ma sa anche unire e rafforzare. Persino i nemici storici, come gli israeliani e i palestinesi, possono stringere tra di loro un rapporto che nasce dal lutto, e a causa di questo.

In questi anni ho incontrato molte famiglie in lutto. Ho detto loro, in base alla mia esperienza, che persino nel più profondo dolore vale la pena ricordare che ciascun membro della famiglia ha il diritto di piangere la scomparsa nel modo che ritiene più opportuno, a seconda del suo carattere, a seconda della sua interiorità. Nessuno può insegnare a un altro come piangere una scomparsa. Se questo vale per le famiglie private, vale anche per la più grande «famiglia in lutto» in Israele. C’è un profondo sentimento che ci unisce, un senso di destino comune, e un dolore che solo noi conosciamo, per il quale non esistono parole per descriverlo all’esterno, alla luce del giorno. Perciò se l’espressione «famiglia in lutto» è genuina e sincera, vi preghiamo di rispettare il nostro percorso, perché merita rispetto.

Non è un cammino facile, né scontato, e non è scevro da contraddizioni interne, ma è il nostro modo di dare un senso alla morte dei nostri congiunti, e alla nostra vita dopo la loro morte. È anche il nostro modo non solo di piangere la perdita insieme, bensì anche di contemplare il fatto che non abbiamo fatto abbastanza per scongiurarla. E nel nostro modo di fare e di agire – rifiutando di abbandonarci alla disperazione e di cercare una risposta – sta la speranza che in futuro la guerra si allontanerà, e forse cesserà del tutto, e noi ricominceremo a vivere, a vivere una vita piena, non solo a sopravvivere da una guerra all’altra, da una tragedia all’altra. Noi, israeliani e palestinesi che abbiamo perso nelle nostre guerre coloro che ci erano più cari, più cari ancora della nostra stessa vita, noi siamo destinati a toccare la realtà attraverso una ferita ancora sanguinante. Chiunque abbia riportato una simile ferita sa fino a che punto la vita è fatta di grandi concessioni, di infiniti compromessi. Sono convinto che il lutto ci rende più lungimiranti, tutti noi convenuti qui stasera. Lungimiranti per quel che riguarda i limiti della forza, per quel che riguarda l’illusione che sempre accompagna colui che la esercita. Ci sentiamo anche più sospettosi, più di quanto non lo fossimo prima della tragedia, e ci sentiamo invadere dal ribrezzo davanti allo sfoggio di futile orgoglio, alle espressioni di arroganza nazionalistica, ai discorsi vanagloriosi dei capi di governo. No, tutto questo non ci insospettisce nemmeno più: siamo diventati allergici.

Questa settimana, Israele celebra il 70° anniversario della sua fondazione. Io spero che potremo celebrare ancora questa ricorrenza per molti anni a venire, con le future generazioni di figli, nipoti e pronipoti che vivranno qui, a fianco di uno stato palestinese indipendente, in pace, sicurezza e creatività, ma soprattutto nel tranquillo trascorrere dei giorni, in buoni rapporti di vicinato. Mi auguro che tutti si sentiranno ugualmente a casa propria. Come definire la casa? La casa è il luogo i cui muri – i cui confini – sono chiari e pattuiti. La cui esistenza è stabile, inoppugnabile e serena. I cui abitanti conoscono bene i suoi codici intimi. I cui rapporti con i vicini sono basati su norme concordate. Un luogo che proietta un senso di futuro. Noi israeliani, persino dopo 70 anni – a prescindere dai mille discorsi patriottici che saranno pronunciati nei prossimi giorni – non siamo ancora arrivati a quel punto. Non siamo ancora a casa. Israele è stato fondato per far sì che il popolo ebraico, che mai si è sentito a casa propria in giro per il mondo, potesse finalmente avere una casa. E oggi, 70 anni dopo, malgrado tante meravigliose conquiste nei più svariati campi, il forte stato di Israele somiglia piuttosto a una fortezza, ma non ancora a una casa.

La strada per risolvere l’immensa complessità dei rapporti che intercorrono tra Israele e i palestinesi può riassumersi in una formuletta: se i palestinesi non hanno una casa, nemmeno gli israeliani potranno averne una. Ma anche l’opposto è vero: se Israele non ha una casa, nemmeno la Palestina sarà casa per il suo popolo. Ho due nipotine, di sei e tre anni. Per loro, Israele è un dato di fatto. È ovvio che abbiamo uno stato, che ci sono strade, scuole e ospedali, così come c’è il computer alla scuola materna, e che parliamo una lingua ebraica viva e rigogliosa. Io appartengo invece a una generazione per la quale nulla di tutto ciò era dato per scontato, e parlo da quel tempo, da quel luogo fragile e incerto che ricorda ancora il terrore esistenziale, ma anche l’intensa speranza di essere finalmente tornati a casa.

