Somalia, alle origini di vent’anni di emergenza umanitaria

Maria Concetta Fogliaro ricostruisce le ragioni politiche dell’ emergenza alimentare e sanitaria che porta la popolazione somala all’esodo e le non facili possibilità di uscita da questa situazione.

 

 

«Come angeli calati nell’inferno, i marines sono scesi qui in Somalia per liberarla dalla dittatura e dalla fame»[1]. Con queste parole, traboccanti eroismo e abnegazione, nel solco della tradizionale retorica politica statunitense in fatto di missioni all’estero, considerate insieme fardello e dovere della Nazione, espressione del suo Destino manifesto, Dan Rather dai microfoni della CBS documentava lo sbarco “in grande stile” del primo contingente dei marines sulle spiagge di Mogadiscio. Era l’alba dell’8 dicembre del 1992, e davanti agli occhi di milioni di americani – negli Stati Uniti era il prime time –, sotto i riflettori delle principali reti televisive, senza sparare un sol colpo di fucile, iniziava l’operazione Restore Hope.

Con l’approvazione della risoluzione n. 794, il 3 dicembre 1992, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – prendendo atto del sostanziale fallimento dell’UNOSOM I[2] e riconoscendo che la gravità della crisi somala costituiva «una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale» – autorizzò la costituzione di una forza d’intervento multinazionale, denominata Unified Task Force (UNITAF), per dare avvio a un’operazione di peace enforcement in Somalia. Ancora una volta una coalizione di Stati sotto il comando americano fu autorizzata, ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite,  senza il consenso dello Stato interessato – non essendovi più un’autorità riconosciuta in grado di dare il proprio assenso alla decisione del Consiglio –, a usare «tutti i mezzi necessari per stabilire le condizioni indispensabili di sicurezza per l’espletamento delle operazioni di aiuto umanitario». La decisione era stata presa, ufficialmente, per far fronte a quello che già da tempo era stato denunciato dalle agenzie umanitarie e di soccorso privato – le uniche rimaste sul campo dopo la fuga, tra il dicembre del 1990 e il gennaio del 1991,  degli stranieri e di tutto il personale diplomatico dal Paese –  come «il più grande disastro contemporaneo», le cui dimensioni furono per molto tempo occultate dalla comunità internazionale, la cui attenzione era rivolta agli avvenimenti allora in atto in Medio Oriente e nei paesi dell’ex blocco sovietico.

Oggi come vent’anni fa, nell’indifferenza della comunità internazionale, nel Corno d’Africa è esplosa un’emergenza umanitaria definita di proporzioni eccezionali, anche per una zona frequentemente colpita da gravi carestie stagionali giudicate normali dagli esperti. Le Nazioni Unite snocciolano cifre impressionanti: l’emergenza – secondo l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) – ormai riguarda dieci milioni di persone in tutta la regione; circa 1.600 sfollati al giorno arrivano dalla Somalia nei campi profughi allestiti in Etiopia;  a Dadaab, nel nord-est del Kenya, si trovano  380.000 rifugiati e ogni giorno circa 1.300 somali continuano ad arrivare alle porte del campo, con la struttura che ormai è al collasso; si stima che un quarto del popolo somalo abbia già abbandonato il Paese [3]. «Per i primi di agosto – ricorda Alex Perry – le Nazioni Unite avevano stimato che 12,4 milioni di persone rischiavano di morire di fame nella regione compresa tra Gibuti, Etiopia, Eritrea, Kenya, Somalia e Uganda»[4].

L’emergenza umanitaria, che le organizzazioni internazionali non hanno esitato a definire «di proporzioni bibliche», sta valicando le frontiere nazionali e, ancora una volta, l’imporsi drammatico del problema dei rifugiati – che, a sua volta, rischia di scatenare una gravissima emergenza sanitaria, se non si provvederà al più presto alle vaccinazioni contro la diffusione di epidemie, mortali per un Paese del Terzo Mondo, come la poliomielite e il morbillo – costituisce un fattore altamente destabilizzante per l’intero sistema regionale e, in particolare, per il Kenya e l’Etiopia, paesi che accolgono il maggior numero di sfollati e che sono a loro volta colpiti da una grave siccità. Nel caso dell’Etiopia, il crescente flusso di rifugiati che giungono nel Paese sta minacciando di esaurire le riserve alimentari che Addis Abeba è riuscita ad accumulare e gestire grazie all’Emergency Food Security Reserve Administration (EFRSA), l’agenzia governativa che ha consentito di evitare il ripetersi di gravissime carestie, come quella che colpì il Paese nel 1984, e che ha fatto dell’Etiopia uno dei pochi esempi, insieme al Mali, di food governance system di successo[5], permettendo a Meles Zenawi, Primo ministro in carica della Repubblica Federale Democratica  d’Etiopia, di dichiarare con orgoglio – in occasione della conferenza dell’Unione Africana, organizzata ad Addis Abeba il 25 agosto scorso – che «questo è il tempo in cui noi siamo in grado di salvare le vite delle popolazioni vittime della carestia»[6].

