Gianfrancesci Turano e Manuela Alessandra Filippi: La peste a Milano del 600
Diffondiamo da l’Espresso e Vanity Fair
1. Gianfrancesco Turano : La peste di Milano. Inchiesta su un caso di cronaca di 400 anni fa
Negazionismo della cittadinanza, ritardi della politica, provvedimenti contraddittori, caccia all’untore straniero. Ecco perché dal flagello del 1629-1630, ricostruito dalle testimonianze storiche, i meccanismi sono rimasti gli stessi
Nessun paragone tra il coronavirus e la peste del 1630. Ma rileggere i due capitoli dei Promessi Sposi dedicati all’epidemia può essere lo stesso utile
2. Manuela Alessandra Filippi. La peste a Milano e la caccia agli untori
Diffondiamo da Vanity Fair
Manuela Alessandra Filippi – autrice di questo articolo – Milano nascosta. Dalle pietre romane alla città che sale, pubblicato da Hoepli, reperibile in tutte le librerie e ordinabile online a questo link https://amzn.to/3aCn5kT. Nata a Bruxelles e cresciuta fra Torino e Roma, Alessandra è storica dell’arte, heritage manager, autrice e storyteller. Nel 2010 ha fondato Città nascosta Milano, premio Dama d’Argento nel 2012, alla guida della quale ha contribuito a ripensare il modo di visitare la città. Al capoluogo lombardo ha dedicato tre pubblicazioni ed è ormai considerata un autorevole punto di riferimento per la storia di Milano.
Nel 1630, quando la peste, prima negata, scoppia in città, l’intento di tanti fu quello di trovare i colpevoli. Coloro i quali avevano sparso «un onto pestifero» su muri e banconi di chiesa per diffondere il morbo. E volendolo trovare, lo trovarono. La storia fu una delle più atroc
Fra le tante cose che accomunano la peste manzoniana del 1630 col l’attuale pandemia di Covid19, oltre alle indecisioni – «epidemia si, epidemia no» -, sui provvedimenti da prendere, sulle informazioni da dare, sulle strutture da implementare, senza contare il ping pong sulle responsabilità, ve ne è un’altra che rileggendo il romanzo dei Promessi Sposi salta subito all’occhio: quella sugli untori e sull’ossessione verso l’individuazione del primo ammorbato, dalla quale far discendere quella di tutti gli altri.
Oggi come allora sembrerebbe che i secoli trascorsi non abbiano cambiato proprio nulla delle nostre ataviche paure e irrazionali smarrimenti. In tempi di Coronavirus ci scopriamo fragili, indifesi, piccoli. E inevitabilmente l’isolamento al quale siamo costretti non fa che acuire la paura che nell’altro si possa nascondere l’untore o il portatore sano del virus.
C’è però da aggiungere, e ribadire, che nel 1630 le cose a Milano era senz’altro più drammatiche di oggi. La città entro la cerchia dei bastioni spagnoli contava sì poco più di 100mila abitanti, ma tutti concentrati dentro la cerchia dei Navigli: perché oltre, e fino alle mura, c’erano per lo più ortaglie, interpolate da qualche casa da nobile con parco, casupole modeste, chiese e monasteri.
Come già ebbe a notare Leonardo, in una superficie ristretta vivevano ammassate un sacco di persone, spesso pigiate in ambienti insalubri e angusti. Immaginatevi voi come la peste ebbe la meglio, tanto da riuscire a falcidiare circa 1000 persone al giorno e registrare un numero di morti, al termine, forse mai eguagliato prima: 60mila.
Per tornare al tema degli untori, ancor prima di prender risoluzioni per fronteggiare il dilagare della pestilenza, per mesi, oltre a negarla, nacque «una non so quale curiosità di conoscere quei primi e pochi nomi» ai quali assegnare la precedenza nello sterminio, una precedenza che pareva permettere di «trovare in essi e nelle particolarità per altro indifferenti, qualche cosa di fatale e memorabile».
Il Manzoni racconta che a portare la peste in città fu un certo Pietro Antonio Lovato di Lecco, o Pier Paolo Locati di Chiavenna (i documenti non sono unanimi), un fante «sventurato e portator di sventura» entrato a Milano nell’autunno del 1629 carico di vesti rubate agli appestati soldati alemanni. Il fante, col suo fagotto d’indumenti prese alloggio in casa di parenti nel Borgo Orientale, più o meno dalle parti dell’attuale Corso Venezia. Si ammalò e in quattro giorni morì.
Subito vennero messi in quarantena tutti i parenti nell’alloggio dove risiedevano. Ma ormai il danno era fatto. Il soldato non aveva avuto l’accortezza di stare a casa così, oltre a contagiar tutti quelli della casa, in un modo o nell’altro «covando e serpendo lentamente», il morbo finì per dilagare in tutta la città, scoppiando in modo virulento nei primi mesi dell’anno successivo.
È a questo punto che alcuni membri del governo, quelli che più di tutti si erano impegnati a negarla «risolutamente», non volendo accollarsi la colpa e riconoscere l’inganno nel quale avevano tenuto la popolazione, preferirono addurre il disastro a qualche altra causa. «Per disgrazia, ce n’era una pronta nelle idee e nelle tradizioni dell’epoca, in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a spargere la peste per mezzo di veleni contagiosi, di malie. Già cose simili o somiglianti erano state supposte e credute in molte altre pestilenze», compresa quella di san Carlo.