Ma quando Israele opprime un altro popolo per 51 anni, e occupa le sue terre, e mette in piedi una realtà di apartheid nei territori occupati, ecco che diventa molto meno di una casa. E quando il ministro della difesa Lieberman tenta di impedire ai palestinesi costruttori di pace di partecipare a un incontro come questo nostro, Israele non è la mia casa. E quando il governo israeliano imbastisce accordi discutibili con l’Uganda e il Ruanda, ed è pronto a mettere a rischio la vita dei richiedenti asilo e di deportarli in luoghi a loro ignoti, forse incontro alla morte, Israele è molto meno di una casa ai miei occhi. E quando il primo ministro diffama e accusa le organizzazioni per i diritti umani, quando cerca il modo di attuare leggi che aggirano la corte suprema di giustizia, e quando si crea un clima di costante opposizione alla democrazia e alla magistratura, Israele diventa ancora meno di una casa. Per tutti.

Quando Israele trascura ed emargina i residenti delle periferie, quando abbandona e svilisce gli abitanti dei quartieri sud di Tel Aviv, quando indurisce il suo cuore davanti alle difficoltà dei deboli e di coloro che non hanno voce – i sopravvissuti all’Olocausto, i bisognosi, le famiglie con un solo genitore, gli anziani, gli istituti per i bambini allontanati dalle loro famiglie, gli ospedali al collasso – Israele è meno di una casa. È una casa disfunzionale. E quando Israele discrimina e penalizza un milione e mezzo di cittadini israeliani di origine palestinese, quando trascura l’immenso potenziale che essi rappresentano per una vita condivisa nella nostra nazione, Israele è meno di una casa, sia per la maggioranza che per la minoranza. E quando Israele respinge l’ebraismo di milioni di ebrei riformati e conservatori, ecco che di nuovo diventa meno di una casa. E ogni volta che un artista deve dimostrare nella sua arte fedeltà e obbedienza, non solo allo stato, ma anche al partito di governo, Israele è meno di una casa.

Israele ci fa soffrire, perché è la casa che vorremmo avere. Perché riconosciamo quanto sia bello per noi avere uno stato, e siamo orgogliosi delle sue scoperte e conquiste in tantissimi campi, nell’industria e nell’agricoltura, nella cultura e nell’arte, nella tecnologia e nella medicina, e in campo economico. Ma soffriamo nel vedere fino a che punto questo ideale è stato snaturato. Le persone e le organizzazioni qui riunite oggi, guidate dal Forum dei genitori e delle famiglie e dei Combattenti per la pace, e molte altre simili, saranno forse coloro che contribuiranno di più nel trasformare Israele in una casa, nel vero senso della parola.

Aggiungo che intendo donare la metà dell’ammontare del Premio di Israele che mi verrà conferito giovedì (l’Israeli Prize per la letteratura, ndr) in parti uguali al Forum dei genitori e delle famiglie e ad Elifelet, un’organizzazione che si occupa dei bambini dei richiedenti asilo, quei bambini le cui scuole d’infanzia sono chiamate “i capannoni dei bambini.” A mio avviso, queste organizzazioni svolgono un compito sacro, o per dirlo in altre parole, svolgono le azioni semplici e umane che il governo dovrebbe accollarsi. Una casa. Una casa dove vivere una vita in pace e sicurezza. Una vita limpida. Una vita non sottomessa – per mano di fanatici di ogni risma – agli scopi di qualche visione totalitaria, messianica o nazionalistica. Una casa i cui occupanti non siano strumenti per un’idea che taluni credono più grande o più nobile di loro. Una casa in cui la vita sarà misurata in standard umani. Dove un popolo potrà alzarsi la mattina e sentirsi persone. E queste persone sanno di vivere in un posto che non è degradato e corrotto, bensì davvero uguale, non insidiato da invidie e aggressività. Uno stato gestito semplicemente per favorire coloro che vi abitano, per tutti coloro che vi abitano, con comprensione e tolleranza per i molti dialetti che si rifanno all’identità israeliana. Perché “queste e quelle sono le parole di Israele vivente”, per richiamare il verso del Talmud che recita, “queste e quelle sono le parole del Dio vivente”.

Uno stato che non agisca in preda a emozione e impulsività, né in una contorsione infinita di trucchi e ammiccamenti e manipolazioni. E indagini poliziesche e altri espedienti. Mi auguro che il nostro governo saprà essere meno scaltro e più saggio. Ci è consentito sognare. Ci è anche consentito ammirare le conquiste fatte finora. Vale la pena combattere per Israele. E auguro le stesse cose anche ai nostri amici palestinesi: una vita di indipendenza, pace e libertà, nella costruzione di una nuova nazione. Spero che tra settant’anni i nostri nipoti e pronipoti saranno qui, israeliani e palestinesi, e ciascuno di loro canterà la sua versione dell’inno nazionale. Ma c’è un verso che potranno cantare insieme, in ebraico e in arabo: “Una nazione libera nella nostra terra.” E forse allora, nei giorni a venire, questo auspicio sarà finalmente una realtà per entrambi i nostri popoli.

Category: Guerre, torture, attentati, Osservatorio Palestina

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