Food governance significa, fra le altre cose, miglioramento dei canali di distribuzione, delle infrastrutture, delle tecniche di conservazione del cibo e delle riserve strategiche di grano, e – come spiega la FAO in una nota recente – aumento degli investimenti a favore di «interventi di breve e di medio termine che aiutino gli agricoltori e le loro famiglie a proteggere le loro attività e a continuare a produrre cibo»[7], assicurando loro l’accesso ai depositi per viveri, fertilizzanti, mangimi. «Ciò a cui stiamo assistendo – afferma Jacques Diouf, direttore generale uscente della FAO – è lo sfortunato risultato di tre decenni di sottoinvestimenti nell’agricoltura e nello sviluppo rurale, laddove acqua, sistemi di stoccaggio, strade e infrastrutture dovrebbero essere in cima alle priorità di governi e donatori»[8]. Ma, «mentre nella maggior parte dei paesi coinvolti nella crisi, compresa l’Etiopia, – sostiene ancora Zenawi – esiste un’organizzazione, un sistema in grado di rispondere all’emergenza e di garantire la distribuzione del cibo, in Somalia no»[9].

Quello della siccità – per tornare alla causa più immediata dell’emergenza alimentare – è un problema che grava su tutta l’Africa orientale, ma solo la Somalia registra la situazione più grave tanto da indurre le Nazioni Unite a dichiarare, il 20 luglio scorso, lo stato di carestia. Occorre pertanto sottolineare, in questo emergere di crisi frequentemente catalogate come ‘naturali’, le condizioni strutturali soggiacenti a queste calamità. Ad esempio, una delle cause dell’attuale siccità che ha colpito i Paesi del Corno d’Africa è la deforestazione per la produzione del carbone vegetale, che costituisce uno dei maggiori commerci fra la Somalia e i Paesi della penisola arabica e che – in assenza di programmi e politiche che promuovano la crescita degli alberi e la protezione delle foreste – sta distruggendo i boschi del Paese, causando la diminuzione delle precipitazioni[10]. Un altro fenomeno, strettamente connesso all’emergenza alimentare di questi mesi, è quello del land grabbing, definito dalla FAO come la «nuova forma di colonialismo», che consiste nell’affitto o nell’acquisto – con modalità non sempre trasparenti, considerando il peso assunto dalle organizzazioni criminali in questo tipo di trattative –  di grandi appezzamenti di terre da parte di aziende cinesi, indiane, saudite e, in misura minore, italiane da destinare alle piante per la produzione di biocarburanti o all’allevamento di animali da lana. «Un business che – secondo la FAO – sarebbe una delle principali cause dell’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari avvenuta a livello globale tra il 2007 e il 2008, e dell’aumento del numero di persone che nel mondo soffrono la fame»[11]. La regolazione del mercato agricolo mondiale è, ormai da anni, oggetto del braccio di ferro fra governi, grandi aziende dell’agro-business e movimenti contadini; fra questi ultimi, Via Campesina – movimento internazionale che raggruppa organizzazioni contadine e lavoratori agricoli di diverse parti del mondo – accusa espressamente la Banca mondiale di sostenere le politiche di land grabbing, insistendo sulla necessità di promuovere politiche differenti che sottraggano i prezzi dei prodotti alimentari alle fluttuazioni del mercato e che, al contempo, siano di sostegno alla piccola proprietà contadina, indispensabile per garantire la sicurezza alimentare in gran parte dei paesi del Sud del mondo[12].

Ma la grande differenza fra la Somalia e il resto dell’Africa orientale non è la guerra che da due decenni si combatte nel Paese – questa è solo una conseguenza. La vera differenza è il “fallimento” dello Stato, condizione che costringe il Paese in una situazione d’instabilità permanente, che genera insicurezza, che lascia il Paese ostaggio di bande armate e di fazioni che si combattono quotidianamente in un confronto mortale, che ostacola la distribuzione degli aiuti: una condizione in cui il “vuoto” si è mangiato il “pieno”. Quello somalo è un esempio, forse il più eclatante, ma sicuramente non l’unico, di collasso delle istituzioni di governo, del venir meno della legge e dell’ordine sotto i colpi di una guerra che, da più parti, è stata definita «di tutti contro tutti» e che, con fin troppa facilità, è stata legata all’esplosione di ataviche rivalità, residuo di un tribalismo d’altri tempi. Comprendere come e perché si è arrivati a questo punto, non è impresa facile, ma tentare è soprattutto una responsabilità.