La caccia all’untore si scatenò in tutta la città, corroborata dalla falsa notizia che nel duomo «fossero state unte tutte le panche, le pareti e fin le corde delle campane». Fra i poveri primi malcapitati, stando alla cronaca di Manzoni, un povero vecchio, reo, col suo pastrano, di aver cercato di strofinare – solo per pulirla – la panca della chiesa dove stava pregando.
Il giorno dopo fu la volta di tre giovani francesi, a spasso per l’Italia, impegnati in un viaggio che solo un secolo e mezzo dopo sarà battezzato Gran Tour, vero e proprio padre del turismo moderno. I tre erano intenti a studiare il duomo quando, forse per verificare di quale materia fosse fatto, uno di loro ebbe la pessima idea di toccarlo. Apriti cielo! In men che non si dica furono «circondati, malmenati, e spinti a furia di percosse alle carceri». Il loro arresto ebbe un esito più fausto: riconosciuti innocenti furono liberati.
Ma il caso più celebre e certamente più drammatico fu quello che travolse i poveri Guglielmo Piazza, un ex cardatore a quel tempo nominato Commissario di Sanità del Ducato di Milano, e il barbiere Gian Giacomo Mora. La loro storia e quella del processo che culminò nella loro condanna a morte e in una versione attualizzata della damnatio memoriae romana, è raccolta in numerosi libri, fra cui quello di Manzoni Storia della colonna infame.
Qui basti dire che il povero Piazza, in un malaugurato giorno piovoso di giugno, fu visto da certa Caterina Trocazzani Rosa «e altre donnicciuole abitanti presso la Vedra de’ cittadini di Porta Ticinese» mentre camminava vicino al muro di un edificio, appoggiandovisi con la mano. Tanto bastò alla Trocazzani e alle altri comari per denunciarlo, accusandolo di essere un untore, colpevole di diffondere il morbo mediante misteriosi e mefitici unguenti preparati per lui dal barbiere Gian Giacomo Mora. A nulla valse, nel corso dell’interrogatorio al quale fu sottoposto, la spiegazione che diede: nessuno credette che lui camminava rasente il muro, fino ad appoggiarsi, solo per ripararsi dalla pioggia. All’unanimità si decise che con la mano stava in verità spargendo sull’edificio «un onto pestifero». A peggiorar la sua situazione si aggiunse il fatto che proprio quel mattino molti muri, porte e chiavistelli delle case di Porta Ticinese, dove lui aveva per altro dimora «erano stati trovati imbrattati con una sostanza di natura sconosciuta».
Il processo che ne seguì fu una delle pagine più nere della giustizia durante la dominazione spagnola: «condizionato fin dal principio da un uso disinvolto della tortura secondo gli usi dell’epoca, terminò con la condanna a morte dei due che confessarono la propria inesistente colpevolezza pur di porre fine alle atroci sofferenze a loro causate dalle torture, peraltro contraddicendo più volte le loro stesse dichiarazioni».
La sentenza capitale, oltre alla condanna a morte da eseguirsi non prima di aver esercitato sui due indescrivibili supplizi perpetrati sotto gli occhi di tutti, facendo sfilare per tutta la città i condannati moribondi «sovra alto carro, martoriati prima con rovente tanaglia e poi franti colla ruota e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati e poscia abbruciati», prevedeva anche la demolizione della casa-bottega di Gian Giacomo Mora. Pezzo a pezzo. Al suo posto venne eretto un truce monumento in grado di sfidare il tempo: «la colonna infame». Un triste cippo piantato nella terra per ricordare a tutti quale sorte sarebbe tocca a chi si fosse macchiato di colpe simili. E per sigillare con perenne granitica efficacia il marchio
di infamia caduto.
Quanto al terreno, posto su corso di Porta Ticinese, all’angolo della via dedicata alla memoria di Gian Giacomo Mora, dopo l’eliminazione della vergognosa colonna venne acquistato da un coraggioso investitore che sfidando le dicerie che aleggiavano sul lotto, vi edificò la sua casa, andata distrutta durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale e oggi sostituita da un moderno condominio. Nel 2005, in memoria di questi tristi eventi, in una rientranza vennero poste una scultura in bronzo di Ruggero Menegon e una targa che recita così:
«QUI SORGEVA UN TEMPO LA CASA DI GIANGIACOMO MORA INGIUSTAMENTE TORTURATO E CONDANNATO A MORTE COME UNTORE DURANTE LA PESTILENZA DEL 1630. “È UN SOLLIEVO PENSARE CHE SE NON SEPPERO QUELLO CHE FACEVANO, FU PER NON VOLERLO SAPERE, FU PER QUELL’IGNORANZA CHE L’UOMO ASSUME E PERDE A SUO PIACERE, E NON È UNA SCUSA MA UNA COLPA”»
Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame
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4. Manuela Alessandra Filippi: La peste a Milano. Il miracolo del Laghetto e lo strano caso di palazzo Acerbi
Diffondiamo da Vanity Fair
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