1. La Somalia nacque come Stato indipendente e sovrano il primo luglio del 1960, dalla riunificazione di due delle cinque porzioni in cui era stata divisa la «nazione somala» in seguito allo scramble per l’Africa fra le potenze europee: la Somalia italiana – che, in seguito alle vicende legate alla Seconda guerra mondiale, era stata assegnata, dopo un lungo ed estenuante negoziato in seno all’ONU, in amministrazione fiduciaria alla stessa ex-potenza coloniale per un periodo di dieci anni (1950 – 1960), terminato il quale il territorio avrebbe raggiunto l’indipendenza; e il Somaliland britannico, diventato indipendente il 26 giugno del 1960.

L’esperienza democratica, dominata dalla Somali Youth League (SYL) all’interno di un sistema politico caratterizzato da un alto livello di frammentazione partitica, fu bruscamente interrotta dall’assassinio del Presidente della Repubblica Shermaarke, il 15 ottobre del 1969, che aprì le porte al colpo di Stato militare (21 ottobre 1969) guidato dal Comandante in capo delle forze armate somale, il generale Mohamed Siad Barre, che rimase ininterrottamente al potere fino al 26 gennaio del 1991 – quando fuggì da Mogadiscio sotto la pressione della guerra di liberazione che, partita dalle regioni settentrionali alla fine degli anni Ottanta, divampò in tutto il Paese all’inizio degli anni Novanta e che, passando attraverso alterne vicende e il cambiamento degli attori in campo, si è trascinata fino ad oggi.

Storicamente, la nazione somala non si dotò, fino all’imposizione del dominio coloniale, di una forma centralizzata di governo, data la dispersione su tutto il territorio di una popolazione prevalentemente nomade e seminomade – continuamente in viaggio alla ricerca di terre e pascoli –, e la conseguente, particolare, segmentazione del suo tessuto sociale,  organizzato in sei grandi famiglie claniche, a loro volta suddivise in clan, sub-clan e segmenti di clan. A questa specificità – che contribuì alla diffusione dell’immagine di una nazione tendenzialmente anarchica, incarnante l’archetipo per eccellenza della «società senza Stato» – corrispondeva, tuttavia, una popolazione culturalmente omogenea: i somali parlavano la stessa lingua; condividevano la medesima cultura nomade e pastorizia; erano uniti dalla devozione verso un comune antenato, Samaal o Samaale, e dalla fede nell’Islam sunnita. Non avendo un legame stabile con la terra e non essendovi frontiere delimitate, ciascun clan si spostava liberamente sul territorio, seguendo percorsi determinati dalle esigenze della pastorizia. La competizione per il controllo delle risorse poteva dar luogo, soprattutto nei periodi in cui le condizioni ambientali erano ostili, a conflitti – che solitamente coinvolgevano i livelli più bassi di segmentazione e raramente le sei maggiori famiglie claniche –, i quali, unitamente ai matrimoni interclanici, si rivelavano una vera e propria occasione per la nascita di alleanze trasversali, mai fisse ma fluttuanti a seconda degli interessi. Inoltre, esistevano due fattori aggreganti in grado assorbire le spinte centrifughe presenti nella società: le regole del costume (heer) – una sorta di codice generale a guida della condotta delle relazioni all’interno e fra i clan – e la legge islamica (qanoon) costituivano, nel periodo precoloniale, un potente fattore di aggregazione in grado di opporre resistenza alla forza dell’identità basata sulla parentela, e di fornire ordine e continuità.

Questo delicato equilibrio fu definitivamente alterato dall’imposizione del dominio coloniale, italiano e inglese, colpevole di «avere storicamente favorito la formazione di un sistema di egemonie tribali che ha portato, alla soglia dell’indipendenza del Paese, la concentrazione del potere politico nelle mani di alcune determinate tribù»[13]. Nel processo, poi, di costruzione dello Stato-nazione indipendente e del suo sistema di consenso, il significato politico del sistema clanico subì una trasformazione radicale. In precedenza, la competizione per il controllo delle risorse, limitata a un ambito locale, aveva riguardato parti (i clan) che – sia pur differenti per forza collettiva – erano essenzialmente uguali; con la «nazionalizzazione» della società, invece, la lotta si era trasferita in nuovo ambito, lo Stato, destinato presto a diventare il principale terreno di uno scontro che aveva come posta i livelli più alti dell’amministrazione e del governo politico del Paese, con effetti divisivi anche all’interno della società tradizionale[14]. Nonostante gli sforzi fatti dalla prima classe dirigente postcoloniale per sradicare la cultura del «tribalismo» come pratica politica, la mancanza di coesione interna della leadership nazionalista e modernista – rappresentata dalla SYL –, gli alti ‘costi’ della democrazia parlamentare, la crisi del settore agricolo, il fallimento del modello di sviluppo e, soprattutto, quello che agli occhi del popolo somalo fu il tradimento dell’ideale pansomalo[15] (in pratica, la politica di détente nei confronti di Etiopia e Kenya, inaugurata dal Primo ministro Egal e dal Presidente della Repubblica Shermaarke, mirante ad attenuare le tensioni esistenti alle frontiere con i due Paesi) determinarono la fine dell’esperienza democratica. I sentimenti di affiliazione clanica si imposero come base per la mobilitazione del consenso, minando la capacità di tenuta del sistema democratico e sancendo la rottura definitiva di quel, sia pure instabile, equilibrio che si era venuto a creare fra la società tradizionale e lo Stato all’inizio dell’indipendenza.

Fin dalla sua instaurazione, il regime militare beneficiò, quindi, di una sorta «legittimazione negativa», derivante dal fallimento dell’esperienza democratica e dalle sue differenze con questa[16]. I leader del nuovo corso ribattezzarono la propria azione come “rivoluzionaria”, abbracciarono posizioni radicali e iniziarono la loro battaglia ideologica contro il «neocolonialismo» e l’«imperialismo», mettendo in moto quel processo che avrebbe presto portato all’ancoraggio della Repubblica Democratica Somala attorno all’orbita sovietica. L’apertura al socialismo scientifico – la cui traduzione in lingua somala (hanti-wadaagga ‘ilmi ku disan, che significa «condivisione delle ricchezze basata sulla saggezza»[17]) evidenzia il recupero all’interno del nuovo progetto politico di elementi riconducibili al ‘comunitarismo’ tradizionale dei gruppi nomadi somali – non ebbe tanto un grande impatto sul miglioramento delle condizioni economiche del Paese, ma significò soprattutto la possibilità di sfruttare  l’appoggio sovietico, in un periodo particolarmente caldo della competizione fra Est e Ovest nel Terzo mondo: l’URSS fornì, infatti, l’appoggio finanziario, logistico, l’addestramento e le armi che permisero, da un  lato, di rendere competitive le forze armate somale a fronte di un’Etiopia armata ed equipaggiata dagli Stati Uniti e, dall’altro, di costruire un formidabile apparato repressivo per sventare sul nascere qualsiasi forma di dissenso o di minaccia ‘controrivoluzionaria’.

La guerra dell’Ogaden (1977-78), epilogo dello storico contenzioso territoriale fra Etiopia e Somalia, gettò il Paese nel ‘gioco’ della Grande politica e riaccese il vigore nazionalistico dei cittadini somali, proiettando la figura di Siad Barre allo zenit del firmamento nazionale.  La guerra – che si concluse con la  sconfitta delle forze armate somale e  con il riconoscimento da parte di Mogadiscio dell’inviolabilità delle frontiere coloniali – rappresentò per la Somalia un turning point: distrusse per sempre le ambizioni irredentistiche del popolo somalo, che, perlomeno ufficialmente, rinunciò a qualsiasi pretesa sui territori fino ad allora contesi; alterò completamente, ribaltandole, le vecchie alleanze internazionali, con un’Etiopia adesso saldamente ancorata a un’Unione Sovietica sempre più aggressiva, a fronte di un’America che – per usare le parole di Brzezinsky, Consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Carter, dal 1977 al 1981 – già nelle sabbie dell’Ogaden aveva visto la fine della distensione con la superpotenza rivale; ma, soprattutto, il maturare di un forte malcontento in patria, solo in parte conseguenza della sconfitta militare, riaprì lo spazio per la competizione politica fra le élite.

Con la fine della guerra dell’Ogaden iniziò quel processo di radicalizzazione e polarizzazione delle diverse componenti della società somala, e in parallelo la definitiva trasformazione della presidenza di Siad Barre in dittatura personale. In un progressivo arroccamento del Presidente attorno al proprio clan di appartenenza, tutte le strutture di governo preesistenti furono riorganizzate: ai vertici degli organismi statali, dall’esercito all’apparato di sicurezza, furono collocati elementi di fiducia – secondo un sistema che faceva capo alla famiglia del dittatore e alla famigerata triplice alleanza (definita “M.O.D.” dai suoi oppositori) fra il clan del Presidente, i Marehan, e quello degli Ogadeni e dei Dulbante. Da questo momento, la capacità di stare al potere dipese dall’abile dosaggio di risorse e favori a una popolazione fortemente vulnerabile, la cui maggioranza rimaneva tagliata fuori dall’accesso alle risorse materiali e sociali. Gli esclusi, in assenza di spazi per manifestare il proprio dissenso, trovarono nel proprio clan di appartenenza la struttura adatta ad accogliere quelle che erano autentiche istanze politiche. Nasce così il fenomeno, tutto moderno, del clanismo – non risveglio di antichi odi a lungo sopiti, ma negazione del clan e dei principi che ne erano il fondamento, simbolo della chiusura del moderno spazio politico pubblico, e della perversione degli antichi legami di parentela.

 

2. La politicizzazione del senso di appartenenza clanico ebbe come conseguenza fatale la progressiva e mortale identificazione fra la coalizione dominante che sosteneva il regime – la “tirannia M.O.D.”, simbolo del vertice del potere e della ricchezza – e le stesse istituzioni della Repubblica. Le vicende che videro protagoniste, dall’inizio degli anni Ottanta, le regioni settentrionali del Paese, vittime di una graduale marginalizzazione economica e di una crescente violenza politica da parte del governo centrale, costituiscono la testimonianza più efficace della progressiva disgregazione della comunità nazionale somala in una miriade di componenti reciprocamente ostili (nel maggio del 1991 il Somali National Movement proclamò unilateralmente  la nascita della Repubblica Indipendente del Somaliland). Il clan, da canale privilegiato per il riconoscimento dei diritti sociali, politici, culturali ed economici, era ormai diventato l’unico veicolo di trasmissione delle istanze politiche e il principale strumento della lotta armata.

Tale processo riguardò anche le regioni del Sud e, in particolare, l’area attorno alla capitale: qui, il governo dittatoriale portò la corruzione del rapporto fra statualità e sistema clanico fino alle sue estreme conseguenze. In un ultimo vano tentativo di mantenere in piedi il proprio sistema di potere, rinsaldando gli ormai corrosi rapporti all’interno della coalizione di interessi che lo aveva fino a quel momento sostenuto, un sempre più isolato Siad Barre scatenò una campagna intimidatoria e repressiva che toccò l’apice il 14 luglio del 1989, in occasione di una manifestazione promossa da un gruppo di attivisti musulmani, ferocemente repressa dalla guardia presidenziale.  La violenza del massacro provocò la presa di distanza del governo americano, che fino ad allora aveva sostenuto il regime con armi e finanziamenti, contribuendo a destabilizzare ulteriormente un sistema già indebolito dalla defezione del clan degli Ogadeni, che aveva costituito una propria organizzazione militare. Tutta la società si sgretolò progressivamente nelle sue varie componenti claniche, ciascuna delle quali mirava a imporre la propria strategia egemonica, condannando il Paese a una situazione d’instabilità permanente. Il vecchio ordine si era sgretolato, trascinando nella sua caduta tutte le strutture dello Stato, e nessun nuovo ordine si affacciava all’orizzonte.

Date queste premesse, non esistendo più alcuna autorità che esercitasse il monopolio legittimo della violenza, la lotta di liberazione contro il regime di Siad Barre degenerò presto in un conflitto civile fra i movimenti che avevano combattuto contro le forze dell’ex-dittatore. La formazione, il 29 gennaio del 1991, di un governo provvisorio sotto la Presidenza di Ali Mahdi Mohamed – importante uomo d’affari di Mogadiscio e capo dell’ala politica dell’United Somali Congress (USC), il movimento di opposizione nato nel gennaio del 1989 all’Hotel Elios a Roma, avente la propria base nella capitale somala –, portò immediatamente allo scontro armato fra la fazione guidata da Ali Mahdi e l’ala militare dell’USC, capeggiata dal generale Mohamed Farah Aidid, ex ambasciatore di Siad Barre in India. Il Paese, negli anni seguenti, continuò a rimanere ostaggio delle fazioni armate, nonostante successivi accordi per il cessate-il-fuoco e il progressivo, anche se tardivo, intervento dell’ONU (missioni UNOSOM I e UNOSOM II) e degli Stati Uniti (operazione Restore Hope), nell’ambito di quella che fu allora considerata una vera e propria escalation dell’azione delle Nazioni Unite in Somalia, dagli esiti notoriamente fallimentari.

Dopo tutta una serie di trattative inconcludenti, nel 2004, a seguito della «Conferenza di Pace e di Riconciliazione», organizzata a Nairobi il 29 gennaio 2004 su ispirazione dell’IGAD[18], la Somalia venne dotata di Istituzioni Federali di Transizione (IFT)[19], che hanno però  mostrato molto presto la propria debolezza, rivelandosi anch’esse ostaggio di interessi spesso opposti e di intrinseche, apparentemente irriducibili, rivalità claniche. Le difficoltà di ripristinare condizioni di stabilità e sicurezza nel Paese sono state alla base del consenso popolare di cui godette, a metà del 2006, l’Unione delle Corti Islamiche – complessa e composita galassia interclanica, politicamente disomogenea, dotata di una propria milizia, la cui forza era basata sull’applicazione severa della shar’ia – che, insediando ovunque, come prima iniziativa, dei tribunali islamici, con il compito principale di ristabilire l’ordine pubblico, riuscirono a stabilizzare la situazione a Mogadiscio e nelle aree circostanti, anche se per breve tempo. Nel dicembre dello stesso anno, infatti, le Istituzioni di transizione, con l’aiuto determinante dell’Etiopia – le cui forze armate penetrarono nel  Paese screditando, in tal modo, le istituzioni federali agli occhi del popolo somalo – entrarono militarmente a Mogadiscio, costringendo momentaneamente le Corti alla fuga e segnando l’inizio di un periodo caratterizzato dalla forte ingerenza di interessi stranieri nel Paese.

Sin dai primi anni Novanta, gli Stati Uniti avevano manifestato precisi timori legati a una possibile deriva islamica radicale, intravista sullo sfondo del futuro assetto politico del Paese per la presenza sul territorio del movimento islamista al-Ittihad al-Islami (Unione Islamica), prevalentemente ispirato a un Islam wahabita e radicale, e indicato dagli americani come gruppo eversivo vicino ad al-Qaeda, per la quale la Somalia costituiva un’area di fondamentale importanza per il reclutamento di uomini, e per il transito di armi e denaro. In seguito agli attentati alle ambasciate americane di Nairobi (Kenya) e di Dar es Salaam (Tanzania), il 7 agosto 1998; all’attentato al cacciatorpediniere USS Cole nelle acque dello Yemen, nell’ottobre del 2000; e, soprattutto, in seguito agli attacchi terroristici dell’11 settembre, gli Stati Uniti hanno avviato una strategia di maggior presenza nel Corno d’Africa, attraverso le iniziative anti-terroristiche riconducibili alla Combined Joint Task Force – Horn of Africa (CJTF-HO), costituita nel 2003, con base principale a Camp Lemonier (Gibuti) e che coinvolge Kenya, Somalia, Sudan, Eritrea, Gibuti, Etiopia e Yemen[20]. La “guerra al terrore” dichiarata dall’amministrazione americana guidata da George W. Bush si è tradotta, in territorio somalo, nel progressivo avvicinamento degli USA all’Alleanza per la Restaurazione della Pace e contro il Terrorismo – organizzazione formata da warlords senza alcuna credibilità, per contrastare l’ascesa dell’Unione delle Corti islamiche –, e nell’individuazione di al-Shabaab[21] quale «organizzazione terroristica»[22]. Il ritiro delle truppe etiopi dal Paese, nel gennaio del 2009, e l’avvio di una missione di peace-support dell’Unione Africana, l’AMISOM (African Union Mission in Somalia) – nata nel 2007 come forza di stabilizzazione per sostituire il contingente etiope e composta prevalentemente da soldati ugandesi e burundesi –, è coinciso con l’apertura di una nuova fase del conflitto somalo che vede, attualmente, il Governo federale di transizione impegnato a combattere i miliziani islamici di al-Shabaab, che controllano circa l’ottanta per cento delle regioni centrali e meridionali del Paese, quelle devastate oggi dalla carestia.

 

3. Il leitmotiv delle proposte di risoluzione della crisi somala, avanzate da più parti nel corso degli anni, resta molto spesso confinato alla sola dimensione umanitaria dell’emergenza: alla capacità di consegnare aiuti umanitari considerati vitali, al bisogno di migliorare le fonti di approvvigionamento d’acqua e la sicurezza degli operatori internazionali – continuamente oggetto dell’attacco da parte delle milizie somale. In altre parole, le operazioni di soccorso umanitario sono considerate il vero banco di prova dell’azione della comunità internazionale; poca attenzione viene solitamente riservata a quelli che sono i nodi politici da sciogliere. Esemplificativo di questi due opposti approcci resta, ancora oggi, l’infuocato dibattito che a suo tempo divise, nell’ambito dell’operazione Restore Hope, i vertici politico-militari americani – favorevoli a un’interpretazione limitata alla “lettera” del mandato contenuto nella risoluzione 794, (l’operazione di soccorso umanitario doveva limitarsi a garantire la distribuzione degli aiuti) – dall’allora Segretario generale delle Nazioni Unite, Boutros Boutros-Ghali, che, al contrario, diede peso allo “spirito” della 794, in direzione di un più vasto programma di nation-building – per la cui attuazione la precondizione imprescindibile era il disarmo delle milizie somale.

Attualmente, l’approvazione del memorandum d’intesa –  firmato il 29 agosto del 2011, in margine al vertice tenutosi a Garowe, capitale amministrativa della regione del Puntland[23], fra il Presidente delle IFT, Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, e il Presidente del Puntland, Abdirahman Mohamud Farole –, che definisce una roadmap, basata su quattro pilastri (sicurezza, riassetto costituzionale, riconciliazione politica e good governance) e volta a concludere il periodo di transizione istituzionale[24], fa sperare che i prossimi interventi si muoveranno nella direzione della riconciliazione politica, se ci sarà – beninteso –  chi avrà la forza per farlo.

Riportare la sicurezza, l’ordine e la certezza della legge in Somalia è non solo dovere, ma anche interesse della comunità internazionale tutta, alla luce di quelli che sono i sintomi più clamorosamente evidenti della mancanza di stabilità e ordine nel Paese: la pirateria, che mette a repentaglio le vite degli uomini e i commerci mondiali; le milizie islamiche, sempre più legate, nei linguaggi e nella prassi – a seguito di un processo di trasformazione interno –, al movimento jihadista internazionale; l’enorme flusso dei rifugiati, il cui impatto ormai non riguarda più soltanto i Paesi limitrofi. In ogni caso, qualunque sarà la risposta, non si potrà far finta di niente. Il Terzo mondo busserà comunque alle porte del Primo.

 


[1] Cit. in Renzo Cianfanelli, Somalia, la storia è in onda, in «Corriere della Sera», 10 dicembre 1992.

[2] L’UNOSM I (United Nations Operation in Somalia) fu l’ operazione di peacekeeping inaugurata il 24 aprile del 1992 con l’obiettivo di monitorare il rispetto del cessate-il-fuoco fra le fazioni somale, in lotta dopo la fine della dittatura ventennale del generale Mohamed Siad Barre, e di garantire la sicurezza dei convogli umanitari.

[3] Cit. in UNHCR: “Somalia, più grande tragedia umanitaria al mondo”, 10 luglio 2011, in http://it.euronews.net/2011/07/10/unhcr-somalia-piu-grande-tragedia-umanitaria-al-mondo/.

[4] Alex Perry, Somalia, la morte per fame e le nostre colpe, in «Corriere della Sera», 8 settembre 2011, p. 23.

[5] Mwangi S. Kimenyi, A Regional Approach to Managing Africa’s Food Shocks, August 31, 2011, in www.brookings.edu/opinions/2011/0823_africa_food_shocks_kimenyi.aspx.

[6] Statement by Meles Zenawi, Prime Minister of the Federal Democratic Republic of Ethiopia, at the Pledging Conference for Countries of the Horn of Africa affected by Drought and Famine, Addis Ababa, 25 August 2011, pp. 1-7, p. 4, (corsivo nostro).

[7] Famine in Somalia, International emergency meeting to mobilize support, in www.fao.org/news/story/en/item/82387/icode/

[8] Cit. in Giovanni Ruggiero, FAO: 118 milioni per la Somalia, in «Avvenire», 18 agosto 2011, in www.avvenire.it/Mondo.

[9] Statement by Meles Zenawi, Op. Cit., p. 3.

[10] Fabio Pipinato, Alcune piaghe della Somalia, 27 luglio 2011, in www.unimondo.org/Notizie

[11] Cit. in Delia Cosereanu, Italia: i gruppi italiani hanno più di 1,5 milioni di ettari all’estero, 13 febbraio 2011, in www.equilibri.net

[12] Joseph Zarlingo, Corno d’Africa, la carestia colpisce 12 milioni di persone. Vertice d’emergenza della Fao, 25 luglio 2011, in http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/07/25/corno-dafrica-la-carestia-colpisce-12-milioni-di-persone-vertice-demergenza-della-fao/147665/.

[13] Ali Mumin Ahad, I «peccati storici» del colonialismo in Somalia, in «Democrazia e Diritto», anno XXXIII, n. 4, ottobre-dicembre, 1993, p. 243.

[14] Federico Battera, Clan, clanismo e nazionalismo in Somalia, in «Politica Internazionale», n. 1/2, gennaio – aprile, 1996. p. 56.

[15] Il processo di State-building in Somalia fu dominato da due issues di fondamentale importanza per catalizzare il consenso del popolo attorno alla costruzione della Nazione: una riguardava la ricomposizione del cleavage Nord-Sud, eredità della divisione della «nazione» somala nella Somalia Italiana e nel Somaliland Britannico, durante il periodo coloniale; l’altra riguardava il perseguimento del più importante obiettivo nazionale, la costruzione della “Grande Somalia”, progetto che implicava il rifiuto della balcanizzazione imposta dalle potenze europee – interpretata come una vittoria dell’espansionismo amharico e degli interessi britannici in Kenya – e l’incorporazione dei territori irredenti (l’Ogaden, soggetto al dominio dell’Etiopia; il Northern Frontier District, che era divenuto parte integrante del Kenya; e Gibuti). Il suo simbolo più potente era rappresentato dalla stella a cinque punte che troneggiava sulla bandiera della Repubblica, e che trovò formale espressione nella Costituzione del 1961.

[16] Samuel P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 72.

[17] Ioan M. Lewis, Blood and Bone. The Call of Kinship in Somali Society, Lawrenceville, NJ, The Red Sea Press, 1994, p. 151.

[18] L’ IGAD (Intergovernmental Authority on Development) è l’organizzazione subregionale di sviluppo dell’Africa orientale, i cui Stati membri (Kenya, Gibuti, Etiopia, Eritrea, Uganda, Sudan e Somalia) sono chiamati a perseguire come obiettivi prioritari la sicurezza alimentare e la protezione ambientale; la prevenzione, la gestione e la risoluzione dei conflitti e delle emergenze umanitarie.

[19] A causa del disordine imperante a Mogadiscio, le nuove istituzioni entrarono in funzione a Baidoa e Jowhar. Esse erano articolate in una Carta Costituzionale transitoria, una Presidenza della Repubblica, un Parlamento e un Governo di transizione, con a capo un Primo ministro.

[20] Dossier Somalia. Sviluppi di situazione, Contributi di Istituti di ricerca specializzati, Giugno 2006, n. 48, Senato della Repubblica, in http://www.senato.it/documenti/repository/lavori/affariinternazionali/approfondimenti/48.pdf.

[21] Harakah al-Shabaab al-Muja’eddin (Movimento dei giovani Muja’eddin), noto più semplicemente come al-Shabaab, è il gruppo fondamentalista cresciuto all’ombra delle Corti Islamiche, come avanguardia militare dell’organizzazione, dalla quale ha acquisito sempre maggiore autonomia a partire dall’ingresso in Somalia delle forze armate etiopi nel 2006.

[22] Nino Sergi, Somalia: Incubo o occasione per la comunità internazionale, in «Dossier Somalia», Working Paper Link 2007 (Consortium of Italian NGOs),pp.14-28, p. 24, in http://www.link2007.org/assets/files/documenti/DossierSomalia_Link2007.pdf.

[23] Si tratta della regione autonoma, non secessionista, situata nel nord-est del Paese che, dopo la conferenza di Nairobi – con l’elezione del Presidente del Governo Federale transitorio, nella persona di Abdullahi Yusuf Ahmed (dal 2004 al 2008), e il conseguente riconoscimento dell’autorità centrale rappresentata dal Governo transitorio –, è stata “riassorbita” nella compagine nazionale.

[24] Matteo Guglielmo, La Somalia tra cambi di strategie e speranze, 9 settembre 2011, in http://temi.repubblica.it/limes/la-somalia-tra-cambi-di-strategie-e-speranze/26434.


 

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About Maria Concetta Fogliaro: Maria Concetta Fogliaro si è laureata in Scienze Politiche presso l’Università di Bologna, discutendo una tesi in Storia e Istituzioni dei Paesi afro-asiatici dedicata al ‘fallimento’ dello Stato in Somalia e alla conseguente missione di peace enforcement («Operazione Restore Hope») guidata dagli Stati Uniti fra il 1992 e il 1993. Scrive per la testata giornalistica on line www.valorelavoro.com e collabora con la redazione operativa di "Inchiesta" e "Inchiestaonline"

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